Metropolitane
di Guido Martinotti
Possiamo definire 'area metropolitana' il territorio legato a una o più città centrali da rapporti di interdipendenza funzionale, misurata direttamente o tramite l'individuazione di aree di omogeneità o propinquità. Questa definizione ci rimanda l'immagine famigliare di una grande conurbazione, o zona urbanizzata, formata da un nucleo centrale e da un ampio territorio cosparso di insediamenti collegati tra loro da una fitta rete di trasporti e vie di comunicazione. Da un punto di vista evocativo, dunque, il concetto di area metropolitana è semplice e di immediata comprensione. Analiticamente, invece, questo concetto presenta non pochi problemi che derivano dalla difficoltà di tradurre l'idea di 'interdipendenza funzionale' o di 'elevata integrazione economica e sociale', in un ambito territoriale ben definito e dalle complessità amministrative e di governo locale connesse con diverse possibili interpretazioni del raggio fisico di estensione di tali interdipendenze. A sua volta questa difficoltà nasce dalla circostanza che la forma metropolitana non è una semplice estensione della forma urbana, ma una sua trasformazione evolutiva. Come dice N. S. B. Gras (v., 1922, p. 181): "le grandi città, le città più importanti [...] divennero lentamente le metropoli economiche". In altri termini la metropoli non è solo una 'città più grande', ma una forma di insediamento urbano relativamente recente da un punto di vista storico e caratterizzata in primo luogo dall'assenza di quel confine, al tempo stesso fisico e simbolico che, con le mura, ha nei millenni definito i limiti della città. Per questa ragione una definizione puramente formale di 'area metropolitana' non è sufficiente a mettere in chiaro i problemi concettuali e pratici che essa sottende ed è quindi necessario inserire il tema in un contesto più ampio, esaminando gli sviluppi della forma urbana che hanno portato alla morfologia metropolitana e le complessità tecnico-concettuali della sua definizione.
Tra i molti segni universalmente individuati per fissare il fatidico passaggio del millennio, uno è rimasto alquanto in ombra. Eppure riguarda la più grande invenzione della specie umana: la città. Dieci o dodicimila anni circa dopo la prima comparsa di questa straordinaria invenzione e cinquemila circa dopo il suo definitivo assestarsi nell'area mesopotamica, proprio a cavallo della fine del XX secolo, o più precisamente, in base al tipo di stima usata, tra il 1995 e il 2005, la forma urbana conquista la maggioranza della popolazione mondiale, superando la soglia del 50% del totale planetario. Tuttavia nelle regioni del mondo in cui vivono le popolazioni più ricche, tale soglia è stata superata da più di un secolo e, in alcune di esse, la popolazione urbana si avvicina alla totalità. Non è sorprendente perciò che durante questo lungo cammino la forma della città si sia progressivamente modificata attraverso una ramificata serie di cicli successivi. La città anatolica di Çatal Hüyük, invenzione così nuova nella storia della specie umana da non avere ancora adottato le porte delle abitazioni, in cui si entrava dal tetto, fu e rimase per millenni una singolarità. Le città mesopotamiche del quarto e terzo millennio prima della nostra era, pur formando un sistema urbano complesso, sono caratterizzate da cicli continui di crescita e declino, come risulta chiaramente dall'analisi stratigrafica. La polis greca, che rimane ancora uno dei modelli ideali di vita urbana, sorge dopo un lungo medioevo dalla frammentazione delle civiltà palaziali dell'epoca micenea. Le città europee del tardo Medioevo sorgono dopo secoli di scomparsa della vita urbana da un'Europa ridotta, dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, come dice Braudel, a una immensa "foresta con qualche buco". E la città industriale si sviluppa in genere sulla intelaiatura dell'urbanizzazione precedente (Londra, Lione e Torino sono sempre lì) ma la trasformazione è profonda, perché, come dice Giddens, la città è un esempio delle istituzioni moderne che hanno "un'ingannevole continuità con ordinamenti sociali preesistenti". Infatti "gli insediamenti urbani moderni spesso incorporano i siti delle città tradizionali di cui appaiono come la semplice estensione. In realtà l'urbanesimo moderno è organizzato in base a principî assai diversi da quelli che distinsero la città premoderna dalla campagna in precedenti periodi" (v. Giddens, 1990, p. 6). E, con la trasformazione metropolitana, oggi stiamo assistendo a una nuova fase dei cicli di urbanizzazione (e in effetti in molti casi subendola) che è difficile non considerare almeno altrettanto rivoluzionaria di quella che ha dato vita alla città industriale. Con l'aggiunta non irrilevante che le dimensioni raggiunte dal fenomeno influenzano direttamente il contesto ambientale dell'intero pianeta, circostanza del tutto nuova nella storia dell'urbanizzazione e della civiltà umana in generale.È vero che ogni generazione della nostra epoca deriva un particolare orgoglio dal collocarsi sul crinale della storia, ma le numerose dichiarazioni di questa natura vanno sempre prese con estrema cautela, perché il buon senso insegna quanto sia difficile giudicare l'importanza e la portata dei cambiamenti storici mentre essi sono in corso. In effetti, dalla Rivoluzione francese a quella sovietica, allo scoppio della bomba atomica, la nostra epoca è fin dall'inizio dominata da eventi simbolici, dal taglio della testa di Luigi XVI alla caduta del Muro di Berlino, che la crescente potenza dei mezzi di comunicazione di massa e la riflessività tipica dell'era moderna non stentano a catalogare come indiscutibili punti di svolta. Ma è anche vero che è proprio la frequenza e la portata di questi eventi nel nostro tempo a renderli in ultima analisi poco atti a segnare i confini di utili periodizzazioni storiche. Tuttavia l'osservazione dei molti e profondi mutamenti in corso nella società contemporanea fa parte di un genuino sforzo di comprensione del significato e della portata dei grandi cambiamenti ai quali assiste chi vive nella nostra epoca. Se nessun singolo evento può essere assunto come segnalibro della storia, l'insieme di molte tendenze osservabili e osservate negli ultimi anni con crescente accuratezza, porta a credere che l'entrata nel nuovo secolo coincida anche con l'avvento di un complesso sistema fisico e sociale che McKibben (v., 1998) definisce "Terra 2" (o TerraDue), cioè "un pianeta diverso".In cosa consisterebbe questa diversità? Come dice Julian Simon, commentando le difficoltà crescenti delle compagnie di assicurazioni di fronte al moltiplicarsi dei disastri naturali, "una previsione basata su dati accumulati nel passato può essere fondata se possiamo ragionevolmente presumere che il passato e il futuro appartengano al medesimo universo statistico. Se così non è le assicurazioni non potrebbero fare previsioni, ma si affiderebbero puramente al caso. Qualche anno fa la grande assicurazione elvetica Swiss Re, dopo aver pagato 291,5 milioni di dollari in risarcimenti per il ciclone Andrews, pubblicò sul 'Financial Times' un annuncio in cui si vedeva il logo della compagnia piegato dal vento dell'uragano, una raffigurazione assai convincente dei rischi, è il caso di dirlo, che stanno di fronte alla società umana. Le compagnie di assicurazioni svolgono un'attività eminentemente pratica e sono per loro natura abituate a lavorare con il rischio, ma la base della loro capacità predittiva è la stabilità del mondo. Se questa stabilità viene meno, forse dobbiamo considerare ciò un segno che ci si trova su un nuovo pianeta: TerraDue, un mondo che non appartiene al medesimo universo statistico di quello che la specie umana ha conosciuto fin qui. E la diversità è strettamente dipendente dall'aumento della popolazione urbana e, più ancora, dall'evoluzione della grande città in metropoli. E questo perché cambia il rapporto tra popolazione e risorse. Nelle economie di caccia e di raccolta il consumo giornaliero di energia di un individuo della specie umana era di 2.500 calorie, tutte per il cibo, equivalenti al consumo giornaliero di un delfino. Un contemporaneo usa 31.000 calorie, per la maggior parte estratte da combustibile fossile. Negli Stati Uniti il consumo medio è di sei volte tanto, poco meno di 200.000 calorie, l'equivalente del consumo della più grande delle balene. Dal Neolitico in poi ciascuno di noi ha una parte della terra destinata al suo sostentamento, ma oggi oltre alla terra ogni persona richiede un piccolo pozzo di petrolio, una piccola miniera, un pezzo di foresta che rappresentano l"impronta' che ognuno di noi lascia sulla Terra. Alcuni scienziati di Vancouver hanno cercato di calcolare quanto sia larga questa impronta. Circa 1.700.000 di persone vivono nel milione di acri che circonda la città, ma hanno bisogno di 21,5 milioni di acri per mantenerli - campi di grano in Alberta, petrolio in Arabia Saudita, piantagioni di pomodoro in California [...] e persone che vivono a Manhattan dipendono da risorse lontane non meno degli astronauti sulla MIR" (ibid., p. 57).Oggi ci troviamo, per generale consenso, nel momento di passaggio tra un modello di città sviluppatosi attorno alle strutture produttive e sociali dell'economia industriale manifatturiera e un nuovo modello di cui sappiamo ancora poco. Non molto di più di ciò che, con sorprendente lucidità, H. G. Wells aveva intuito nel 1902, vale a dire che la città "si diffonderà finché non avrà conquistato grandi aree e molte delle caratteristiche di quella che oggi è la campagna [...]. La campagna assumerà a sua volta molte delle qualità della città. L'antica antitesi [...] scomparirà e le linee di confine cesseranno di esistere" (v. Wells, 1902). E così è effettivamente avvenuto. Alla fine del secolo, oltre metà della popolazione francese vivrà nel cosiddetto périurbain, l'area di insediamenti che si stende tra i confini delle città storiche e il territorio a bassa densità che per pigrizia mentale continuiamo a chiamare campagna (v. Pumain e Godard, 1996). Con qualche differenza tra i diversi Stati membri dell'Unione, è una situazione che tende a generalizzarsi in tutta l'Europa (v. Masser, e altri 1992). In Italia questa proporzione rimarrà tuttavia leggermente inferiore a causa del fitto insediamento urbano tradizionale, diffuso su tutto il territorio, che assorbe popolazione anche in città medio-piccole, sottratte alla dominanza metropolitana. Anche la tendenza italiana, però, muove nella medesima direzione. Questo semplice indicatore quantitativo è senza ombra di dubbio il dato più saliente del mutamento della morfologia urbana contemporanea, che perpetua, portandolo a conseguenze estreme, quel fenomeno della suburbanizzazione legato al formarsi della prima generazione metropolitana, già individuato da studiosi americani come Harlan Paul Douglass (v., 1925) nei primi decenni del secolo. Si tratta di un dato importante soprattutto perché fornisce una misura del peso reale che ha assunto nel sistema urbano quell'area indistinta che viene generalmente definita con i termini di hinterland, banlieue, metropolitan fringe, area metropolitana, e simili. Tutti termini che sottolineano, quasi distrattamente, l'aspetto residuale di un luogo che viene considerato derivato e marginale: 'non luoghi' li definisce, con un termine di grande successo, ma di scarso spessore analitico, Marc Augé (v., 1992); l'idea è stata originariamente formulata da Melvin Webber (v., 1964) con l'espressione 'non-place urban realm', ma viene di solito associata al nome di Marc Augé con un automatismo che espropria ingiustamente il proponente iniziale. In Italia questo luogo non viene riconosciuto come parte integrante e, si direbbe, 'legittima', della città. Non dalla pubblicistica giornalistica, che nel nostro paese ha preferito rifugiarsi nella retorica dei libri di testo, distinti un tempo nelle scuole elementari in testi per le 'classi urbane' e in testi per le 'classi rurali', di una Italia popolata solo di poche Milano e tanti Rio Bo. E neppure dalla retorica istituzionale, che non è da meno (e forse non è un caso) perché dopo anni di dibattito non è neppure riuscita a dare di questa parte del territorio una qualsivoglia definizione, ancorché puramente statistica o amministrativa.
Nella vulgata corrente prevale ancora la visione ottocentesca della contrapposizione tra città e campagna, ma questa contrapposizione è fittizia ed è il prodotto di concezioni obsolete, anche se tuttora ampiamente diffuse nell'opinione pubblica. Il geografo svedese Staffan Helmfrid nota che "gli abitanti delle città desidererebbero trovare nel paesaggio il prodotto di una società rurale che vive in armonia con se stessa e con la natura, immutabile e per sempre congelata in una mitica Età dell'Oro". E rimproverano agli agricoltori di contaminare questa natura con le loro pratiche agricole sempre più meccanizzate, dipendenti dall'impiego di prodotti chimici e distruttive del tessuto rurale tradizionale. Ma è proprio la crescita impetuosa delle città - che, in duecento anni, con un ritmo progressivamente accelerato, ha invertito i termini del rapporto tra popolazione rurale e popolazione urbana, portandolo dalla percentuale del 90% e del 10% nei 58 secoli che marcano l'insediamento agricolo europeo, al 10% dell'attuale popolazione rurale in questo continente e al 90% di quella urbana -, a richiedere una sempre maggior produttività agricola. La quale a sua volta, porta alla devastazione dell'insediamento rurale tradizionale.Nel migliore dei casi, quando se ne parla, si immagina la campagna come un'area del tutto autonoma dalla città, commettendo un grave errore, sottolineato con forza da Deyan Sudjic (v., 1993, p. 334). "Immaginate - egli scrive - il campo di forza attorno a un cavo dell'alta tensione, scoppiettante di energia e lì lì per scaricare un lampo a 20.000 volt in uno qualsiasi dei punti della sua lunghezza, e avrete un'idea della natura della città contemporanea". Il richiamo di Sudjic all'energia elettrica offre un felice spunto per un raccordo con il tema delle nuove tecnologie. Infatti, di pari passo con la diffusione della motorizzazione privata, lo sviluppo delle tecnologie dell'informazione ha dato una spinta decisiva alla formazione della nuova città. Da un lato cambiando l'organizzazione del lavoro, che si deistituzionalizza e distribuisce nello spazio secondo un modello ormai largamente noto che va sotto il nome di economia post-fordista. Dall'altro per i cambiamenti indotti dalle 'macchine per l'abitare'. In parte si è trattato di un processo simile a quello che è avvenuto in fabbrica, con l'avvento di macchine 'time and labour saving', cioè strumenti che servono a far risparmiare lavoro e tempo, soprattutto alle donne. Ora però questo tempo viene impiegato da beni 'time consuming', tutte quelle macchine che servono a consumare il tempo liberato e di cui ci riempiamo progressivamente la casa. Prima tra tutte il più grande divoratore di tempo che è la televisione, ma anche l'alta fedeltà, le macchine fotografiche, il PC e così via. Le abitazioni diventano più comode, ma contemporaneamente richiedono più spazio e a parità di reddito lo spazio maggiore si trova più lontano dai centri tradizionali. Ed è per questo che statisticamente si constata un fenomeno molto semplice, ma significativo: l'area delle città cresce molto più rapidamente della loro popolazione.Così una nuova città, indistinta, confusa, temuta e poco conosciuta cresce attorno al nucleo tradizionale delle città industriali, si intrufola negli interstizi lasciati liberi dalla deindustrializzazione, li penetra e modifica esattamente come circa mille anni or sono la città medievale è sorta attorno ai castelli feudali in disuso, li ha inglobati e sostituiti. Sono sorte così le città che rappresentano il modello urbano europeo originale, che oggi deve fronteggiare la nuova città diffusa, disordinata e disarmonica, ma 'scoppiettante di energia'. Va da sé che questo scoppiettio è costoso proprio in termini di consumo energetico, come risulta da una ricerca sul consumo di energia di un campione di 32 grandi città contemporanee. Nelle 10 città americane del campione il consumo medio di carburante è di 58.541 megajoule pro capite. Per dare un termine di paragone, nelle 12 città europee il consumo è di 13.280 MJ. Ma a Houston (Texas) raggiunge la cifra da capogiro di 74.510 MJ (v. Young, 1987, p. 173). Nel descrivere Orange County, l'area a sud di Los Angeles che rappresenta la forma più spinta di questa nuova forma urbana, Edward Soja ci fa notare che, come sempre avviene nei momenti di trasformazione, la moltiplicazione dei nomi è un segno del mutamento. "Alcuni hanno chiamato queste amorfe sostituzioni dei sobborghi outer cities o edge cities, altri tecnopoli, tecnoburbia, silicon landscapes, metroplex, postsuburbia. Io li chiamo exopolis o la città fuori [city without] per sottolineare la loro ossimorica ambiguità, la loro pienamente urbana [city-full] non urbanità [non city-ness]" (v. Soja, 1992, p. 95).Un'entità così grande e diffusa solleva inevitabilmente una questione di fondo. Siamo ancora di fronte a un fenomeno sociale unitario, che si chiami città, metropoli o uno dei numerosi altri nomi che gli sono stati attribuiti? Come si governa un'entità tanto complessa? E prima ancora, come rappresentiamo questo oggetto sociologico? Nel loro lavoro sui problemi urbani in Europa, Cheshire e Hay sollevano in modo assai incisivo questa questione. "Perché - si chiedono i due studiosi - un lavoro sui problemi e lo sviluppo urbano non dovrebbe usare nelle sue analisi una definizione famigliare di 'città'? I cittadini di Parigi, Londra, Bruxelles o Milano conoscono perfettamente la loro città e non sanno che farsene di un'entità astratta come la FUR o Functional Urban Region" (v. Cheshire e Hay, 1989, p. 14). In realtà - proseguono i due autori - è vero il contrario e cioè che anche nell'uso comune Parigi, Londra o Milano si riferiscono ormai indistintamente alla città centrale e alla conurbazione, ed è quindi necessario usare una definizione più precisa, diversa da quella amministrativa che "non ha nessun rapporto costante con alcuna definizione funzionale, neppure con quella di area costruita". Essi decidono quindi di usare il termine FUR, Functional Urban Region, che coincide in larga misura con quella che nel linguaggio corrente viene appunto definita 'area metropolitana' (ibid., p. 15).Ma si tratta di una scelta che, se può essere legittima in sede analitica, non necessariamente lo è anche sul piano amministrativo e politico. Le difficoltà individuate da Cheshire e Hay ribadiscono un dato di fatto semplice, ma di notevole importanza: la nuova realtà metropolitana si sovrappone all'antica realtà urbana o municipale senza eliminarla. Le due entità convivono sul territorio e nelle menti degli uomini, sia pure con diversi gradi di identificabilità psicologica, sociale e amministrativa. Non sbagliava quindi il testo della legge 142/90 nel riflettere tale complessità. Sarebbe invece un errore un'operazione di reductio ad unum dell'una entità nell'altra, e cioè annegare l'identità comunale in quella metropolitana o negare la realtà metropolitana in nome di un'identità municipale che, pur persistendo, non è tuttavia più dotata di quella forza che aveva nel passato. D'altro canto è implicito nella legge che per distribuire competenze e funzioni sul territorio occorre a un certo punto tirare delle linee e stabilire dei confini: il problema non è facilmente eliminabile, anche se può essere affrontato con gradi diversi di flessibilità.Ma v'è di più: mentre non è impossibile tradurre in una configurazione territoriale, sia pure con qualche difficoltà, la realtà metropolitana in senso stretto o tradizionale, cioè quella delle metropoli di prima generazione, la situazione attuale è caratterizzata dall'emergenza di una terza entità per la quale è difficile da trovare persino il termine descrittivo. Essa può essere definita variamente come sistema urbano policentrico, regione urbana o città a rete, come da più parti è stato proposto. I termini non mancano: è la loro ricchezza a suggerirci che l'oggetto che si vuol significare è di difficile identificazione. Io ho suggerito di chiamarla 'metropoli di seconda generazione', mettendo l'accento sull'importanza che in questo tipo di agglomerato assumono le popolazioni transeunti, attratte dalle funzioni di consumo o di servizi di alto livello e non dalla residenza o dal lavoro. Quello che è certo è che tale nuovo oggetto è assai ampio e diffuso sul territorio: caratteristica che scoraggia la riproduzione meccanica su questa scala di un apparato politico-amministrativo tratto dalla tradizione amministrativa municipale che, è bene ricordarlo, è di derivazione medioevale.
Per mettere in luce gli aspetti principali di quello che possiamo chiamare 'effetto metropolitano', è opportuno ripercorrere a grandi tappe i diversi momenti dell'uso del termine 'metropolitano', facendo riferimento sia alla letteratura sociologica, in particolare a quella statunitense, sia alla tradizione italiana di studi urbani, le cui evoluzioni sono assai illuminanti ai fini di una comprensione generale del fenomeno. Infatti nella letteratura italiana tratta dalle diverse scienze sociali che si occupano di problemi del territorio (urbanistica, economia e sociologia urbana, geografia umana, diritto amministrativo e altre ancora) il tema delle aree metropolitane ha avuto fortune alterne: non scollegate, come spesso avviene, dall'interesse del mondo politico e del grande pubblico. E poiché al grande sforzo intellettuale e di dibattito politico hanno fatto seguito, come spesso avviene, leggi non applicate, possiamo considerare il caso italiano di particolare interesse per mettere in luce le difficoltà dell'applicazione pratica del concetto di area metropolitana.In molti paesi, tra i quali gli Stati Uniti, il dibattito degli anni sessanta (per una valutazione dell'esperienza americana v. Duncan e altri, 1960, che contiene un'ampia rassegna della letteratura e un'esauriente bibliografia) portò a una definizione statistica di aree metropolitane (Standard Metropolitan Areas, SMA's e aree derivate, nella versione statunitense, o Functional Urban Regions, FUR's, oppure Daily Urban Systems, DUS's, nella versione inglese) in ultima analisi interpretabili come bacini di pendolarità. Indipendentemente dalla validità teorica delle diverse definizioni spaziali di area metropolitana, o dalla preferibilità dell'una rispetto all'altra, l'adozione di una definizione concordata (ma non collegata a una funzione elettorale) ha permesso in altri paesi la produzione di statistiche ufficiali aggregate su una base che è risultata comparabile nel tempo perché imperniata su una definizione stabile di area metropolitana. Stabile, naturalmente, quanto lo sono le divisioni amministrative; anche nel caso delle definizioni americane si sono avuti dei successivi aggiustamenti nelle originarie SMA's, recentemente denominate MSA's o Metropolitan Statistical Areas. Comunque è possibile 'ancorare', per così dire, i dati statistici ad aree più ampie della città per periodi successivi nel tempo. Ciò ha permesso di cogliere molto più precisamente il fenomeno del decentramento metropolitano negli Stati Uniti di quanto non sia stato possibile in Italia. In questo senso possiamo dire che la definizione di area metropolitana, qualunque sia la sua validità, in senso tecnico, è affidabile (reliable; per la distinzione tra validità e affidabilità v., tra gli altri, Galtung, 1967, pp. 121 ss.).Questa circostanza porta con sé un importante corollario, venuto a mancare nella letteratura scientifica e nella pratica amministrativa italiane. La possibilità cioè di studiare l'andamento di numerosi fenomeni, tra i quali i molteplici aspetti di quell'insieme di processi che vanno sotto la generica etichetta di deurbanisation o counterurbanisation, in base a una variabile indipendente di contesto atta a esprimere la dimensione 'urbana' in senso forte. Nel sistema statistico italiano, in cui non esiste una definizione concordata di area metropolitana, la dimensione urbana (teorica) è raffigurabile solo con la dimensione (demografica) del comune, cioè con una rappresentazione concettualmente ed empiricamente 'debole' di quella complessa variabile che possiamo per comodità chiamare 'grado di urbanità' o 'livello di urbanizzazione'. Anche se, come è facile intuire, e come si può rilevare da numerose ricerche (v. Bozzo, 1986), l'analisi di molti fenomeni per classi dimensionali dei comuni fornisce, di per sé, indicazioni assai interessanti sulle caratteristiche demografiche della popolazione, sulla struttura sociale e persino sul comportamento delle persone (come nel caso dei dati elettorali), non vi è dubbio che una variabile indipendente basata su una definizione accettabile di area metropolitana ha, almeno in teoria, superiori potenzialità esplicative.La definizione statistica di area metropolitana viene usata, non sorprendentemente, nel sistema urbano americano nel quale nasce e si sviluppa la forma dominante di urbanizzazione metropolitana del XX secolo, che possiamo chiamare 'metropoli di prima generazione'. Nel 1910, il Bureau of the Census ha introdotto un'area di classificazione chiamata metropolitan districts, che rappresenta il primo impiego di un'unità statistica atta a descrivere la popolazione delle grandi città e dei loro sobborghi. Inizialmente città di 200.000 abitanti e più, ma poi, a partire dal 1940, fino al limite inferiore di 50.000. All'origine il metropolitan district includeva anche delle circoscrizioni minori, le Minor Civil Divisions (MCD's), contigue al nucleo centrale e più piccole della contea. In seguito venne adottata la contea come unità base e vennero definite le Statistical Metropolitan Areas che tuttora funzionano molto bene, con lo scopo di rappresentare le statistiche federali su una unità territoriale utile per comprendere i fenomeni, non, si badi, al fine di determinare una circoscrizione elettorale.In Italia, negli anni sessanta, si ebbe un primo ciclo di interesse stimolato dalla massiccia crescita di popolazione nelle principali conurbazioni del paese e legato al dibattito sulla costituzione di enti amministrativi a carattere metropolitano, quali erano i vari piani intercomunali progettati a quell'epoca, principalmente, è bene aggiungere, nelle grandi città del Nord industriale. Infatti, anche se si sono a quel tempo progettati piani intercomunali in altre città, come Roma, all'inizio degli anni sessanta di vera questione metropolitana non si poteva effettivamente parlare se non nelle grandi città industriali come Milano e Torino. Con la mancata realizzazione dell'ipotesi di un 'governo metropolitano' in queste città, che venne attribuita a un'inerente debolezza di quello che allora si chiamava 'neocapitalismo italiano' (v. Allione, 1976, pp. 10 ss. e pp. 232-257), anche l'interesse per una definizione accademica delle aree metropolitane si attenuò per poi scomparire del tutto, almeno nelle opere di autori italiani. L'interesse è ripreso invece diffusamente, ma forse ancora una volta in modo episodico, nei mesi successivi alla promulgazione della legge 142/90 e in coincidenza con i primi e poco incoraggianti tentativi di applicazione del Capo VI della legge. Ancora una volta l'interesse della classe politica e della cultura politica italiana si è consumato sugli aspetti di rappresentanza e di input al sistema, e si è rapidamente ritratto di fronte alle non indifferenti difficoltà di innovazione organizzativa implicite nelle non cristalline formulazioni della legge, soprattutto per quanto riguarda la definizione territoriale del nuovo ente locale da essa previsto (v. Martinotti ed Ercole, 1987, 1988 e 1990). E lo stesso possiamo dire per la discussione della successiva legge, che si è svolta in un notevole distacco dal dibattito scientifico.In proposito va ricordato che, da un punto di vista strettamente teorico, l'assetto metropolitano non è precisamente definibile sul territorio entro confini spaziali rigidi. Infatti la cosiddetta 'dominanza metropolitana' è concetto prevalentemente funzionale, con due caratteristiche che rendono difficile una sua traduzione meccanica in un preciso ambito territoriale. In primo luogo perché le relazioni di un territorio con il centro urbano principale possono variare di ampiezza secondo la funzione considerata: la pendolarità quotidiana definisce un bacino che può essere diverso, poniamo, dalla diffusione di un quotidiano. In secondo luogo perché gran parte delle definizioni si basano su variabili continue che raramente hanno soglie territoriali osservabili e, comunque, non sono distribuite in modo biunivoco con lo spazio fisico. In altri termini, la forma metropolitana non è in alcun modo rappresentabile come una 'città più grande', ma come una forma più diffusa sul territorio e dai confini meno percepibili e definibili. Lo conferma l'esperienza quotidiana, che ci fa cogliere agevolmente la difficoltà di percepire il momento esatto in cui si 'entra' nell'area urbana di una grande metropoli. Cioè in quella struttura urbana che è stata definita un 'non luogo urbano' (non-place urban realm; v. Sharpe e Wallock, 1987, p. 2). L'esperienza visiva non fa che confermare le difficoltà concettuali che si incontrano nel definire le aree metropolitane.
Se, come abbiamo detto, una delle caratteristiche distintive del fenomeno metropolitano è la sua natura sistemica e funzionale, il termine 'area metropolitana' contiene una parziale contraddizione: infatti l'insieme di interdipendenze che caratterizza un complesso metropolitano non sottintende necessariamente un'area omogenea e neppure un"area' che individui il medesimo territorio secondo diverse dimensioni funzionali. Un bacino di pendolarità può incorporare centri funzionalmente dipendenti da un polo metropolitano collocati in un territorio che, per altri aspetti, è sottratto all'influenza del polo centrale. Un"area metropolitana' definita con il criterio, poniamo, dell'attrazione commerciale, può essere diversa, sul territorio, da quella definita dall'area di influenza sul piano culturale del polo metropolitano. In altri termini il concetto di contiguità spaziale non fa necessariamente parte della definizione teorica di 'sistema metropolitano', che è di natura funzionale. La contiguità spaziale viene 'imposta' al sistema metropolitano, appunto tramite il concetto di 'area' metropolitana, essenzialmente per due ragioni: per analogia con la più familiare idea di città e per ragioni amministrative.La città, infatti, anche nelle sue forme più antiche e rudimentali, si presenta come un'entità sociale solidamente collegata a un determinato ambito territoriale, spesso coincidente con uno stato giuridico specifico, vigente solo entro i confini della circoscrizione urbana. Dal canto suo la visione amministrativa della regolamentazione dello spazio fisico non riesce a concepire una struttura di governo locale che non corrisponda in maniera biunivoca a un territorio rigorosamente determinato. Con la conseguenza che l'idea di 'area metropolitana' schiaccia, per così dire, una definizione spaziale su un fenomeno per sua natura prevalentemente funzionale. Uno dei corollari di queste premesse è che le specifiche definizioni territoriali di area metropolitana soffrono sempre di un qualche grado di imprecisione e arbitrarietà che non può essere eliminato. Chiunque si accinga a fissare spazialmente un sistema metropolitano (a definire cioè i confini fisici di un"area metropolitana') può assicurare soltanto, da un lato, la minimizzazione delle imprecisioni e dell'arbitrarietà e, dall'altro, la trasparenza nella individuazione dei criteri.Si tratta di concetti abbastanza noti, richiamati qui unicamente al fine di evitare equivoci e fraintendimenti che, nonostante il consenso degli studiosi su queste premesse teoriche, nelle discussioni correnti sull'argomento, specie in sede politica, sono assai più frequenti di quanto non si creda. Generalmente parlando i criteri di definizione di un'area metropolitana si possono raggruppare in tre grandi categorie: a) criteri di omogeneità: in base ai quali possono essere raggruppati comuni o aree che hanno caratteristiche omogenee secondo vari parametri (dimensione demografica, densità, caratteristiche economiche e simili); b) criteri di interdipendenza: in base ai quali possono essere raggruppati comuni o aree tra i quali avvengono scambi di persone, beni, flussi comunicativi (pendolarità, aree di gravitazione commerciale, scambi telefonici o altro); c) criteri morfologici, quali ad esempio la contiguità spaziale o l'appartenenza a medesimi sistemi di configurazione orografica o geografica in senso lato. Una particolare classe di criteri morfologici, ancora poco usati, è quella che potremmo definire dei criteri 'naturalistici', cioè basati su raffigurazioni visive rese oggi possibili dalla fotografia aerea o satellitare. Per un esempio di questo tipo di raffigurazioni si può vedere la famosa immagine fotografica dell'Europa di notte ripresa da un satellite.Da un punto di vista strettamente operativo, alcuni criteri sono di più semplice applicazione mentre altri richiedono la disponibilità di dati più sofisticati e difficili da ottenere. È evidente che in studi che si propongono non la pura e semplice definizione di una specifica area metropolitana, ma l'individuazione di aree definite con criteri comparabili sull'intero territorio di una nazione, o addirittura a livello internazionale, l'esigenza di adottare criteri semplici e relativamente poco costosi prevale sull'esigenza di impiegare criteri più sofisticati. In genere l'uso di criteri di omogeneità è il più diffuso proprio perché il meno costoso. Quasi tutti i paesi hanno dati di carattere censuario riferiti a unità amministrative o territoriali relativamente piccole e costruite, con maggiore o minore approssimazione, con riferimento al sistema urbano. In Italia l'unità di base per la costruzione di aree metropolitane è il comune anche se, come è noto, le circoscrizioni comunali non esprimono sempre in modo soddisfacente l'estensione dell'area urbanizzata.Valga per tutti il caso di Roma che con i suoi 1.507,6 kmq, oltre a essere il più esteso comune d'Italia, comprende un'ampia area agricola, che ancora al 1981 poteva essere valutata attorno ai due terzi dell'intero territorio (stando al II Censimento generale dell'agricoltura del 1970; il calcolo, da interpretare con grande cautela, è stato fatto sulla base della SAU - Superficie Agricola Utilizzata - e delle altre superfici agricole sottratte al totale della superficie del Comune di Roma).Con un'estensione così ampia della definizione amministrativa del territorio comunale molti fenomeni di carattere metropolitano risultano 'celati' all'interno del comune, se usiamo l'unità comunale come base per le riaggregazioni metropolitane. Del resto, come vedremo, questo problema si pone in termini concreti in alcune delle definizioni che verranno esaminate più oltre. Si può naturalmente verificare anche il caso inverso, quello in cui la circoscrizione amministrativa del territorio comunale è più ristretta del continuum urbanizzato. È il caso, almeno parzialmente, del territorio comunale di Milano che con soli 181,74 kmq di estensione è sicuramente più limitato dell'area urbanizzata che vi fa riferimento: specie lungo certe direttrici, quali la Sesto San Giovanni-Monza, o la Milano-Vigevano (ma non sono le uniche), dove è difficile, se non del tutto impossibile, percepire fisicamente la delimitazione del territorio comunale. Ma dove, peraltro, per la sopravvivenza di antiche divisioni territoriali non è stato ancora possibile prolungare la linea della metropolitana milanese.Nella letteratura sui problemi metropolitani e urbani le città del primo tipo (come Roma) vengono definite con la parola inglese di overbounded, un termine che può essere reso con 'sovradimensionate' (dal punto di vista amministrativo), mentre quelle del secondo tipo (tra cui Milano e Torino, nonché altre città italiane) sono chiamate underbounded e cioè 'sottodimensionate'. Un terzo tipo di città in cui la definizione amministrativa coincide con la realtà urbanizzata è chiamato truebounded o della giusta dimensione amministrativa (v. ad esempio International Urban Research, 1959, pp. 6-7).Peraltro occorre dire che, indipendentemente dal grado di coincidenza con una conurbazione fisica, la definizione amministrativa ha una sua cogenza e anche effetti territoriali non irrilevanti rispetto alle dinamiche di sviluppo dell'area urbanizzata. Pertanto l'uso dell'unità comunale come base per l'aggregazione metropolitana risulta in ultima analisi, almeno per realtà come quella italiana, sufficientemente preciso, anche perché la superficie media dei comuni metropolitani - che varia dai 20 ai 30 kmq secondo le diverse definizioni adottabili - è modesta. In altre situazioni nazionali le unità usate sono diverse e non è sempre facile assicurare una soddisfacente comparabilità e con il caso italiano e tra le altre situazioni nazionali.Negli Stati Uniti, per esempio, l'unità di base è la 'contea' (county); l'unica unità d'area locale coestensiva con il territorio nazionale, che tuttavia non trova alcun riscontro nella situazione amministrativa del territorio italiano, anche se viene a volte imprecisamente associata alla provincia. Com'è noto la contea è l'unità di base per la definizione delle Standard Metropolitan Areas, o SMA's, per tutti gli Stati Uniti, eccetto il New England, dove proprio a causa della presenza di un tessuto urbano di derivazione europea si usa come base la città (township o city; anche in questo caso però non dobbiamo farci trarre in inganno dalla similarità dei termini: la città coloniale americana è pur sempre molto diversa dalle città europee, quanto a struttura urbana e a status amministrativo). Ma, diversamente dalla provincia italiana, la contea americana svolge un'ampia gamma di funzioni, dalla prestazione di servizi collettivi (strade, ponti, parchi ecc.) ai servizi alle persone, quali l'assistenza, alle funzioni giurisdizionali e di ordine pubblico, svolte dai mitici sheriffs (per informazioni più precise sul sistema urbano americano v. Lefèvre e altri, 1988; v. Johnston, 1982).Nella definizione americana (la più antica perché risale al metropolitan district definito nel 1910) la SMA, o Standard Metropolitan Area, è individuata con una combinazione di tutti e tre i criteri (omogeneità, interdipendenza e morfologia). Più precisamente le SMA's, nella versione originaria del 1950, sono così definite: una o più 'contee centrali' con almeno 50.000 abitanti, con l'aggiunta di 'contee contigue' che abbiano almeno 10.000 lavoratori extra-agricoli, oppure almeno il 10% dei lavoratori extra-agricoli nella SMA, oppure almeno metà della popolazione residente in circoscrizioni amministrative con una densità di almeno 150 abitanti per miglio quadrato (e contigue alla città centrale); almeno il 15% dei lavoratori residenti nella contea esterna adiacente devono lavorare nella contea che contiene la maggiore città della SMA, oppure almeno il 25% delle persone che lavorano nella contea adiacente risiedono nella principale città della SMA, oppure il numero di chiamate telefoniche mensili dalla contea adiacente verso la città centrale è quattro volte tanto il numero degli abbonati al telefono della contea adiacente.Come si può vedere alcuni di questi criteri sono morfologici (città o contea centrale e contiguità come criterio di inclusione), altri sono di omogeneità (quantità e densità dei lavoratori non agricoli e dei residenti), mentre gli ultimi sono di interdipendenza (pendolarità nei due sensi e chiamate telefoniche). Non è qui il caso di entrare nella discussione della validità delle variabili e dei parametri prescelti, peraltro usuali in questo genere di lavori: la citazione ha solo lo scopo di illustrare una definizione basata su criteri molteplici che, come risulterà chiaro al lettore, hanno gradi diversi di applicabilità. Il concetto di area statistica metropolitana (MSA, Metropolitan Statistical Area) è andato evolvendosi nel tempo da quando le Standard Metropolitan Areas vennero definite dal Bureau of the Budget, come un "criterio statistico messo a punto per essere usato dagli enti federali nella produzione, analisi e pubblicazione di dati sulle aree metropolitane" (v. US Department of Commerce, 1986, p. 625). Tuttavia, precisa il Bureau of the Census, "nessuno di questi cambiamenti ha prodotto deviazioni significative dal concetto metropolitano di base" (ibid., p. 626). Oggi, peraltro, "per venire incontro ai bisogni di vari gruppi di utilizzatori", il Bureau distingue tre tipi di aree: le MSA's, di cui si è già parlato, le CMSA's o Consolidated Metropolitan Statistical Areas, e le PMSA's o Primary Metropolitan Statistical Areas. Ogni MSA ha almeno una o più contee centrali, in cui si trova la maggiore concentrazione di popolazione dell'area e può racchiudere altre contee esterne collegate alle prime da un certo livello di pendolarità e in possesso di determinate caratteristiche urbane quali l'alta densità. Come abbiamo già ricordato, nel New England le unità componenti di base sono città (cities and towns) invece di intere contee. Tuttavia l'OMB (Office of Management and Budget) che si occupa dell'argomento, ha elaborato anche delle NECMA's, New England County Metropolitan Areas, cioè delle definizioni speciali per il New England basate sulle contee. Inoltre ogni MSA ha una o più 'città centrali', fino a tre delle quali vengono riconosciute nella identificazione dell'area, unitamente al nome dello Stato (o degli Stati) interessati. Per esempio la PMSA 6060 denominata Pawtucket-Woonsocket-Attleboro, RI-MA, ha tre città centrali che si trovano in parte nello Stato di Rhode Island, le prime due, e in parte nel Massachusetts.Nelle Metropolitan Statistical Areas con una popolazione di un milione e più di abitanti, possono essere identificate delle contee o agglomerazioni di contee con forti legami economici e sociali interni e con forte potenziale gravitazionale. In tal caso, ma solo se l'opinione pubblica locale riconosce questo dato di fatto (sottolineiamo questo particolare, che ci sembra assai significativo, perché introduce un criterio per così dire 'soggettivo' di definizione, anche se dalle fonti che abbiamo esaminato non emerge la procedura di accertamento di questo parametro), queste contee possono essere ridefinite come PSMA o Primary Standard Metropolitan Area, anche se al loro interno non viene definita alcuna città centrale. Quando viene definita una PSMA la Metropolitan Statistical Area di cui essa fa parte viene ridesignata come CMSA o Consolidated Metropolitan Statistical Area (nella terminologia precedente, SCSA o Standard Consolidated Statistical Area). Per esempio la PSMA citata più sopra fa parte della Consolidated Metropolitan Statistical Area 6482, che si chiama Providence-Pawtucket-Fall River, RI-MA, e che comprende anche una seconda PSMA, la 6460 di Providence, RI.Complessivamente sono state identificate 73 aree metropolitane primarie, incluse in 21 CMSA's, sul totale di 280 MSA's definite al 30 giugno 1985 e che comprendono 179.946.311 persone, ovvero il 76,2% della popolazione americana su un'area di 570.933 miglia quadrate. Il che dà una densità di 121,69 persone per chilometro quadro; una densità relativamente bassa per i criteri europei e italiani in particolare, come vedremo più oltre. Ma, com'è noto, la tipologia residenziale prevalente nelle aree urbane statunitensi, se si eccettuano i CBD's o Central Business Districts, è costituita soprattutto di unità monofamigliari con bassa densità abitativa. D'altro canto il resto della popolazione, quella non metropolitana, è composto da 56.211.309 persone su un territorio di 2.968.356 miglia quadrate con una densità non metropolitana di 7,31 abitanti per chilometro quadro (un miglio quadro è equivalente a 2,588881 o 2,59 chilometri quadri. Per fare un raffronto si pensi che la densità metropolitana italiana al 1981 varia da 242 a 1.526 abitanti per kmq e quella non metropolitana da 93 a 148 abitanti per kmq). Nel 1996 le MSA's (Metropolitan Statistical Areas) erano 245 di cui 17 CMSA (Consolidated MSA's), 58 PSMA's e 12 NECMA's nel New England, per un totale di 207.654.000 persone che costituivano il 79,8% della popolazione.Per definire queste varie aree e sub-aree vengono utilizzate 16 batterie di indicatori o famiglie di criteri, non necessariamente tutti di carattere metricostatistico, che sarebbe troppo lungo riportare qui in extenso. Ci premeva però mettere in luce la peculiare complessità e flessibilità delle definizioni americane proprio per sottolineare come il fenomeno metropolitano non possa essere ridotto a un semplice 'allargamento' di una città centrale su un'area più vasta né definito in base a criteri, come quelli sin qui previsti dalle proposte di legge italiane, che fanno riferimento unicamente alla dimensione della città centrale. L'altro aspetto che va opportunamente sottolineato è che il carattere statistico e non politico-amministrativo di queste aree permette un continuo riaggiustamento, con la possibilità non solo di seguire l'evoluzione del fenomeno metropolitano, ma anche di adeguare via via i criteri conservando tuttavia, nella pubblicazione delle statistiche, la comparabilità dei dati. Infatti è possibile stabilire che la popolazione definita come metropolitana è passata dagli 84.853.700 individui nelle 169 aree del 1950 ai 179.946.311 nelle 280 aree del 1985, ma parte di questo incremento è dovuto alla ridefinizione delle aree e parte alle dinamiche demografiche. Più precisamente, a confini costanti del 1950 l'incremento sarebbe stato ovviamente minore portando la popolazione metropolitana a 133.153.636 abitanti; gli ulteriori 50 milioni di abitanti circa, oggi inclusi nella popolazione metropolitana, sono da attribuirsi interamente all'effetto netto delle operazioni di ridisegno delle aree. Ed è facile accorgersi, confrontando le due serie di dati, che il rallentamento della crescita della popolazione metropolitana degli anni settanta-ottanta (che era passata dal 76,6 al 76%, secondo i criteri del 1985) è quasi interamente attribuibile alle aree mature, quelle già definite nel 1950, e nelle quali la popolazione in quel periodo è aumentata di 6,6 milioni di persone contro un aumento della popolazione non metropolitana - ai confini di allora - di 16,6 milioni e un aumento di 16,5 milioni ai confini di oggi. Si aggiunga che proprio perché la definizione di MSA non ha risvolti immediati di governo amministrativo, è stato possibile includere criteri in qualche modo 'politici', quale quello della riconoscibilità da parte dell'opinione pubblica locale, una condizione che viene considerata necessaria per l'applicabilità di un certo numero dei 16 criteri definitori. In conclusione, perciò, la definizione americana può essere ancora oggi considerata un modello da seguire sia dal punto di vista dei criteri, sia dal punto di vista della filosofia complessiva. Va da sé che l'obiezione che si può fare è che la situazione italiana ed europea è diversa, ma si tratterebbe di un'obiezione meccanica. Infatti il criterio utilizzato dall'amministrazione federale americana, proprio perché non interferisce con il governo locale, è assai più adatto alla situazione europea di quelli tentati, in genere con scarsi successi, in Italia o in altri paesi europei.Nella situazione italiana non esiste tuttora una definizione amministrativa concordata, ma si possono prendere i dati di diverse ricerche scientifiche. Le aree metropolitane italiane definite da questi studi variano considerevolmente in numero, numero di comuni inclusi e quindi in estensione e popolazione. Per le ragioni che abbiamo detto la cosa non deve sorprendere, anche perché le definizioni coprono un arco di tempo più che trentennale durante il quale la realtà urbana italiana si è considerevolmente evoluta. La definizione utilizzata da Kingsley Davis e dall'International Urban Research (v., 1959) è la più lontana nel tempo. Gli studiosi americani, che hanno svolto la prima ricerca comparativa sulle aree metropolitane mondiali, non hanno evidentemente potuto applicare tutti i criteri usati dall'US Bureau of the Census per determinare le MSA's, ma si sono dovuti attenere a criteri più semplici da rendere operativi in molti paesi diversi: in pratica una combinazione di criteri morfologici di contiguità e di criteri di omogeneità. In primo luogo viene identificato un nucleo o città centrale con almeno 50.000 abitanti. Nel caso italiano, come si è detto, l'unità è il comune e non sorgono problemi operativi salvo che nelle aree Busto Arsizio-Legnano-Gallarate e Massa-Carrara, in cui la condizione è soddisfatta da più nuclei contigui. In secondo luogo vengono identificati su una mappa i comuni contermini con il nucleo centrale e si estende all'esterno l'area circostante includendo i comuni che hanno almeno il 65% di forza lavoro extra-agricola (ibid., p. 27; il lavoro non specifica se nel caso italiano si tratta di 'attivi' o 'addetti', ma ci pare ragionevole pensare che si siano usati i dati sugli attivi tratti dal IX Censimento della popolazione). Se questa condizione non si verifica, vengono esclusi anche i comuni contermini con la città centrale (quelli, per intenderci, di 'prima fascia') ma vengono, per converso, inclusi comuni che, pur non raggiungendo questa soglia, sono interamente circondati da comuni che soddisfino questa condizione. Per contro vengono esclusi comuni che, pur avendo il livello richiesto di popolazione extra-agricola, risultano 'troppo lontani' dalla città centrale. Su questo criterio gli autori si dichiarano esplicitamente elastici (ibid., p. 28) e non è quindi dato sapere, nel caso specifico dell'Italia, quale sia stato il parametro di soglia applicato. In terzo luogo, dopo aver definito ciascuna area metropolitana secondo i criteri indicati, la popolazione delle unità incluse (i comuni) viene sommata e, se nell'aggregato non raggiunge i 100.000 abitanti, l'intera area metropolitana viene fatta cadere dall'elenco. In tal modo l'IUR, al 1955, arrivava a definire per l'Italia 28 aree metropolitane che includevano complessivamente 323 comuni italiani, con una popolazione, al 1961, di 14.752.030 abitanti (pari al 29,14 % della popolazione totale in quell'anno).Nell'opera di Salvatore Cafiero e Antonio Busca (v., 1970, ma i dati si riferiscono al 1960), per definire le aree metropolitane italiane si sono usati tre criteri: a) la dimensione demografica; b) la dimensione (in termini di 'attivi') delle attività extra-agricole; c) la densità territoriale di tali attività. Come si può vedere tutti questi criteri appartengono alla classe dei criteri di omogeneità: non furono usati invece criteri di interdipendenza, quale ad esempio la pendolarità, perché allora non erano disponibili in modo generalizzato dati relativi a questo fenomeno. I censimenti più recenti permetterebbero invece di costruire definizioni basate anche su dati di questa natura (ibid., p. 12). Per quanto riguarda il primo criterio, cioè la dimensione, gli autori di questo lavoro utilizzano la soglia minima di 110.000 abitanti. Il secondo criterio, la dimensione minima della popolazione extra-agricola, viene in effetti utilizzato come correttivo del precedente. In conclusione, Cafiero e Busca definiscono come aree metropolitane quegli insiemi di comuni che, in base ai dati del censimento del 1961, soddisfano contemporaneamente il criterio di avere complessivamente 110.000 abitanti e almeno 35.000 attivi extra-agricoli (ibid., p. 14). Cafiero e Busca rifiutano il criterio, comune invece ad altre definizioni, pure discusse in questa rassegna, di costruire l'area metropolitana partendo da una città centrale (o da due città 'gemelle') con una soglia minima di abitanti: per esempio la soglia di 50.000 abitanti utilizzata dalla definizione precedente. Il criterio della città centrale viene sostituito con il terzo dei criteri indicati più sopra e cioè la densità territoriale degli attivi extra-agricoli, che viene stabilita in 100 attivi extra-agricoli per kmq. Naturalmente, poiché com'è noto le densità in genere sono fortemente influenzate - e spesso distorte - dall'estensione dei confini amministrativi dei comuni, gli autori introducono a questo punto un ulteriore correttivo assumendo, per tutti i comuni con più di 5.000 attivi extra-agricoli, una superficie teorica ('area massima teorica') pari alla dimensione che dovrebbero avere per rispettare la densità di soglia prescelta e cioè i 100 attivi extra-agricoli per kmq. Infine Cafiero e Busca introducono un ultimo criterio correttivo basato sulla contiguità. Queste definizioni vengono poi estrapolate - si ricordi che il lavoro di cui parliamo è stato pubblicato nel 1970 - al 1981, con due diverse ipotesi: la prima basata su una continuazione del trend 1951-1961 e la seconda basata sull'introduzione di un'ipotesi di riequilibrio territoriale. In concreto le due ipotesi hanno in comune l'estrapolazione del tasso di sviluppo naturale della popolazione e della ripartizione tra le varie aree delle migrazioni da e per l'estero, dal 1966 (anno in cui sono stati effettuati i calcoli per questo lavoro) al 1981, mentre differiscono per la valutazione degli effetti migratori interni. Il lavoro di Cafiero e Busca è stato poi ripreso da Cafiero e Cecchini (v., 1990) che lo hanno aggiornato al 1990, fornendo uno strumento che rimane ancora il più utile e affidabile per l'analisi del fenomeno metropolitano in Italia, come ha dimostrato con una puntuale ed esauriente analisi Enrico Ercole (v., 1999).Il lavoro dell'équipe dell'Università di Reading, Growth centres in the European urban system (v. Hall e Hay, 1980; i dati si riferiscono al 1971), costituisce senza dubbio il più impegnativo sforzo di comparazione sistematica del fenomeno metropolitano in Europa. La ricerca prende le mosse dalle definizioni di area metropolitana esistenti nella letteratura anglosassone e relative agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna ed estende l'analisi a tutti gli altri paesi europei con lo scopo di verificare, anche in questa parte del mondo, le dinamiche della crescita urbana emerse negli Stati Uniti dopo il 1970. Dinamiche così sintetizzate dagli autori: a) verso il basso della gerarchia urbana, dai maggiori sistemi a quelli di minori dimensioni; b) verso l'esterno entro le aree metropolitane, dal centro alle fasce (from cores to rings); c) fuori dalle aree metropolitane e nelle aree non metropolitane, cioè dalle aree urbane a quelle rurali; d) trasversalmente rispetto alle regioni di più antica industrializzazione e urbanizzazione (il Nordest e il Midwest), verso le aree di nuova urbanizzazione e industrializzazione, dominate dal settore dei servizi (il Sud e l'Ovest). Non possiamo qui addentrarci nell'esame puntuale del lavoro di Hall e Hay, al quale rinviamo (ibid., p. 68). Va solo rilevato che si tratta di un lavoro impegnativo, viziato però dall'introduzione delle aree commerciali che individuano 84 centri metropolitani di cui alcuni con più di un comune centrale e altri con una serie di comuni aggregati al comune centrale a costituire i già riportati urban cores. A questo punto gli autori si trovano in difficoltà - a causa della già rilevata mancanza di dati sulla pendolarità - nel definire le aree di gravitazione attorno a questi centri e, dopo aver scartato sia le aree definite dalla Società per la Matematica e l'Economia Applicate (v. SOMEA, 1973), perché basate su criteri gerarchici, sia le 'aree socioeconomiche' elaborate dall'Unione Italiana delle Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura (v. UICCIAA, 1975), decidono di utilizzare le 'aree di gravitazione commerciale' elaborate da G. Tagliacarne (v., 1968) per La carta commerciale d'Italia. In conclusione gli autori identificano 84 aree metropolitane costituite dalle aree e sub-aree commerciali del Tagliacarne che gravitano sugli 84 centri definiti precedentemente. Due di queste, Busto Arsizio e Legnano, hanno centri che coincidono con poli di sub-area secondo il Tagliacarne, ma che invece soddisfano i criteri di centro urbano adottati da Hall e Hay (a queste vanno aggiunte 128 regioni non metropolitane). Al 1971 queste aree metropolitane comprendevano una popolazione di 42.409.012 abitanti (pari al 78,33% della popolazione italiana) di cui circa 19.000.000 nei centri metropolitani e 23.000.000 nelle fasce metropolitane (per una discussione tecnica di questo dato v. Martinotti, 1992, pp. 61 ss.).
Le difficoltà di attuazione pratica di un sistema di governo delle aree metropolitane sono note. Dopo un dibattito durato più di un quarto di secolo il Parlamento italiano votò l'8 giugno 1990 la legge 142/90 che prevedeva l'attuazione di diverse 'città metropolitane', concetto che, alla luce di quanto abbiamo detto, risulta altamente contraddittorio da un punto di vista teorico. Ma, dieci anni dopo, nessuna di queste entità ossimoriche è stata attuata, non in omaggio alla logica teorica, ma perché l'identificazione tra la definizione di un nuovo fenomeno, che per sua natura è diverso dalla realtà municipale sulla quale è costruito il governo locale della città, e la creazione di una nuova circoscrizione elettorale, pone una contraddizione di fondo che difficilmente potrà essere risolta da artifizi di ingegneria istituzionale. Intanto, come sottolinea Ettore Rotelli (v., 1999), occorre segnalare che nessuna delle 'città metropolitane' previste dalla legge 142/1990 è stata attuata. E la nuova legge del 1999, confermando che si tratta di Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari e Napoli, introduce un metodo nuovo per conseguire il risultato. Il sindaco del comune capoluogo e il presidente della provincia, d'intesa fra loro, convocano l'assemblea degli enti locali interessati. Tale assemblea, su conforme deliberazione dei consigli comunali, adotta una proposta di statuto della città metropolitana, che ne indica territorio, forma di governo, organizzazione, articolazione e funzioni. La proposta, a sua volta, sarebbe sottoposta a referendum in ciascun comune partecipante e passerebbe se ricevesse "il voto favorevole della maggioranza degli aventi diritto al voto espressa nella metà più uno dei comuni partecipanti"."È difficile pronosticare in un procedimento siffatto, un successo maggiore di quelli adottati in precedenza. Ed ancor più promettere un risultato finale positivo [...]". Perché, sempre secondo Rotelli, "aggiungere le città metropolitane, non come alternativa alle province, bensì oltre alle province, significa, alla lettera, introdurre un ulteriore livello istituzionale, laddove l'esigenza era, semmai, quella contraria di ridurre [...]; in tal modo si determina, inoltre, una contraddizione nel testo costituzionale perché dicendo che le città metropolitane 'possono' costituirsi, si ammette anche che possano non costituirsi, sebbene annunciate come costitutive della Repubblica. Per di più si assume che alla eventuale costituzione della città metropolitana il comune capoluogo partecipi così com'è, quindi senza mettere in discussione se stesso e senza ricostituirsi in più comuni di minori dimensioni. Col che non si rimuove uno dei principali ostacoli alla istituzione di un'autorità dell'area metropolitana: la percezione e la natura dell'intera operazione come ulteriore accentramento del comune capoluogo nei confronti delle proprie periferie e dei comuni limitrofi, conservati nella loro tradizionale frammentazione" (ibid., p. 326). È difficile non concordare con queste considerazioni, alle quali ne va aggiunta una non meno cruciale, già accennata più sopra, vale a dire la circostanza che nel sistema italiano la definizione statistica coincide con quella elettorale ed è quindi sottoposta a tutti gli effetti distorsivi che gli interessi elettorali imporranno a una misura valida e affidabile di area metropolitana. Si è persino profilata la possibilità che Firenze e Prato, comuni confinanti, diano luogo a due aree metropolitane distinte perché l'ossimorica 'città metropolitana' deve essere capoluogo di provincia.Eppure è sufficiente un esercizio di sommatoria, non semplicissimo da un punto di vista tecnico, ma concettualmente intelligibile, per far comprendere come la struttura metropolitana italiana sia profondamente diversa da quella urbana. Questo esercizio è stato fatto da una studiosa dell'Università di Cagliari, Antonina Melis, e consiste nel prendere le usuali classificazioni delle città italiane e sostituire l'unità 'area metropolitana' all'unità 'comune centrale'. I risultati non sono sorprendenti per chi ha da molti anni sostenuto che l'unità reale è la conurbazione metropolitana, ma cambiano profondamente l'immagine dell'Italia urbana. Infatti con gli ordinamenti normali, le prime tre posizioni nel sistema urbano sono occupate, com'è noto, da Roma con 2.77.250 abitanti al 1991, Milano con 1.369.231 e Napoli con 1.067.365. Ma se usiamo l'entità funzionale 'area metropolitana' i dati sono molto diversi. Milano è in testa con 7.143.000 abitanti, Napoli segue con 4.264.000 e Roma è solo al terzo posto con 3.195.000 (v. Melis, 1999, p. 292). È facile immaginare quali siano le conseguenze culturali, amministrative ed economiche di un cambiamento così profondo, cui tuttavia la cultura amministrativa italiana non è apparentemente ancora in grado di far fronte.
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