metrica e lingua
Per metrica si intende l’insieme delle regole che governano il discorso poetico (o in versi), in quanto distinto da quello in prosa (in antico, oratio soluta, sciolta dalle regole della versificazione). Attengono in prevalenza a fenomeni mensurabili o computabili (poco diffuso, per definire lo studio scientifico della metrica, è il termine metricologia; più usato metricologo per «studioso di metrica»). Le regole metriche – che in passato erano dotate di efficacia normativa, mentre oggi rivestono quasi solo un valore storico-descrittivo – riguardano: la ➔ prosodia, e in particolare le modalità di riconoscimento e di computo delle sillabe metriche, o posizioni (e dei relativi accenti), e la natura e funzioni della ➔ rima e del ritmo; la ➔ versificazione (modalità di costituzione e riconoscimento delle diverse tipologie di verso); la natura (strofica o non strofica) e la destinazione (lirica o non lirica) delle diverse forme metriche.
Il progressivo diffondersi, tra fine Ottocento e Novecento, della versificazione libera (non soggetta al patrimonio normativo che aveva istituzionalmente caratterizzato, anche se con continue evoluzioni, la scrittura poetica ‘regolare’ dalle origini fino al tardo Ottocento) ha rivoluzionato l’attitudine dei poeti, le aspettative dei lettori-esecutori e le finalità degli studi di metrica e di stilistica. In accezione storica, il termine metrica designa altresì le consuetudini metriche di un autore o di una stagione poetica (metrica pascoliana, metrica neoclassica). Secondo le regole della metrica barbara sono composte le poesie in lingua italiana che si propongono, con vari artifici, di adattare alla prosodia dell’italiano le regole della metrica classica (così le Odi barbare di ➔ Giosuè Carducci).
La metrica italiana, come in genere la metrica delle lingue che non riconoscono l’opposizione di quantità vocalica (lunghe e brevi), è di tipo accentuativo e non quantitativo. Elettivamente, il termine prosodia si applica allo studio della metrica classica, di tipo quantitativo (fondata com’è sul regolato alternarsi di vocali – o meglio sillabe – lunghe e brevi, a formare piedi, metri e versi), in essa studiando la successione di tempi forti e di tempi deboli, di arsi e di tesi, e dei relativi ictus (o accenti prosodici), anche ai fini della loro corretta scansione. Prescindendo dall’accezione del termine prosodia in linguistica, nella metrica italiana si considerano fenomeni prosodici, indipendentemente da valutazioni – per l’italiano non rilevanti – di quantità vocalico-sillabica, quelli che attengono alla corretta identificazione (e scansione) del verso. In particolare, quelli che si riconducono al sillabismo, all’accento (ritmo) e alla ➔ rima.
Se l’➔ endecasillabo è un verso di 11 sillabe recante l’ultimo accento sulla decima, e il ➔ settenario un verso di 7 sillabe recante l’ultimo accento sulla sesta, solo l’applicazione delle convenzioni ritmico-prosodiche consente di non considerare l’endecasillabo dantesco «la somma sapïenza e ’l primo amore» (Inf. III, 6) un verso di 12 sillabe (con accento, anomalo, di quinta), o il settenario petrarchesco «Chiare, fresche e dolci acque» (Canz. CXXVI, 1) un verso di 9 sillabe. La possibilità (o meglio la necessità) di riconoscere – da parte sia del versificatore sia del suo esecutore esperto di metrica – nei versi citati, rispettivamente, un endecasillabo e un settenario regolari dipende, tra l’altro, dalla convenzione prosodica, di seguito illustrata, che regola la scansione degli incontri vocalici.
Alcuni metricologi hanno proposto di adottare il termine generale di sillabismo per indicare il numero di una serie di sillabe computato secondo le regole della metrica (di un determinato sistema linguistico e culturale).
L’isosillabismo è il criterio, vigente nella metrica italiana (e romanza), in base al quale due versi si considerano identici se identico è il numero delle sillabe metriche che li compongono. In particolare, due versi sono isosillabici (e costituiscono lo stesso tipo di verso) se prevedono nella stessa posizione (metrica) l’ultima sillaba tonica: due versi sono endecasillabi se recano l’ultimo accento in decima posizione (condizione necessaria ma non sufficiente: per essere tali, i due versi dovranno rispettare anche le altre regole ritmico-accentuative previste per quella misura di verso).
Il concetto di identità sillabica si riferisce al computo delle sillabe metriche, e non delle sillabe in quanto tali (➔ sillaba): deve tener conto, cioè, delle convenzioni relative al trattamento degli incontri vocalici all’interno di parola (che possono dar luogo a fenomeni di dieresi o sineresi) o tra parole contigue (con fenomeni di dialefe o sinalefe). Si ha dieresi quando un incontro di ➔ vocali, stimato monosillabico, all’interno di parola (per es., in un ➔ dittongo ascendente) produce due sillabe metriche: come nei latinismi, frequentemente scanditi in forma dieretica (nel citato verso dantesco, sapïenza è quadrisillabo, e perciò l’accento ritmico è regolarmente in sesta, e non in quinta, posizione). La sineresi è il fenomeno opposto, a seguito del quale, per es., nella lirica antica i provenzalismi gioia, noia, normalmente bisillabi, possono essere monosillabici (mai però in fine di verso).
L’incontro di due vocali tra due parole contigue produce in genere sinalefe: le due sillabe contano, cioè, per una (nel citato endecasillabo dantesco si ha sinalefe tra sapïenza ed e, tra primo e amore; nel citato settenario petrarchesco, tra fresche ed e, tra dolci e acque). Molto più raro, e in genere evitato nella lirica di tradizione petrarchesca, il fenomeno opposto della dialefe, per il quale le due sillabe continuano a contare per due: per es., quando la prima sia tonica (nel verso di Petrarca: «Ma pur sì aspre vie né sì selvagge», Canz. XXXV, 12, per ragioni ritmiche si ha dialefe tra sì e aspre e sineresi in vie). La dieresi può essere segnalata mediante due punti sovrascritti al suono vocalico prosodicamente autonomo.
La corretta applicazione delle regole prosodiche di sillabazione è implicata nella definizione stessa di sillabismo (Menichetti 1993: 173-312, 313-359). Inoltre, dato che l’identità di due versi dipende – in forza del principio dell’isosillabismo – dalla condivisa posizione dell’ultima tonica, la presenza o meno di sillabe atone dopo l’ultima tonica non è rilevante nel computo sillabico. In altri termini, due versi (fatti salvi l’applicazione nel computo delle norme prosodiche relative agli incontri vocalici e il rispetto dei vincoli ritmici) sono endecasillabi se recano l’ultimo accento tonico sulla decima, a prescindere dal fatto che l’ultima parola del verso sia ossitona, parossitona o proparossitona (tronca, piana o sdrucciola). Un verso accentato sulla decima, indipendentemente dal fatto che termini per parola tronca, piana o sdrucciola, è comunque un endecasillabo (tronco, piano o sdrucciolo). I versi tronchi e sdruccioli sono peraltro relativamente rari nell’uso libero (e tendenzialmente rifiutati dalla tradizione lirica di ascendenza petrarchesca), anche in ragione dell’assoluto prevalere, in italiano, delle parole accentate sulla penultima (piane; ➔ parola italiana, struttura della): i versi sdruccioli (e anche tronchi) sono tipici invece di alcuni generi metrici, come, per es., la terza rima bucolica (Iacopo Sannazaro) o l’ode-canzonetta (➔ canzone). L’isosillabismo non ha a che vedere con l’isometria (ovvero omometria) di un componimento: con il fatto cioè che un componimento sia composto di versi tutti della stessa misura. In altri termini, gli endecasillabi sono, per definizione, versi isosillabici (e lo sono anche gli endecasillabi tronchi o sdruccioli); isometrica (ovvero omometrica) è una canzone le cui stanze siano composte di tutti endecasillabi, eterometrica una canzone le cui stanze siano composte di endecasillabi e settenari alternati secondo le regole previste per tale forma. Si definisce invece polimetro un componimento formato da versi di diversa misura che si alternano senza un preciso schema.
È stato notato (Contini 1986: 235 ad indicem; cfr. Menichetti 1993: 153-158 e Beltrami 20024: 93-94) che talora, soprattutto nella versificazione di tipo giullaresco o laudistico, si ripropone con frequenza che non può giudicarsi accidentale (e tanto meno ricondursi a guasti endemici della tradizione) il fenomeno del cosiddetto anisosillabismo, e cioè la compresenza di versi non omometrici (l’oscillazione è in genere di una sillaba, o al massimo di due, in più o in meno rispetto alla misura di base) in componimenti di per sé, o tendenzialmente, omometrici. In questo tipo di versificazione – circoscritto nei generi, nelle forme metriche implicate e nel tempo: si riscontra in testi al più tardi quattrocenteschi – tale oscillazione è giudicata ammissibile, tenendo per ferma l’identità del verso metrico di base. Così, in particolare, avviene nel cosiddetto otto-novenario delle laudi (tipico, tra gli altri, di Iacopone da Todi), che contempla l’alternanza sullo stesso livello (e, almeno a prima vista, senza speciali regole: per quanto alcune linee di tendenza, sul piano ritmico, siano riconoscibili) di ottonari e di novenari.
In senso generale, il ➔ ritmo nasce dal ricorrere, nel fluire temporale del discorso, di elementi significativi dal punto di vista del metro, quali sono gli accenti obbligati (e quelli facoltativi) nella successione sillabica, le sequenze di suoni uguali (che danno luogo ai fenomeni della rima, dell’assonanza e della consonanza, ma anche dell’allitterazione), i raggruppamenti sillabici (computati secondo le regole della prosodia) che danno luogo ai versi.
Secondo Beltrami (20024: 20-21), nel metro si possono identificare gli elementi – prescritti dalla norma metrica – che presiedono (obbligatoriamente) alla costruzione e al riconoscimento di un verso, di una strofe o di una forma metrica; nel ritmo, insieme ai precedenti elementi, e più latamente, quelli di fatto adottati di volta in volta dal versificatore (per es., quelle rime e quello schema rimico), se ne possono identificare altri di natura non obbligata, e dunque rispondenti alle autonome scelte dell’autore (posizione degli accenti secondari, o facoltativi; libera alternanza degli schemi accentuativi in versi identici per tipologia; scelta e impasto dei suoni in relazione agli accenti ed eventualmente alle rime; rapporti tra unità sintattiche e unità metriche, ecc.) e talora anche a quelle dell’esecutore (Menichetti 1993: 360-446).
In quest’accezione, il ritmo individuale del testo nascerebbe perciò dall’attualizzarsi delle norme (di carattere istituzionale) prescritte dal metro: per cui l’indagine metrica, in quanto rivolta allo studio degli aspetti ritmici (nell’accezione qui precisata), viene ad assumere in questa sua parte prerogative e connotati propri dell’analisi stilistica. In un’accezione teoricamente meno raffinata e più circoscritta, ma invalsa nell’uso, con ritmo si allude più specificamente alla struttura accentuativa propria di ciascun verso: all’ordine di successione, cioè, degli accenti ritmici, ai vincoli che presiedono alla loro alternanza, all’obbligatorietà o meno di tali accenti nel definire l’appropriata scansione delle singole tipologie di verso (per una descrizione analitica dei vari tipi di verso, ➔ versificazione; per gli schemi accentuativi dei due versi principali della versificazione italiana, ➔ endecasillabo e ➔ settenario).
Nella metrica italiana, la produzione del verso, o versificazione, obbedisce precipuamente a regole di computo sillabico (a loro volta correlate a norme prosodiche: v. sopra) e a vincoli di natura ritmica (Menichetti 1993: 99-172). La presenza o meno della rima, nelle sue varie forme, ed eventualmente di assonanze o consonanze, non attiene alla composizione del verso in sé, ma piuttosto alle modalità (vincolate o libere) del correlarsi di più versi, della stessa o di diversa misura, all’interno di un componimento.
Il verso italiano (e romanzo) si definisce in funzione del numero delle sillabe che lo formano, e da queste prende di norma il nome; con l’avvertenza che la denominazione fa riferimento alla forma piana del verso, e non alla posizione – che si è detto decisiva – dell’ultima sillaba tonica. Avremo pertanto endecasillabi (con ultimo accento tonico sulla decima), decasillabi, novenari, ottonari, settenari (➔ settenario), senari, quinari, quadrisillabi, trisillabi (un dettagliato catalogo dei versi italiani in Beltrami 20024: 181-205).
Sono possibili anche altre forme doppie (doppio ottonario, doppio settenario, doppio senario, doppio quinario). Decisamente meno diffuse, per quanto possibili, le denominazioni del tipo: eptasillabo, pentasillabo, quaternario, ternario. Molto rare, e storicamente spiegabili, le denominazioni di versi italiani che non alludono al novero sillabico: come nel caso dell’alessandrino, verso di derivazione francese (alexandrin) destinato a vita effimera nella poesia antica, e il martelliano (dal nome del poeta Pier Iacopo Martelli), o doppio settenario, che a sua volta si riconduce all’alessandrino. Di per sé poco significativa, anche se ha goduto di una certa fortuna nella critica, la distinzione, risalente a Dante, tra versi imparisillabi e parisillabi (Beltrami 20024: 29-31).
La versificazione libera, nata verso la fine dell’Ottocento, prescinde dalle regole della versificazione regolare (salvo poi recuperarne alcune con intenti di sottolineatura stilistica o espressiva), e non consente dunque, almeno in principio, di fornire alcuna descrizione aprioristica del verso libero. Di fatto, peraltro, il versificatore novecentesco non sempre prescinde dalle norme della tradizione regolare (di cui è intrisa la sua cultura): l’analisi metrica consente, di volta in volta, di verificare se, in che misura e con quali intenzioni le norme della versificazione regolare interagiscano con, o possano rendere conto di, aspetti della versificazione libera, da valutare comunque caso per caso (Beltrami 20024: 22-31, 40-66, 161-233; Menichetti 1993: 89-98).
Due parole sono in ➔ rima (Beltrami 20024: 206-221; Menichetti 1993: 506-590) se sono foneticamente identiche (omofone) nella loro parte finale, a partire dalla vocale tonica inclusa (a prescindere, nel caso di e e di o, dal timbro, o apertura, dei rispettivi suoni). Qualora la sillaba tonica contempli la presenza di suoni, consonantici e/o semiconsonantici (➔ consonanti; ➔ semivocali), precedenti la vocale tonica, questi non concorrono alla formazione della rima: anche se non si esclude che tali suoni possano essere identici, ma in tal caso si parlerà di rime ricche.
Sono in rima due o più versi terminanti con parole in rima. La presenza di rime in posizioni obbligate, o comunque vincolate al rispetto di norme, definisce la struttura rimica delle principali forme metriche (funzione strutturante della rima). La struttura rimica si riassume convenzionalmente nello schema rimico (come, per es., in ABAB: schema a rime alterne; ABBA: a rime incrociate; CDC CDC: a rime replicate, ecc.).
Rima è anche la porzione di parola ‘in rima’: suono e tono sono parole in rima, e la loro rima è -ono (convenzionalmente, suono : tono, da leggersi «suono rima con tono»). Di adozione relativamente recente è il termine rimante a designare una parola in rima (per es., i rimanti della Divina Commedia): è sinonimo di parola-rima. La valutazione dei rimanti, per la posizione esposta di tali parole in punta di verso, assume speciale rilievo nell’analisi stilistica. Alla regola della perfezione della rima sono ammesse rare deroghe, in contesti tecnici o culturali precisamente definibili. Per es., nei versi sdruccioli (rima accentata sulla terz’ultima) è possibile che l’identità di alcuni suoni successivi alla tonica non sia completa, senza che per questo sia inficiata la regolarità dello schema rimico. Nella lirica antica sono del resto rime a tutti gli effetti le cosiddette rime culturali, come le rime siciliane (➔ Scuola poetica siciliana), che altrimenti ricadrebbero, a rigore, nella categoria delle rime imperfette (per dettagli, ➔ rima).
Anche nel sistema generale della metrica italiana è riconoscibile una regola culturale nella definizione della perfezione della rima, secondo la quale è rima perfettamente non soltanto con sé stessa (come nella metrica provenzale) ma anche con é, e ò rima con sé stessa ma anche con ó (sono pertanto in rima parole come viene e pene o cuore e amore). Figure foniche diverse dalla rima, e variamente significative nella definizione metrico-stilistica di un testo, sono le assonanze (sono identiche solo le vocali, a partire dalla sillaba tonica, come in mare e cane) e le consonanze (sono identiche le consonanti, come in calore e colare). Nella versificazione libera viene a cadere ogni vincolo ‘strutturale’ di rima: ciò non vuol dire che le figure foniche perdano ogni ruolo, acquistando anzi rilievo addirittura maggiore, qualora siano adottate, proprio in virtù della loro eccezionalità.
Più versi, della stessa o di diversa misura, che si succedano rispettando una medesima formula sillabica (una successione obbligata in relazione alla misura) e un medesimo schema di rime danno vita a strofi (o stanze). Formula sillabica e schema rimico si esprimono convenzionalmente indicando con le stesse lettere (maiuscole o minuscole a seconda della lunghezza dei versi) i versi in rima e specificandone con una cifra la misura. Lo schema della canzone petrarchesca Chiare, fresche e dolci acque (Canz. CXXVI) è perciò: a7b7C11a7b7C11c7d7e7e7D11f7F11.
Un testo strofico è per definizione pluristrofico (così la canzone, e in genere la ➔ ballata: anche se si hanno ballate monostrofiche – formate da una ripresa e da una strofe –, e isolate stanze di canzone). Combinazioni strofiche possono considerarsi anche raggruppamenti minimi di versi, quali il distico, il tristico (o terzetto o terzina) e la quartina. In accezione estesa, si definiscono strofi anche le partizioni maggiori di un testo poetico (segnalate in genere da salto di rigo), pur se non obbediscono alle regole enunciate (per es., le stanze o strofi della maggior parte dei Canti leopardiani). Le principali forme metriche della tradizione italiana rispettano regole predeterminate in relazione alla scelta dei versi, dello schema delle rime e del tipo e numero di strofi. Sono forme liriche maggiori la canzone (o meglio canzone antica, con le sue molte evoluzioni, quali l’ode-canzonetta, la canzone-ode e la canzone leopardiana, e con la ➔ sestina), la ballata (ballata antica, lauda-ballata, barzelletta, canzonetta), il ➔ sonetto; sono forme non liriche (che solo in parte possono dirsi narrative) la lassa, il distico, la quartina, il serventese, la ➔ terza rima (e il capitolo ternario), l’➔ ottava rima, la nona e la decima rima, ecc. In alcuni casi, la forma metrica diventa indissolubile connotato di un genere: così, le laude sono quasi sempre in forma di laude-ballate, le composizioni bucoliche quattrocentesche sono sempre in terzine sdrucciole, i cantari (con rarissime eccezioni) in ottave (per un catalogo completo delle forme metriche italiane v. Beltrami 20024: 245-376).
Il discorso poetico regolare si caratterizza per l’interferenza tra strutture discorsive libere, articolate sintatticamente (frasi o periodi), e strutture discorsive discrete, articolate metricamente (versi, strofe o altre unità metriche). Mentre le prime sono, di per sé, dotate di significato, le seconde prescindono, in linea di principio (e cioè nelle caratteristiche che le identificano: numero delle sillabe, schema degli accenti, ricorsività dei suoni), dalla nozione di significato.
Nella versificazione regolare può verificarsi o meno la coincidenza tra partizioni sintattiche (e pause, soprattutto forti) del discorso e partizioni metriche (fine di verso; fine di gruppi significativi di versi: distici, tristici, quartine, ecc.; fine di stanza o di strofe). Le scelte di volta in volta operate dal versificatore, all’interno di un ventaglio di opzioni vastissimo, assumono, com’è ovvio, forte rilevanza stilistica (sul rapporto metro-sintassi cfr. in generale Beltrami 20024: 61-66). Che, all’interno di un’interferenza nella quale la libertà di opzioni è assai elevata, esistano tuttavia tacite convenzioni o consuetudini è dimostrato, tra l’altro, dalla tendenziale coincidenza di accenti ritmici e accenti di parola, e dalla tendenziale coincidenza di pause sintattiche forti e partizioni metriche maggiori.
Esempio tipico (e stilisticamente marcato) di non corrispondenza dell’articolazione sintattica con l’articolazione metrica è costituito dall’enjambement. Qualora un sintagma, o nesso sintattico più o meno stretto (per es., di aggettivo + nome, o di nome + aggettivo, ecc.: per un’ampia casistica cfr. Beltrami 20024: 63-64), venga a disporsi parte in fine di verso, parte in apertura del verso successivo (o, più generalmente, a ‘scavalcare’ il limite di un’unità metrica), si ha un enjambement («scavalcamento»), tecnicismo francese abitualmente adottato anche in italiano (alquanto marginale il sinonimo inarcatura, ancora meno frequenti accavallamento, spezzatura; rigetto ricalca il fr. rejet, che indica la parte del nesso in apertura della seconda unità). Se ne hanno esempi in Dante («sol con un legno e con quella compagna / picciola da la qual non fui diserto», Inf. XXVI ; «Mostrava come in rotta si fuggiro / li Assiri …», Purg. XII, 58-59) e in Petrarca («… e le parole / sonavan altro che pur voce umana», Canz. XC, 10-11), ma è frequentissimo nell’intera storia poetica dell’italiano.
Caratteristica della versificazione libera può dirsi la non coincidenza della segmentazione sintattica con la segmentazione in versi, posto che i versi liberi non siano di per sé riconoscibili se non in virtù dell’artificio del cambio di riga, o a capo (➔ versificazione). E ciò perché, come è stato notato, la versificazione (e anche, dunque, la versificazione libera) nasce in «un contesto culturale entro il quale si ammette, come cosa scontata, la distinzione tra verso e prosa» (Beltrami 20024: 19).
Beltrami, Pietro G. (20024), La metrica italiana, Bologna, il Mulino (1a ed. 1991).
Contini, Gianfranco (1986), Breviario di ecdotica, Milano - Napoli, Ricciardi.
Menichetti, Aldo (1993), Metrica italiana. Fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova, Antenore.