mezzadria
Contratto agrario in base al quale un proprietario o affittuario terriero (concedente) assegna al socio-colono un podere idoneo alla produzione agricola, già dotato di abitazione per la residenza stabile del coltivatore (ricevente) e della sua famiglia, di necessità proporzionata alla misura del suolo da coltivare; il colono si impegna a lavorarlo e partecipa con i familiari alle spese di gestione e agli utili nella misura del 50%. Il principio della divisione paritaria di oneri e utili ha subito cambiamenti nel tempo col variare della forza contrattuale delle parti contraenti. Sull’equilibrio tra queste ha influito soprattutto l’aumento nel lungo periodo della pressione demografica, che ha agito a vantaggio del concedente fino a dar luogo, nei casi di aree sovraffollate e a bassa produttività, a forme appena mascherate di lavoro subordinato. Di m. si è parlato in relazione a tutte le parti del mondo, dal Sud-Est asiatico alle Americhe, dal Sudafrica al Giappone, dall’Etiopia al Maghreb, mescolando nel termine i più vari elementi dell’affitto, della concessione, della colonia parziaria, ecc., con l’effetto di dilatare notevolmente l’ambito semantico del termine. In Europa quando si parla di m. ci si riferisce a quella basata sulla classica divisione paritaria degli utili che cominciò a diffondersi a partire dal Basso Medioevo, in seguito all’abolizione della servitù della gleba, all’erosione dell’economia curtense, alla crescita delle città, e che ha costituito la forma più perfezionata di impegno globale della famiglia contadina, con ruoli ben definiti per i singoli componenti, dai bambini agli anziani; nella storia dell’agricoltura europea e soprattutto dell’Italia centrosettentrionale la m. ha avuto un’importanza molto grande dal Basso Medioevo al 20° secolo. In Italia il primo contratto accertato risale al 9° sec., ma fu solo nel 12° sec. che la m. divenne la forma contrattuale largamente prevalente nella Pianura Padana, nell’area tosco-umbro-marchigiana e minoritariamente presente anche nelle zone collinari delle altre regioni centrosettentrionali. L’aumento demografico e il progressivo trasferimento in città di nobili e proprietari fondiari favorì nel corso dell’Età moderna l’estensione territoriale del contratto e il progressivo peggioramento delle condizioni del colono. A metà del Settecento l’80% dei poderi toscani non garantiva l’alimentazione della famiglia colonica, per cui furono necessari gli interventi legislativi di Pietro Leopoldo del 1765-66 per mitigare le condizioni contrattuali della parte colonica. Il contratto, basato quanto a scelte produttive sulla priorità del soddisfacimento del fabbisogno alimentare della famiglia colonica, dimostrava un’indubbia difficoltà di fondo ad adattarsi alle esigenze di una economia in via di progrediente mercantilizzazione. Non per caso sulla m. fiorì tra Settecento e Ottocento una ricca e articolata letteratura teorica. Le critiche dei fisiocratici, di A. Young, A. Smith, C. Ridolfi, non furono accolte da J.-S. Sismondi, G. Capponi, R. Lambruschini, ma vennero riprese da K. Marx nel Capitale, che vide nella m. una «forma di transizione dalla forma originaria della rendita alla rendita capitalistica», e da studiosi come E. Sereni e G. Giorgetti che la definirono nel 20° sec. un «residuo feudale» (in particolare). A. Marshall e altri videro nella m. una minore efficienza rispetto ad altre forme di conduzione per cui essa avrebbe ceduto prima o poi il campo a un più razionale sistema di rendite fisse e di lavoro salariato, come infine è avvenuto. Comunque tra Settecento e Ottocento in Toscana vi fu un grande sforzo di coordinamento e centralizzazione amministrativa dei poderi, nonché di ammodernamento tecnico, che implicò una modifica forzata delle pratiche lavorative e delle scelte colturali dei coloni, per cui il sistema fu in grado di raccogliere la sfida del 19° sec. e mantenere le posizioni acquisite; ma nella Pianura Padana esso cedette già allora il passo a forme varie di colonia e, soprattutto, alla grande azienda capitalistica con manodopera salariata. In Italia, dopo l’unità, il primo codice civile unitario (1865) fissò alcuni principi in materia di m., colonia e masseria, ribadendo la paritaria divisione dei frutti agricoli e industriali del fondo tra concedente e mezzadro e la tacita rinnovabilità annuale del contratto. Nel primo Novecento e subito dopo la Prima guerra mondiale, venne posto dalle lotte agrarie il problema del miglioramento del patto a favore del mezzadro, ma non quello della sua abolizione, se non nei luoghi (pianure irrigue, aree di colture industriali) ove la m. stava scomparendo da sola. Il fascismo vide nel patto mezzadrile l’espressione del solidarismo tra opposti interessi e lo incoraggiò capillarmente con la Carta della m. (1933). Nel dopoguerra si ebbe una rapida decadenza della m. non solo per le spinte in direzione della coltivazione diretta dei poderi, che alcuni pensavano di espropriare e assegnare ai mezzadri, ma anche per il crescente rifiuto dei contadini a risiedere nelle vecchie case coloniche, spesso senza elettricità e acqua corrente. Si giunse così all’accordo per la tregua mezzadrile (1947), che modificava il riparto dei prodotti: 53% al colono, 47% al proprietario, con prelievo da questa quota del 4% per le «migliorie del podere». Nel 1964 fu vietata per legge la stipula di nuovi contratti di m., esclusi quelli in corso, con un nuovo riparto: 58% al ricevente, 42% al concedente. I provvedimenti legislativi del 1982 e del 1990 imposero la trasformazione dei contratti di m. sopravvissuti all’esodo spontaneo dei coloni in affittanza obbligatoria a loro favore.