RUINI, Meuccio
RUINI, Meuccio (propr. Bartolomeo). – Nacque a Reggio Emilia il 14 dicembre 1877, primo dei cinque figli di due maestri elementari, Antonio, un ex garibaldino, e Anna Buccella. Il nome Bartolomeo gli venne cambiato il 23 marzo 1946, per sua richiesta, in quello di Meuccio, che egli usava da sempre. Nel 1895, conseguito il diploma di maturità classica nella sua città natale, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bologna, dove il 7 luglio 1899 si laureò con il massimo dei voti e la lode, discutendo con Icilio Vanni una tesi di filosofia del diritto.
Il padre lo educò agli ideali della democrazia e del laicismo cari alla tradizione garibaldina e mazziniana. Ma nella sua formazione politica e culturale ebbero grande importanza anche gli scritti di Gian Domenico Romagnosi, Auguste Comte e Herbert Spencer. Negli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento lesse con interesse anche le principali opere di Karl Marx e frequentò i due più autorevoli socialisti reggiani, Camillo Prampolini e Antonio Vergnanini. Non si iscrisse mai, però, al partito socialista. Aderì, invece, alla massoneria, rispetto alla quale mantenne sempre, a ogni modo, una certa autonomia di pensiero, al punto che nella seconda metà del maggio 1920 acconsentì a entrare nel secondo ministero Nitti nonostante il veto posto dal Grande Oriente d’Italia. Per questa ragione fu prima sospeso «dall’esercizio dei diritti massonici» (Rivista massonica, maggio 1920, p. 120) e poi messo, come si usava dire, ‘in sonno’.
Allorché nell’autunno del 1899 Vanni si trasferì all’Università di Roma, invitò Ruini a seguirlo, per permettergli di prepararsi alla libera docenza. Dopo aver fruito per alcuni mesi di una borsa di studio, decise di partecipare a un concorso bandito dal ministero dei Lavori pubblici, che vinse nel gennaio 1901. Quest’evento rappresentò per lui una vera e propria svolta, poiché, tutto preso dal nuovo lavoro, abbandonò ben presto i propositi accademici e cominciò a interessarsi in maniera più diretta di questioni politiche e amministrative. Come funzionario del ministero dei Lavori pubblici seppe guadagnarsi la stima di tutti i ministri che si succedettero in quel dicastero. Ciò gli avrebbe consentito di percorrere una rapidissima carriera all’interno della pubblica amministrazione, fino a diventare nel 1912 direttore generale dei Servizi speciali per il Mezzogiorno e l’8 febbraio 1914, a soli trentasei anni, consigliere di Stato.
In politica mosse i primi passi nella primavera del 1904, quando dapprima formò con alcuni amici il Gruppo radicale sociale romano e tre settimane più tardi, dal 27 al 30 maggio, partecipò a Roma al congresso costitutivo del partito radicale. Nelle assise romane portò la voce della ‘tendenza radicale socialista’, la quale, facendosi interprete delle esigenze e delle speranze della piccola e media borghesia dell’impiego, dell’insegnamento e delle libere professioni, mirava a far sì che il radicalismo italiano si adeguasse alle profonde trasformazioni economiche e sociali in atto nel Paese.
Come spiegò due anni più avanti (nell’opuscolo non firmato Per un movimento radicale-socialista), il «radical-socialismo» voleva essere un metodo e un indirizzo d’azione, rivolti a rendere possibile una «vera collaborazione di classe» fra tutti i ceti sociali che vivevano del proprio lavoro, in modo da dar corpo a una «democrazia del lavoro», vale a dire a un regime di democrazia politica, economica e sociale fondato sul lavoro. A questo proposito, Ruini si diceva favorevole a un sistema economico misto, in cui l’intervento propulsore e regolatore dello Stato si affiancasse all’iniziativa privata. Auspicava, inoltre, l’espansione delle attività cooperative di produzione, di consumo e di lavoro. Da ultimo, sollecitava la «compenetrazione fra Società e Stato», in specie per mezzo di una riforma dei corpi amministrativi, da eleggere non già secondo il criterio tradizionale della rappresentanza politica, ma secondo quello della rappresentanza degli interessi economici e sociali e delle competenze professionali.
Queste sue idee vennero accolte con avversione o indifferenza dalla maggior parte dei dirigenti e dei deputati del partito radicale. Destarono, viceversa, un concreto interesse nei rappresentanti dell’ala riformista del partito socialista. Così, tra il 1907 e il 1910 egli poté pubblicare in Critica sociale e nell’Avanti! numerosi articoli, nei quali si soffermò soprattutto su due temi legati strettamente fra loro: la «politica dei consumatori», che si richiamava alle teorie enunciate nel 1906 dall’economista democratico tedesco Otto Effertz, e la «cooperazione integrale», la quale traeva spunto dalle fortunate iniziative promosse nel Reggiano da Vergnanini e si rifaceva a proposte formulate dall’economista francese Charles Gide. Ruini era dell’opinione che non si potesse ridurre tutta la vita economica e sociale alla lotta di classe tra il capitale e il lavoro salariato, come invece facevano i socialisti. A suo avviso, non meno importante era il contrasto che opponeva i consumatori ai produttori e ai detentori di beni. Attraverso questa solidarietà d’interessi che univa il proletariato e i ceti medi, i tanto maltrattati consumatori, contrapponendoli molto spesso alle classi abbienti, si sarebbe potuta concretare una solida intesa fra il partito socialista e il partito radicale, volta a sostituire, sia pure per gradi, il «regime della produzione in vista del profitto», cioè il capitalismo, con il «regime della produzione in vista del bisogno» (D’Angelo, 1984, pp. 80, 84), ossia il cooperativismo.
Negli anni iniziali del Novecento si legò sentimentalmente alla socialista riformista piacentina Maria Biggi, già moglie del deputato socialista Angiolo Cabrini, la quale gli diede due figli, Anna, nata nel 1908, e Carlo, nato nel 1914, e, dopo essersi potuta finalmente sposare con Ruini nel 1938, gli rimase accanto con amore fino alla propria morte, nel 1963.
Nella prima decade del nuovo secolo Ruini prese a occuparsi anche dei problemi del pubblico impiego e gli impiegati ministeriali e comunali romani ripagarono subito il suo impegno in loro favore, permettendogli con i propri voti, in occasione delle elezioni amministrative del 10 novembre 1907, di entrare, ad appena ventinove anni, nel consiglio comunale capitolino come rappresentante di un ‘blocco popolare’ (come venne soprannominata la lista Unione liberale popolare) guidato dal mazziniano Ernesto Nathan. Gli ottimi rapporti che aveva saputo allacciare con i socialisti reggiani gli consentirono, inoltre, l’11 dicembre 1910, di essere eletto consigliere provinciale di Reggio Emilia.
Il clima di collaborazione che dalle prime settimane del 1907 aveva instaurato con i più importanti esponenti del socialismo riformista italiano durò pochi anni, anche perché non gli piacque l’intransigenza con la quale il partito socialista si oppose all’impresa libica. Ciò lo spinse a partecipare in maniera più attiva alla vita dell’Associazione radicale romana, alla quale si era iscritto nell’estate del 1904, e a stabilire legami più stretti con i maggiori dirigenti radicali, e in special modo con il leader del partito, Ettore Sacchi, che nel marzo 1910, allorquando fu nominato ministro dei Lavori pubblici nel governo Luzzatti, già lo aveva voluto come suo capo di gabinetto. I dissensi sorti sin dal 1908 con il sindaco Nathan lo convinsero a non ripresentare la propria candidatura alle elezioni comunali di Roma del 14 giugno 1914, anche perché, grazie al sostegno di Sacchi e alla considerazione che aveva saputo conquistarsi fra gli abitanti dell’Appennino reggiano, il 26 ottobre 1913 era stato eletto, al primo scrutinio, deputato del collegio di Castelnuovo ne’ Monti in rappresentanza del partito radicale.
Dopo lo scoppio del primo conflitto mondiale aderì alla causa dell’interventismo democratico, sostenendo che l’Italia doveva entrare in guerra non solo per completare l’opera del Risorgimento con la liberazione del Trentino e della Venezia Giulia dalla dominazione austriaca, ma soprattutto per difendere l’Europa dalle mire imperialistiche austro-germaniche. Allorché l’Italia intervenne nel conflitto, riuscì a farsi mandare volontario al fronte, prima come sottotenente del genio e poi come tenente dei bersaglieri. Per il coraggio dimostrato sul Carso, nell’agosto 1917 venne decorato con la medaglia d’argento al valor militare.
Nell’ottobre 1917 diede la propria adesione all’Unione parlamentare, nata il 16 di quello stesso mese per decisione di un gruppo di deputati legati a Giovanni Giolitti o a Francesco Saverio Nitti che si proponevano di tutelare i diritti del Parlamento minacciati dalle tendenze accentratrici del governo Boselli. Proprio in questa circostanza cominciò ad accostarsi politicamente a Nitti, con il quale collaborò fino ai primi mesi del 1922.
Al termine della guerra fu sottosegretario all’Industria, Commercio e Lavoro dal gennaio del 1919 al marzo del 1920, ovvero nell’ultima fase del governo Orlando e in quella iniziale del primo ministero Nitti. Dal maggio al giugno 1920 visse la sua prima esperienza di ministro, alla guida del dicastero delle Colonie nel secondo gabinetto Nitti. Nel frattempo, il 16 novembre 1919, era stato rieletto alla Camera nel collegio di Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia e si era iscritto al gruppo parlamentare radicale. Alle elezioni politiche del 15 maggio 1921, viceversa, rinunciò a ricandidarsi, dato che, per via dei suoi legami politici con Nitti, sia il presidente del Consiglio, Giolitti, sia i giolittiani e i fascisti emiliani posero il veto all’inserimento del suo nome nella lista del «blocco nazionale» da presentare nella circoscrizione elettorale di Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia.
Per quel che concerne le questioni economiche, sociali e istituzionali, la proposta più significativa da lui avanzata nel primo dopoguerra fu quella riguardante il Consiglio nazionale del lavoro. A suo giudizio, la crescita continua delle esigenze economiche e sociali alle quali dovevano provvedere il governo e il Parlamento imponeva la trasformazione del Senato di nomina regia in organo elettivo a carattere tecnico dotato di poteri deliberanti, vale a dire in una camera di rappresentanza non dei partiti e degli interessi politici, bensì delle classi e degli interessi economici, sociali e professionali. Per avviare questo processo di riforma, egli proponeva di modificare il Consiglio superiore del lavoro, un organismo consultivo istituito nel 1903, in Consiglio nazionale del lavoro, ossia in un organo deliberativo in materia di lavoro formato da rappresentanze paritetiche dei lavoratori e dei datori di lavoro suddivise per settori di produzione.
In pari tempo, avvertiva la necessità che le forze della democrazia prendessero piena coscienza dei cambiamenti politici, economici, sociali e di valori prodotti dalla guerra, perché solo in questa maniera era possibile fornire risposte convincenti alle istanze pressanti che venivano dal Paese, specie da parte dei ceti medi, far fronte alla concorrenza elettorale dei due grandi partiti di massa, il partito socialista e il partito popolare, e subentrare nella direzione dello Stato alla vecchia classe politica liberale, la quale non appariva più in grado di garantire stabilità al governo, sbarrare il passo al propagarsi delle idee socialiste e all’estendersi delle violenze fasciste e ridare autorevolezza a tutto l’organismo statale. Per tale motivo sin dal gennaio 1921 mise in risalto l’urgenza di dar vita a una «democrazia senza aggettivi» (come recitava il titolo di un suo articolo, La democrazia senza aggettivi, in il Resto del Carlino, 26 gennaio 1921, p. 1), ovverosia a un moderno partito riformista, laico e interclassista, che riunisse liberali non conservatori, radicali, socialriformisti ed ex combattenti democratici.
In un primo momento egli aveva sperato che a promuovere l’aggregazione delle forze democratiche fosse il partito radicale. Ma il rapido disgregarsi di quest’ultimo dopo le elezioni del maggio 1921 e le riserve suscitate in lui dal partito che, tra l’agosto 1921 e l’aprile 1922, sorse dalle sue ceneri, la Democrazia sociale, favorirono il graduale avvicinamento di Ruini a Giovanni Amendola, le cui idee presentavano più di un’affinità con il suo disegno di una «democrazia senza aggettivi». Per questa ragione egli accettò di entrare a far parte della redazione del quotidiano romano Il Mondo, fondato da Amendola il 26 gennaio 1922, dove, occupandosi soprattutto di questioni economiche, finanziarie e amministrative, fornì un contributo non irrilevante alla campagna da esso condotta contro gli atti di violenza, gli arbitri e le violazioni della libertà perpetrati dal fascismo. Nel 1924, poi, fu tra i promotori dell’Unione nazionale delle forze liberali e democratiche, il movimento di opposizione liberaldemocratico nato l’8 novembre di quell’anno per volontà dello stesso Amendola. A conferma della fiducia che Amendola nutriva nei riguardi di Ruini, sul finire del 1924 gli affidò l’incarico di rappresentare il movimento nel comitato esecutivo della ‘secessione dell’Aventino’ e, alcuni mesi più in là, quello di presiedere il primo e unico congresso dell’Unione nazionale, svoltosi a Roma dal 14 al 16 giugno 1925.
Per il suo antifascismo, nel febbraio 1927 fu espulso dal Consiglio di Stato e dopo poco gli venne impedito pure di esercitare l’avvocatura e d’insegnare. S’iniziò così quella che egli stesso definì, nel libro autobiografico Ricordi, pubblicato postumo nel 1973 (pp. 66 s., 219, 221 s., 241, 243), «vita di esilio in patria», durante la quale fu costretto a rinunciare a qualsiasi forma di attività pubblica.
Nonostante la sorveglianza della polizia, negli anni dell’«esilio in patria» mantenne rapporti con parecchi antifascisti, giovani e meno giovani. Questo gli permise, tra il calare del 1942 e gli inizi del 1943, di promuovere insieme con Ivanoe Bonomi la costituzione del Comitato delle forze antifasciste, che il 9 settembre 1943, nel mentre le truppe naziste entravano a Roma, proprio Ruini volle che venisse trasformato in Comitato di liberazione nazionale (CLN), con il compito di coordinare politicamente la resistenza contro l’occupante tedesco. Andò delusa, invece, la loro speranza di dar vita a una sorta di confederazione tra le varie correnti antifasciste. Per questo motivo fra la primavera e l’estate del 1943 i due decisero di fondare un proprio partito, erede della tradizione radicale, socialriformista, amendoliana e demosociale, al quale, per volere di Ruini, fu dato il nome di Democrazia del lavoro, cambiato il 13 giugno 1944 in quello di Partito democratico del lavoro. Dopo che Bonomi fu nominato prima presidente del Comitato di liberazione nazionale e poi presidente del Consiglio, l’uomo politico reggiano prese su di sé l’intera responsabilità del partito. Ma, nonostante l’impegno profuso, non riuscì a farne la ‘terza forza’ intermedia tra il blocco socialcomunista e la Democrazia cristiana. All’interno del CLN Ruini svolse un’importante funzione di moderazione e di mediazione, anche se nei momenti decisivi finì con il dare sempre il proprio sostegno alla linea di stabilizzazione moderata seguita da Bonomi e dalle forze politiche conservatrici (liberali e democristiani).
Allorché il 18 giugno 1944, liberata Roma, venne formato un governo di unità nazionale presieduto da Bonomi, espressione diretta del CLN, Ruini vi entrò come ministro senza portafoglio. Nel secondo ministero Bonomi, nato il 12 dicembre 1944, si accontentò di un ministero tecnico, quello dei Lavori pubblici, a condizione di avere altresì l’incarico di coordinare tutte le attività ricostruttive, guidando un organo ad hoc. Così, il 19 gennaio 1945 fu chiamato a presiedere l’appena istituito Comitato interministeriale per la ricostruzione. Il 21 giugno 1945, dopo la liberazione del Nord, ottenne finanche che nel governo guidato dall’azionista Ferruccio Parri si creasse per lui un apposito ministero della Ricostruzione. Sennonché, con il trascorrere dei mesi, andò persuadendosi sempre di più che, per provvedere con efficacia alla ricostruzione del Paese e per dare un indirizzo meno estemporaneo alla politica economica italiana, occorresse avere pure il portafoglio del Tesoro. Le pressioni esercitate dai liberali su Alcide De Gasperi, quando il 10 dicembre 1945 quest’ultimo sostituì Parri, indussero il leader democristiano, a dispetto delle sue iniziali assicurazioni, a non accogliere la richiesta di Ruini. In cambio gli offrì, in aggiunta al dicastero della Ricostruzione, una delle due vicepresidenze del Consiglio. Ma l’uomo politico reggiano, amareggiato, preferì non accettare. Contemporaneamente, il 9 dicembre 1945, si dimise anche dalla carica di segretario politico del Partito democratico del lavoro, che deteneva dal 29 maggio di quell’anno, a causa delle critiche che alcuni dei principali dirigenti demolaburisti gli avevano mosso per la maniera in cui aveva condotto le trattative per la formazione del nuovo ministero. Accolse, viceversa, l’invito di De Gasperi ad andare a presiedere il Consiglio di Stato, essendo il consigliere più anziano. Alla presidenza del Consiglio di Stato restò due anni, dal 15 dicembre 1945 fino al raggiungimento dei limiti d’età, l’11 dicembre 1947.
Della guida del Partito democratico del lavoro in vista delle elezioni per l’Assemblea costituente si fece carico Bonomi, il quale il 28 marzo 1946 mise in piedi un raffazzonato cartello elettorale, l’Unione democratica nazionale (UDN), che riunì, oltre al Partito democratico del lavoro, il partito liberale, l’Unione nazionale per la ricostruzione (il piccolo partito di Nitti), e altri gruppi minori di orientamento liberaldemocratico. Alla consultazione del 2 giugno 1946 Ruini si presentò come candidato dell’UDN in due collegi, quello di Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia e quello di Roma-Viterbo-Latina-Frosinone. Per l’UDN il risultato delle elezioni fu assai negativo. Gli stessi Ruini e Bonomi vennero eletti soltanto grazie ai resti, nel collegio unico nazionale. Poiché consideravano insanabile la crisi nella quale già da parecchi mesi versava il Partito democratico del lavoro, entrambi disapprovarono la decisione presa l’11 giugno 1946 dal comitato direttivo demolaburista di disgiungere la propria strada da quella dei liberali. Uscirono, perciò, dal partito e alla Costituente si iscrissero al gruppo misto.
Il 19 luglio 1946 l’Assemblea costituente inserì Ruini tra i membri della commissione per la Costituzione (la cosiddetta ‘commissione dei 75’, incaricata di redigere il testo della nuova carta costituzionale). Il giorno seguente la commissione lo elesse suo presidente.
In quest’ufficio egli mise a profitto la sua esperienza politica e la sua competenza nel campo del diritto pubblico e dell’economia, dispiegando un’efficacissima opera moderatrice e mediatrice e fornendo un contributo di fondamentale importanza alla formulazione del testo costituzionale.
Il 22 aprile 1948 venne nominato senatore di diritto per la prima legislatura repubblicana e proprio al Senato, al termine della legislatura, si rese protagonista dell’episodio più controverso di tutta la sua carriera politica. Il 25 marzo 1953, all’immediata vigilia della discussione del progetto di riforma elettorale in senso maggioritario, che le sinistre avevano battezzato ‘legge truffa’, i gruppi senatoriali dei quattro partiti che formavano la coalizione di governo (Democrazia cristiana, Partito socialdemocratico italiano, Partito repubblicano italiano e Partito liberale italiano) gli offrirono di sostituire il presidente dell’assemblea, il liberale Giuseppe Paratore, che si era dimesso perché contrario all’intenzione del governo – cosa fino ad allora inusuale – di porre la questione di fiducia su una legge elettorale, allo scopo dichiarato di vincere l’ostruzionismo dell’opposizione. Benché Ruini giudicasse un po’ eccessivo il premio di maggioranza previsto dal disegno di legge governativo, pensò che fosse suo dovere assumere l’incarico, nella convinzione che, grazie al credito di cui godeva presso tutte le forze politiche, si potessero superare i contrasti esistenti fra il governo De Gasperi e l’opposizione di sinistra, impedendo in tal modo che venisse arrecato un grave danno alla credibilità dell’istituto parlamentare. S’iniziò così quella che egli stesso avrebbe definito poi con amarezza, nei Ricordi (p. 123), la sua «via crucis». Di fronte all’ostruzionismo messo in atto dalle sinistre, nella seduta del 29 marzo, in un’atmosfera di altissima tensione, egli permise che il governo ponesse la questione di fiducia sul disegno di legge e, quindi, che quest’ultimo fosse approvato senza emendamenti. Questa circostanza scatenò le veementi proteste dei comunisti e dei socialisti, i quali lo accusarono di aver violato il regolamento di palazzo Madama.
Profondamente scosso dalle critiche piovute su di lui per il comportamento tenuto al Senato il 29 marzo, decise di non candidarsi alle elezioni politiche del 7-8 giugno 1953. Da quel momento condusse una vita sempre più appartata. Anche quando, il 27 dicembre 1957, fu chiamato a presiedere il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, non completò il triennio di presidenza, dimettendosi dopo poco più di un anno, l’8 gennaio 1959. La sola soddisfazione da lui provata in quegli anni gli venne, il 2 marzo 1963, dalla nomina a senatore a vita.
Morì a Roma il 6 marzo 1970 e per sua volontà venne seppellito nel cimitero di Canossa, sull’Appennino reggiano, a pochissima distanza da San Polo d’Enza, dove per molti anni aveva avuto una casetta per le vacanze, venduta poi, durante il periodo fascista, alla sorella Ilde.
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