Mezzogiorno
Cristo non si è fermato a Eboli
Luci e ombre dell'economia meridionale
di Sandro Bonella
16 luglio
L'annuale Rapporto sull'economia del Mezzogiorno della SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno) segnala che nel 2002 le regioni meridionali hanno ridotto il divario con il resto del paese, avendo fatto registrare una crescita del PIL dello 0,8% a fronte dello 0,2% attestato nel Centro-Nord. Inoltre l'occupazione al Sud ha segnato nel 2002 un incremento dell'1,5%, mentre al Centro-Nord l'aumento è stato pari allo 0,9%.
Questione meridionale e questione nazionale
Quando si è chiusa la 'questione meridionale'?
La domanda non è retorica, non è nemmeno una concessione alle nuove mode. Il fatto è che i termini del problema sono radicalmente cambiati, perché è cambiato il Mezzogiorno e perché è cambiato il contesto. Nell'era della globalizzazione, dei mercati interdipendenti, dell'economia della conoscenza, l'ottica necessariamente si allarga e nello stesso tempo si fa più selettiva. Da una parte, i mercati di riferimento non sono più quelli locali o nazionali, ma il mercato europeo e la sua apertura verso l'Est e verso il Mediterraneo. Dall'altra, le logiche dello sviluppo possibile sono sempre più strettamente intrecciate al territorio, alla valorizzazione delle energie endogene, alla nascita e alla crescita dei distretti, alla messa in rete - reti imprenditoriali e istituzionali, reti di fiducia - delle iniziative.
Le analisi e le diagnosi dei Fortunato e dei Salvemini, o quelle più recenti dei Saraceno e dei Rossi Doria - decenni interi di meridionalismo - sono alle nostre spalle, con i loro successi e con i loro limiti. Si fa strada un meridionalismo nuovo, pragmatico, meno dirigista e più attento alle peculiarità positive che il Sud può esprimere, alle potenzialità che, fra luci e ombre, la società civile meridionale manifesta. Si rifiuta l'idea che il Mezzogiorno abbia bisogno di politiche 'speciali'. Si sostiene invece che servono modulazioni territoriali, non solo per il Sud, di una coerente politica nazionale, in un'Italia che fa parte, per la scelta europea, di un insieme più vasto, con vincoli e con opportunità. E che, per la sua posizione geografica, è un ponte naturale fra l'Europa e il Mediterraneo, fra le due rive di questo mare, aperto attraverso i traffici del Canale di Suez alle economie del Medio Oriente - l'antico Levante delle Repubbliche marinare - e dei paesi emergenti del Sud-Est asiatico. C'è insomma una 'questione nazionale' da affrontare, nel cui ambito si inseriscono le specificità delle regioni meridionali. Ma esse sono una parte del quadro, non un quadro a sé stante. Del resto, il meridionalismo migliore, diversamente da quello 'piagnone' e rivendicazionista, ha sempre legato il problema del Sud a una prospettiva di sviluppo dell'intero paese. L'Italia sarà quel che sarà il suo Mezzogiorno: era vero ieri, è tanto più vero oggi, in una realtà in cui la perifericità a lungo lamentata può trasformarsi in vicinanza, l'isolamento può tradursi in condizione geografica privilegiata per collegare realtà potenzialmente complementari.
Del resto, è realistico puntare, o puntare soltanto, all'ulteriore sviluppo delle già congestionate aree del Nord, irte di capannoni industriali disseminati nelle campagne lungo autostrade e strade nazionali e provinciali, a loro volta intasate da colonne di TIR e da mezzi di trasporto di ogni genere? Certo, le infrastrutture vanno migliorate, portate all'altezza delle esigenze di zone che sono fra le più ricche d'Europa e del mondo. Ma non occorre essere ambientalisti di mestiere per vedere che esiste un limite, una soglia oltre la quale le scorie della crescita confliggono con la qualità della vita, che lo sviluppo qualitativo può essere indefinito, quello quantitativo no.
Nel Sud, invece, il margine per lo sviluppo quantitativo è grande, naturalmente a patto che esso coincida con la qualità. Non è questo che si intende quando si dice che il Mezzogiorno è una risorsa? Lo si dice spesso, e talvolta si ha la sgradevole impressione di sentire una litania consolatoria. Ma è vero. Non solo il Sud è una risorsa per sé stesso. Lo è per il Nord, per l'imprenditoria delle aree forti alla ricerca di delocalizzazioni, di reti imprenditoriali, di sinergie e di gemellaggi fra distretti. Il Mezzogiorno è stato per tanto tempo, si può dire storicamente, mercato domestico di sbocco dei prodotti dell'industria settentrionale. Oggi, in tempi di internazionalizzazione e di mercati globali, il mercato domestico non è più decisivo. Sempre più importante, invece, è lo sviluppo del tessuto imprenditoriale, di un'imprenditorialità che generi altra imprenditorialità dando impulso alla crescita di reti che sappiano dare risposte ai limiti di una realtà produttiva come quella italiana, basata essenzialmente sulla piccola e media impresa, al Sud come al Nord, valorizzandone nello stesso tempo le caratteristiche positive quali la dinamicità, la flessibilità, la capacità di adattamento. Una realtà produttiva che sappia attrezzarsi per competere su mercati sempre più esigenti, su cui la concorrenza si gioca più in termini di innovazione e di qualità che di semplici fattori di costo.
La chiusura della questione meridionale
E allora: quando si è chiusa la 'questione meridionale'? La risposta è nei fatti: nei primi anni Novanta, quando si esaurisce la politica dell'intervento straordinario e chiude definitivamente la Cassa per il Mezzogiorno. Il paese non regge più l'espansione incontrollata della spesa pubblica, che ha raggiunto livelli senza paragone con gli altri paesi europei. La rincorsa europea dell'Italia, la firma del trattato di Maastricht, impongono paletti severi: ancora una volta, è il 'vincolo esterno' a indurre comportamenti virtuosi.
La dissennata politica per il Sud degli anni Ottanta, la politica degli interventi a pioggia, di risorse non produttive distribuite con criteri clientelari o, nell'ipotesi più benevola, assistenziali, di opere pubbliche cominciate e mai finite, dell'emergenza permanente, si interrompe bruscamente.
C'è un singolare parallelismo fra la parabola della politica per il Mezzogiorno e quella del sistema politico italiano fra gli anni del dopoguerra e i primi anni Novanta. I risultati ottenuti in poco più di quarant'anni sono nel complesso straordinari. Un paese già povero, devastato dalla sconfitta militare, dalla guerra civile e dall'occupazione straniera, è diventato un paese ricco, industrialmente avanzato, stabilmente inserito nel salotto buono delle potenze economiche del pianeta. Il Sud, certo, resta indietro. Il suo reddito pro capite continua ad aggirarsi fra il 55 e il 60% di quello delle regioni settentrionali. Il 'divario', in altri termini, si conferma. Ma una cosa è il 55-60% di un paese povero, un'altra il 55-60% di un paese ricco. E non è senza significato che l'evasione scolastica sia scesa ai livelli del Centro-Nord, che la percentuale dei laureati sia passata dall'1 al 5% della popolazione. Il Mezzogiorno di Carlo Levi non esiste più, non esiste più la società contadina miserabile, in gran parte analfabeta, senza altra speranza che l'emigrazione, chiusa e 'lontana'. L'intervento straordinario e la Cassa per il Mezzogiorno, con il loro dirigismo, con la loro politica economica, hanno funzionato, hanno prodotto risultati. Così come a livello nazionale hanno funzionato, e prodotto risultati storici, il sistema dei partiti e la democrazia che essi hanno costruito, irrobustendo, mediante una sorta di funzione pedagogica, una società civile gracile, attratta da suggestioni populistiche e non democratiche così a destra come a sinistra. Indubbiamente, occorre distinguere. Lo slancio della giovane democrazia italiana è straordinario negli anni Cinquanta e Sessanta, incontra difficoltà gravi nel decennio successivo, entra in crisi, degenera e infine si esaurisce con gli anni Ottanta. Allo stesso modo, l'efficacia dell'intervento straordinario per il Sud, e della Cassa, produce risultati importanti fino ai primi anni Settanta, si scontra poi con il fallimento dell'industrializzazione 'pesante' promossa dalle Partecipazioni statali (le 'cattedrali nel deserto'), degenera nello spreco irresponsabile, nel clientelismo e nella corruzione fra il 1980 e il 1991. La condizione del Mezzogiorno segue da vicino la condizione generale del paese, la questione meridionale conferma di essere una parte della più generale questione italiana. Certo, con le sue specificità. Ma non ci sono le specificità del Nord-Est, quelle delle aree di più antica industrializzazione, quelle ancora più marcate delle regioni del Centro, che hanno raggiunto straordinari livelli di sviluppo attraverso 'modelli' diversi? Queste specificità, nella stessa fase, aprono la cosiddetta 'questione settentrionale', interpretata e agitata da una forza totalmente nuova, la Lega Nord, che rappresenta con toni separatisti la protesta contro Roma e contro il centralismo. Il Sud, in questo clima, è visto come una zavorra, un'area di parassitismo descritta - dalle punte più estreme - con toni razzisti. Il Mezzogiorno gode di pessima stampa. Le distorsioni innegabili del decennio precedente vengono enfatizzate, gli aspetti positivi, che pure esistono, trascurati. Il Sud, nel complesso, perde potere politico, capacità di influenza sulle scelte di fondo.
Eppure, in una fase estremamente critica, nel Mezzogiorno si manifestano e poi prendono corpo energie che erano rimaste compresse e che dimostrano di saper reagire alla complessità del nuovo contesto.
Un Mezzogiorno, più Mezzogiorni
Del resto, il Mezzogiorno non è più il Mezzogiorno. Non è più, in altre parole, un'area compatta di arretratezza, una società arcaica e omogenea, se mai lo è stato. Non solo perché decenni di politiche meridionalistiche hanno comunque prodotto risultati, ma perché questi risultati sono differenziati. Ci sono ormai più Mezzogiorni: aree che hanno raggiunto un buon livello di sviluppo, altre che restano al palo, altre ancora che non riescono a uscire dalle pastoie della criminalità organizzata e dell'illegalità diffusa.
Per il Sud l'impatto dei primi anni Novanta è pesante. L'economia, nella prima metà del decennio, resta ferma. Calano drasticamente gli investimenti e la forbice con il Nord si allarga. La disoccupazione supera il 20%, con punte che sfiorano il 30% nelle aree più deboli. La metà dei giovani non riesce a trovare lavoro. L'impiego pubblico, che ha costituito negli anni precedenti lo sbocco principale (90.000 posti fra il 1985 e il 1989), si contrae. Le Partecipazioni statali che, nel bene e nel male, hanno svolto una fondamentale funzione di traino, vengono sottoposte a un massiccio processo di privatizzazione. A loro volta, le imprese danno il via a profondi processi di ristrutturazione e di riorganizzazione, con quote significative di espulsione della manodopera. Il sistema bancario meridionale praticamente scompare, assorbito da istituti di credito del Centro-Nord: finiscono le distorsioni della gestione del credito nel Mezzogiorno, ma si apre il rischio che le risorse del risparmio meridionale vengano sottratte al territorio di origine.
In queste condizioni, nel corso degli anni Novanta la crescita riprende, con ritmi sia pur di poco superiori a quelli del Centro-Nord, mediamente del 2% l'anno fra il 1996 e il 2001, contro l'1,8%. Soprattutto, si tratta di una crescita qualitativamente diversa rispetto al passato, più legata a energie e fattori locali o - per meglio dire - a energie e fattori locali che sanno collegarsi in positivo a opportunità nuove e a partnership esterne. Gli esempi non sono pochi. Quello del porto di Gioia Tauro è emblematico, in un quadro di miglioramento generalizzato di tutta la portualità meridionale: costruito vent'anni prima per servire il quinto centro siderurgico italiano, che non sarà mai realizzato, Gioia Tauro si sottrae alla sua sorte di 'cattedrale nel deserto' perché riconvertito da privati nel progetto di sviluppo di traffici intercontinentali di grandi navi portacontainer, e in pochi anni raggiunge il primato nel Mediterraneo e fa concorrenza vincente ai grandi e tradizionali scali del Nord Europa.
Il più grande aeroporto del Sud, Napoli Capodichino, viene privatizzato - il primo in Italia - e la nuova gestione realizza un incremento notevole di traffico e di efficienza. Lungo l'asse adriatico, meglio collegato con le regioni limitrofe, si producono gli effetti positivi del decentramento produttivo e si avvia un processo di integrazione fra imprenditoria locale - nuova o legata ad antiche produzioni artigianali - e imprenditorie centro-settentrionali. Registrando alcuni successi straordinari: la produzione del 'triangolo del salotto' nella Murgia barese e materana è destinata in gran parte all'esportazione e diventa leader sul mercato nordamericano.
In generale si diffonde una qualità nuova, una migliore propensione all'impresa, talvolta prodotta dalle stratificazioni delle competenze e delle conoscenze tecniche e manageriali indotte dalle industrializzazioni precedenti. Una chiave di successo sta spesso nella collaborazione fra le imprese e fra queste e l'ente locale e l'università. L'esempio più clamoroso, e più conosciuto, è quello della ST Microelectronis di Catania, che punta sulla ricerca e l'innovazione, impiega diplomati e laureati per poco meno del 70% della sua forza lavoro, e ha un grande successo internazionale. Ma vanno ricordate anche la Tiscali a Cagliari, fra i maggiori Internet providers europei, o la Finmatica a Salerno.
Anche in settori più tradizionali si vedono progressi significativi. In pochi anni, le presenze del turismo internazionale nelle regioni meridionali raddoppiano, da 10,5 milioni nel 1993 a quasi 20 milioni nel 2001: dal 7,3 al 10% del turismo nelle aree del Mediterraneo settentrionale. Ancora poco per una realtà che dispone fra l'altro di 1400 ettari di siti archeologici? Certo: ma il raddoppio delle presenze indica che si è imboccata la strada dell'industria alberghiera e dell'accoglienza di qualità (tradizionalmente carente nel Mezzogiorno, sia pure con significative eccezioni). Lo stesso turismo culturale riceve impulsi significativi: di quei 1400 ettari di siti archeologici, solo un terzo è aperto al pubblico, ma la quota comincia a crescere e cambiano i metodi di gestione. Basti pensare a Pompei.
A proposito di qualità. L'agricoltura meridionale, in molte aree, si specializza. Mezzo milione di ettari, il 70% del totale nazionale, è destinato alle coltivazioni biologiche. I prodotti del Sud diventano competitivi, con punte di eccellenza. Un esempio fra tutti: i vini meridionali, tradizionalmente grossolani e in gran parte destinati al 'taglio', conquistano significative quote sui mercati europei, nordamericano, giapponese, per merito di produttori che valorizzano i vitigni e le vinificazioni tradizionali e legano la produzione, affinandola, a metodologie antiche. Nell'area archeologica di Pompei ci sono zone destinate alla coltivazione della vite com'era praticata in epoca romana, a opera dei Mastroberardino.
Nelle nuove condizioni di contesto, insomma, l'economia del Mezzogiorno dimostra di saper trovare un suo spazio, inserendosi nell'andamento complessivo dell'economia nazionale e cominciando a recuperare l'arretratezza precedente. Lo dimostra fra l'altro il trend delle esportazioni, che fra il 1992 e il 2001 passano da 20.000 a 50.000 miliardi di lire, dal 5 al 10% del PIL meridionale. Anche dopo la fine delle svalutazioni competitive della lira, di cui il Sud si è giovato come il resto del paese, la crescita delle esportazioni continua.
Senza dubbio, non mancano le ombre. Il livello di disoccupazione è drammatico e solo dopo il 1999 si registra un aumento di posti di lavoro di un qualche rilievo, un aumento, tuttavia, più significativo in termini di qualità. Fra il 1996 e il 2001, riprende l'emigrazione - nel complesso circa 400.000 unità - in buona parte di persone dotate di un elevato livello di istruzione. Cresce l'economia sommersa, fino al 25% di quella regolare (contro il 10% del Centro-Nord: ma si tratta, per definizione, di stime approssimative). Per converso, si intensifica, per la prima volta con il concorso attivo di settori consistenti della società civile, il contrasto alla criminalità organizzata, la cui escalation ha raggiunto l'acme nel 1992 con le uccisioni dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
È un dato confortante, che produce partecipazione e fiducia, anche se il tasso complessivo di illegalità negli stessi comportamenti quotidiani - rimane insopportabilmente alto.
Un atteggiamento diverso
Perché il Mezzogiorno ha saputo reagire alla fine del meridionalismo classico, dell'intervento straordinario che garantiva ogni anno un flusso consistente di risorse e un livello di occupazione accettabile, sia pure a prezzo di molti posti di lavoro fittizi e di una generalizzata bassa produttività? Non era scontato, ci si poteva aspettare ribellismo o rassegnazione al declino.
Invece non è così. I segnali vengono dalla società civile e dalla nuova politica. Cambia la qualità del personale politico nelle amministrazioni locali e nei Comuni; cala la percentuale di coloro che emergono dal professionismo politico o dalla burocrazia amministrativa (i protagonisti del 'sistema' degli anni Ottanta), sale significativamente quella delle persone che provengono dalle professioni intellettuali e liberali. C'è una nuova classe dirigente nel Sud, che trova ambiente favorevole nella novità dell'elezione diretta dei sindaci, che produce stabilità e un rapporto nuovo e più diretto fra amministrazioni e territorio, fra istituzioni locali e cittadini. Si sperimentano forme di collaborazione fra le amministrazioni e fra di esse e i privati per mobilitare le risorse locali e per valorizzarle. La pubblica amministrazione, tradizionalmente compressa dall'intervento straordinario, nel nuovo clima fa qualche passo avanti, seppure timido, sulla via dell'efficienza. Migliora di conseguenza - anche se non quanto potrebbe e dovrebbe - la capacità di utilizzare i Fondi europei. Persino l'endemico abusivismo edilizio rallenta. Naturalmente, l'andamento non è uniforme: ci sono successi e fallimenti, aree che progrediscono e altre che restano indietro.
Nel complesso, però, il Mezzogiorno manifesta dinamicità ed energie insospettate. Reagisce bene agli stimoli e alle opportunità che vengono dalla nuova politica, a conferma che i paradigmi tradizionali della 'questione meridionale' sono definitivamente archiviati. Il mutamento del Sud è un aspetto non secondario dell'evoluzione dell'intero paese, che si confronta con una fase lunga e difficile di trasformazione politica, economica, sociale. Intorno alla metà degli anni Novanta, le nuove dinamiche dell'economia meridionale trovano alimento nelle scelte di politica economica a livello nazionale.
I diversi strumenti di promozione di attività imprenditoriali messi in campo - i contratti di progetto, i patti territoriali, i contratti d'area, le intese istituzionali e gli accordi di programma - si inscrivono in un quadro complessivo detto di 'programmazione negoziata'.
Non si tratta di una ripresa sotto altre forme dell'intervento straordinario. Anzi. La nuova politica nasce da una scelta consapevole di discontinuità, preceduta dalla legge nr. 488 del 1992 che affida all'intervento ordinario il principale strumento di agevolazione per iniziative nelle aree depresse, ed è favorita fra l'altro dalla riforma dei Fondi strutturali europei ispirata al decentramento delle competenze, all'attenzione alle forme di sviluppo locale, alla costruzione e allo sviluppo dei distretti industriali. I diversi strumenti di intervento, differenziati per tipologia e per destinatari, sono accomunati da una logica organica. La programmazione negoziata richiede il concorso e l'interdipendenza dei diversi soggetti operanti sul territorio, dalle istituzioni agli enti locali, dalla pubblica amministrazione alle Camere di commercio, dalle organizzazioni d'impresa alle singole imprese, dagli istituti di credito ai sindacati. Si constata che la cooperazione fra diversi soggetti può produrre sinergie positive, in una logica di tipo sistemico. Cambia la qualità dell'approccio dei soggetti coinvolti. Gli interventi condivisi consentono di rendere meno pesanti le diseconomie d'ambiente.
I risultati concreti degli strumenti della programmazione negoziata sono alterni. Ma nel complesso l'esperienza è positiva e viene rafforzata dalla migliore organizzazione della 'regia' a livello dell'amministrazione centrale. L'obiettivo della coesione sociale e della crescita del 'capitale sociale' nel territorio è perseguito come parte integrante della politica di promozione imprenditoriale. È soprattutto per questo che l'incontro fra le tendenze che si manifestano spontaneamente nella società meridionale e i nuovi indirizzi della politica economica nazionale produce in questa fase i risultati migliori.
Il Federalismo e le nuove esigenze
Tuttavia, fra il 1999 e il 2001 lo slancio comincia a perdere colpi. Le istanze che vengono dai segnali positivi del Sud non trovano adeguata rappresentanza nei palazzi di Roma. Nell'ultima fase della legislatura la 'questione settentrionale' assorbe l'attenzione degli schieramenti politici, convinti entrambi - al di là delle dichiarazioni più o meno politically correct di solidarietà verso il Mezzogiorno - che l'elettorato del Nord sia decisivo. I partiti riprendono vigore, mentre la spinta propulsiva dei nuovi enti locali e del nuovo protagonismo della società civile meridionale dà segni di rallentamento. In più casi si esaurisce con l'uscita di scena di alcuni dei protagonisti.
Allo stato dei fatti, il destino del Mezzogiorno appare come sospeso, il trend positivo rallenta. Certo il quadro generale, caratterizzato da bassa crescita dell'intera economia europea, non aiuta. Ma nel rallentamento giocano una parte importante l'incertezza delle prospettive e una palpabile caduta della fiducia, in primo luogo in sé stessi. Grava la grande incognita del federalismo, che comprende la riforma del titolo V della Costituzione e la sua concreta attuazione, il federalismo fiscale, il fantasma della cosiddetta 'devoluzione' con i suoi potenziali effetti dirompenti sulla tenuta dell'unità nazionale. Non consola la stessa formula del federalismo solidale: l'ipotesi di un Fondo perequativo a favore delle regioni più deboli, previsto più o meno da tutti, resta nebulosa. E invece è una questione decisiva, non solo per il futuro del Sud, ma dell'intero paese. Occorre garantire, secondo Costituzione, che i diritti di cittadinanza, compresi quelli sociali, siano uguali per tutti, su tutto il territorio nazionale. Ma il rischio è grande. Non solo in termini quantitativi: un federalismo 'compassionevole', se inteso come puro trasferimento di risorse di sostegno dalle regioni ricche alle regioni povere, potrebbe consolidare il neoassistenzialismo. Potrebbe, paradossalmente, far rinascere una 'questione meridionale' con un Mezzogiorno sentito come fardello permanente sulle spalle del paese.
Non è di solidarietà e tanto meno di compassione che il Mezzogiorno ha bisogno. Ha bisogno di fiducia, di sentirsi parte di un tutto che a sua volta costituisce la dimensione minima per misurarsi con possibilità di successo con i mercati internazionali.
Naturalmente, ha bisogno di interventi strutturali capaci di stimolare e accompagnare un più deciso progresso del Sud, e delle diverse aree del Sud, verso un sistema produttivo evoluto. Ha bisogno di incentivi finanziari, fiscali, contributivi - compresi quelli europei e tutti comunque gestiti con regole europee - per promuovere la nascita e il consolidamento delle imprese e per favorire la localizzazione meridionale di investimenti produttivi, interni ed esteri: con particolare attenzione alla promozione di forme di partnership fra imprese meridionali e con imprese del Centro-Nord, puntando alla creazione di distretti industriali e alla collaborazione con distretti di altre regioni.
Il Mezzogiorno di oggi ha bisogno di interventi che migliorino dotazione, gestione e manutenzione di infrastrutture e servizi, che accrescano l'efficienza della pubblica amministrazione, che riprendano una decisa azione di contrasto alla criminalità organizzata (con la mafia non si può 'convivere').
Dopo qualche anno di rallentamento e di inerzia, sembra ora che il cammino venga ripreso. Si mobilitano risorse consistenti, si mettono in campo strumenti nuovi come i contratti di localizzazione previsti dal Patto per l'Italia firmato nel luglio del 2002, si valorizza la funzione di 'Sviluppo Italia', società del Ministero dell'Economia e delle Finanze. Lo schema appare positivo, perché i finanziamenti sono destinati a progetti integrati di sviluppo che puntano a incidere sulle condizioni complessive di contesto del territorio, dalle infrastrutture ai servizi, alla formazione, e poiché le procedure sono state semplificate: non dovrebbero passare più di due mesi fra la presentazione delle domande e il finanziamento dei progetti accettati. Altro elemento significativo è il monitoraggio dell'effettiva realizzazione del progetto, a cui i finanziamenti sono condizionati.
Contemporaneamente, vengono rifinanziati molti degli strumenti preesistenti. Tuttavia, le risorse da sole non bastano. Occorre limitare al massimo le discrezionalità, assicurare il coordinamento delle politiche e degli investimenti, scegliere accuratamente le priorità. La scelta di puntare con forza sulle infrastrutture - dal sistema idrico alle vie di comunicazione, alle ferrovie - per rendere più 'attraente' agli insediamenti produttivi il territorio è positiva: meglio però se si resiste alla tentazione di privilegiare opere simboliche di grande impatto psicologico come il Ponte sullo Stretto - contro il quale tuttavia ogni opposizione 'ideologica' è priva di senso - per recuperare prima il ritardo di decenni accumulato dalle infrastrutture di base. E occorre puntare sull'incremento del 'capitale sociale', ridando slancio e spazio alle energie che nel Sud esistono e che hanno dimostrato di saper fare, investendo nel sistema scolastico e nelle università, in formazione professionale permanente, in ricerca e in innovazione. Ancora una volta, le prospettive di sviluppo del Mezzogiorno hanno possibilità di successo se sono considerate, e sono sentite, come parte integrante dello sviluppo dell'intero paese.
Riforma del welfare ed Europa
Per questo, non si può tacere di tre grandi problemi, che sono grandi problemi nazionali. Del primo, il federalismo, si è detto. Ma un'altra questione ineludibile è quella della riforma del welfare. L'Italia spende per il suo Stato sociale una cifra più o meno pari alla media europea, anzi qualcosa in meno. Ma ha costruito il suo welfare in modo distorto, privilegiando i trasferimenti verso i singoli e le famiglie. L'erogazione per pensioni, di anzianità o di vecchiaia, è elevatissima, come elevata è la spesa a difesa dei lavoratori, in particolare del settore industriale, che perdono il posto di lavoro. Mancano, o sono molto limitate, le risorse per contrastare la povertà, per sostenere le famiglie numerose, per alimentare politiche efficaci di inserimento lavorativo o di formazione permanente, tanto più necessarie in una fase di accentuata flessibilità e precarietà del mercato di lavoro.
Ora, la massima parte della spesa pensionistica viene erogata nel Centro-Nord, e sempre nel Centro-Nord interviene prevalentemente la Cassa integrazione. Mentre nel Sud l'11% della popolazione vive in condizioni di povertà (più di 2 milioni di persone) e più o meno la metà dei giovani è alla ricerca di un primo impiego.
Lo Stato sociale italiano, insomma, penalizza il Mezzogiorno. Un riequilibrio della spesa e una sua gestione più attiva, volta a interventi mirati a concorrere allo sviluppo, all'occupazione e a una formazione di qualità, sono condizioni necessarie per restituire al welfare una funzione di sostegno alla politica economica nazionale e per dargli maggiore efficacia nelle aree più deboli.
La questione è di estrema delicatezza. Deve essere chiaro che non si tratta di 'tagliare' la spesa sociale, ma di rimodellarla sulle nuove necessità, e che tutto ciò può essere fatto soltanto attraverso la concertazione fra le forze sociali, cioè attraverso la comune assunzione di responsabilità nell'ambito di un disegno condiviso. Così come soltanto attraverso la concertazione - sia detto in aggiunta - si può pensare a una serie di 'deroghe' concordate sui livelli salariali, legate alla produttività e alle condizioni di contesto, deroghe che aiuterebbero l'inserimento di nuove unità produttive nelle regioni meridionali.
Infine, il Mezzogiorno ha bisogno d'Europa, di un'Europa più politica, in cui l'Italia sia protagonista attiva di un europeismo convinto e autorevole, per un'Unione inclusiva delle aree periferiche e contemporaneamente attenta a quanto si muove nelle realtà geopolitiche vicine. In particolare, ha bisogno di un impulso forte della politica euromediterranea, che non bilanci ma integri gli effetti dell'allargamento a Est.
Finora, la politica dell'Unione Europea verso il Mediterraneo è stata più virtuale che reale. Si sono sentite molte dichiarazioni di principio (dalla conferenza di Barcellona nel novembre 1995 al vertice euromediterraneo di Valencia dell'aprile 2002), si sono stesi molti programmi ambiziosi (la creazione di un'area di libero scambio fissata per un improbabile 2010). Ma poche risorse sono state dedicate a sostenere queste buone intenzioni, a partire dal limitato finanziamento dei programmi Meda. Soprattutto, l'attenzione politica è stata molto episodica. Certo, il Sud del Mediterraneo come il Medio Oriente sono aree difficili, instabili, economicamente arretrate. Ma proprio per questo l'Europa ha interesse a occuparsene, mettendo in campo politiche di cooperazione che riducano l'instabilità, promuovano processi di sviluppo e di integrazione economica, incrementino gli scambi. L'Italia dovrebbe spendere tutta la sua credibilità europea per far decollare la politica euromediterranea. Non solo per ragioni di vicinanza o perché è il paese più esposto ai flussi migratori che provengono dalla sponda sud. Ma perché una politica euromediterranea forte comporta impegni e investimenti europei nell'incremento degli scambi commerciali, nei collegamenti alle reti di comunicazione, nelle infrastrutture e nella portualità, tutte cose che riguardano direttamente le nostre regioni, a cominciare da quelle del Mezzogiorno. Probabilmente, è questa la nuova 'questione meridionale'.
Questione meridionale e meridionalismo
Il Mezzogiorno prima dell'Unità
La questione meridionale si pone come un problema fondamentale dopo l'Unità, all'interno quindi dello Stato italiano e in rapporto al processo di sviluppo socioeconomico avviato in Italia in seguito all'unificazione politica ed economica. La differenziazione economica, sociale e civile fra Centro-Nord e Mezzogiorno si può far risalire invece a epoche ben più antiche. Un momento di forte distinzione fra le due parti d'Italia si colloca già alla metà dell'11° secolo, quando il Sud venne unificato nello Stato normanno a ordinamento feudale: da ciò scaturirono una precoce impronta nazionale sia nel Mezzogiorno peninsulare sia in Sicilia e, insieme, una lunga preminenza sotto diverse dinastie dei modelli e dei valori della nobiltà feudale, radicata nelle campagne e nella rendita fondiaria. L'altra parte d'Italia si orientava invece verso una più larga affermazione del modello urbano e poi delle aree regionali, che sul terreno economico-sociale davano vita a notevoli processi di sviluppo mercantile. Nel Mezzogiorno la feudalità e la Chiesa, con le vastissime proprietà terriere e la diffusione di valori e modelli di comportamento per l'intera società, bloccarono ancora nel Settecento i tentativi riformistici che la dinastia borbonica cercava di sperimentare con il sostegno di un avanzato ceto intellettuale e tecnico di formazione illuministica. Con l'abolizione della feudalità nel Regno di Napoli, prodotta nel 1806 dall'intervento esterno dei francesi, scomparvero i poteri giurisdizionali del baronaggio, che però conservò la proprietà di gran parte degli antichi possessi e, soprattutto, il potere e il prestigio sociale. I valori e i modelli feudali restarono validi anche per la borghesia agraria che andò acquisendo, nel corso dell'Ottocento, appezzamenti fondiari dalla proprietà ecclesiastica e dall'aristocrazia, mostrando però scarsa propensione a investire capitali nella trasformazione dell'agricoltura.
Nel primo Ottocento la crescita della popolazione e l'aumento dei prezzi agricoli favorirono l'espansione della produzione agricola, con lo sviluppo di alcune ristrette aree di colture intensive, senza intaccare però la centralità del sistema di produzione tradizionale, basato sulla larghissima diffusione del latifondo cerealicolo e pastorale. Scarsamente consistenti rimasero le attività industriali, per lo più di livello artigianale, che producevano per l'autoconsumo o per un ristretto mercato locale. Tra le ragioni del forte ritardo possono essere indicate la scarsa mercantilizzazione dell'economia, attestata, poco prima della caduta del Regno, dal bassissimo livello del commercio estero pro capite; l'arretratezza organizzativa delle strutture creditizie; l'irrilevanza dei sistemi di comunicazione e delle dotazioni di strade e di ferrovie, a causa della quale centri urbani in espansione e fertili o desolate campagne vivevano in quasi completo isolamento. L'analfabetismo sfiorava il 90% della popolazione, mentre in Piemonte e Lombardia l'indice, pur elevato, era del 45%.
La consapevolezza del problema
Con l'unificazione nazionale l'arretratezza meridionale confluì dentro un più largo assetto politico ed economico, che appariva comunque distante e in complessivo ritardo rispetto ai maggiori paesi europei, dove in forme diverse avevano preso il via processi di intenso sviluppo capitalistico. Il divario che distinse e contrappose subito le 'due Italie' si inseriva quindi in un più generale quadro di arretratezza che collocava il nuovo Stato italiano a notevole distanza dalle più avanzate realtà del tempo. All'atto dell'unificazione era convinzione generale che le differenze di tipi e di livelli di vita tra le due maggiori parti del paese - l'area padana e l'area meridionale - fossero dovute unicamente alle più sfortunate vicende politiche del Mezzogiorno. Un regime di libertà, il riscatto nazionale, la penetrazione non più impedita della civiltà in tutti i suoi angoli avrebbero restituito al Mezzogiorno l'antica prosperità di cui raccontavano le storie della Magna Grecia, della Sicilia musulmana, della monarchia normanna e sveva. A queste convinzioni di fondo fu ispirata la politica dell'Italia unita verso il Mezzogiorno. Il sistema fiscale, il regime di liberismo negli scambi interni e internazionali, gli ordinamenti amministrativi, la legislazione penale e civile furono adeguati a quelli del Piemonte sabaudo. A spingere verso una scelta accentratrice contribuì il vasto moto sociale del 'brigantaggio', che sconvolse le province meridionali per oltre un quinquennio e rischiò di mandare in frantumi lo Stato unitario appena fondato. Questa forma estrema di protesta sociale contro il perpetuarsi di un antico sfruttamento fu stimolata dal tentativo di restaurazione della dinastia borbonica e degli interessi temporali del Papa e dalla propaganda del clero meridionale, colpito dalla soppressione degli ordini religiosi. La lotta al brigantaggio impegnò metà dell'esercito italiano in una guerra che produsse più morti delle battaglie risorgimentali, mentre una legge speciale sanciva lo stato d'assedio e sospendeva le libertà costituzionali nel Mezzogiorno. Il rischio di perdere le province del Sud bloccò i progetti di organizzare lo Stato italiano secondo i principi del decentramento istituzionale e amministrativo, e dell'autogoverno locale. Si scelse, al contrario, un modello di rigido accentramento e si accentuò il carattere oligarchico delle relazioni politiche. L'unificazione normativa comportò pesanti conseguenze per il Sud. Il Mezzogiorno era vissuto fino ad allora in un regime di lieve pressione fiscale e aveva potuto mantenere una moneta forte e stabile, e anche accumulare riserve non perché fosse ricco e la sua ricchezza non fosse appieno sfruttata, ma solo perché un regime politico fortemente conservatore aveva ridotto al minimo gli impegni dello Stato nei lavori pubblici e nella costruzione delle grandi attrezzature di un paese moderno (strade, ferrovie, scuole ecc.). La pressione fiscale si scaricò così su un'economia che per la sua sostanziale fragilità e precarietà non era in grado di sostenerla. Il regime liberistico travolse quel po' di sviluppo manifatturiero che molto faticosamente aveva attecchito intorno alla capitale negli ultimi tempi dei Borboni. La vendita delle terre demaniali ed ecclesiastiche accelerò la trasformazione in senso borghese della proprietà fondiaria meridionale, ma i contadini restarono esclusi da questo processo di privatizzazione del possesso fondiario e videro peggiorare la loro condizione anche per la perdita degli usi civici. Nello stesso tempo la profusione di tutti i mezzi finanziari nell'acquisto di un milione circa di ettari di terre tolse alla borghesia meridionale ogni possibilità di investire capitali nel rinnovamento della produzione agricola.
Se quello del Mezzogiorno era stato all'inizio soprattutto un problema di natura politica, dopo i primi decenni di vita unitaria si cominciò a parlare di questione meridionale in termini nuovi. Le lettere meridionali di Pasquale Villari, pubblicate su L'Opinione nel 1875, con le quali iniziò la riflessione critica sulle condizioni del Mezzogiorno nello Stato italiano, possono essere considerate l'atto di nascita del 'meridionalismo', una composita corrente culturale e politica, così definita perché pone il Mezzogiorno come questione centrale della nazione e dello Stato italiani. L'orientamento meridionalistico, espresso, oltre che da Villari, da studiosi come Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino e Giustino Fortunato, produsse inchieste e analisi spregiudicate e precise delle strutture sociali ed economiche e dei comportamenti culturali e politici delle regioni meridionali, indirizzate alle classi dirigenti del paese perché si facessero carico di una situazione che minacciava il consenso sociale nei confronti del nuovo Stato liberale. A Fortunato è dovuta in particolare la più convinta e appassionata perorazione a favore dell'unità italiana contro i nostalgici della secolare indipendenza napoletana, che attribuivano allo Stato unitario i mali del Mezzogiorno su cui si alzava ora il velo. Fortunato pose l'accento sulla povertà naturale del Meridione, mettendo in luce come, malgrado la 'dorata menzogna' che ne aveva parlato da secoli come dell''orto delle Esperidi', il Sud Italia fosse in realtà un paese di aspre e brulle montagne, con pochissime pianure, largamente diboscato e preda perciò dell'erosione naturale, con un regime pluviale e idrologico disastroso, condannato a una lunga siccità estiva, con terreni argillosi e calcarei perennemente frananti, incapaci di garantire l'humus necessario a un'agricoltura degna di tale nome.
Il modello italiano di sviluppo e lo squilibrio Nord-Sud
Alla fine degli anni Ottanta del 19° secolo, processi di natura diversa indussero mutamenti decisivi nel modello di sviluppo del paese. Gli effetti della crisi agraria europea, dopo l'unificazione del mercato mondiale dovuta alla diffusione delle comunicazioni marittime e ferroviarie, ridimensionarono il ruolo dell'agricoltura italiana, mentre la scelta protezionistica, adottata nel 1887, finì con il favorire un modello di industrializzazione penalizzante per intere aree territoriali come il Mezzogiorno. La reazione alle nuove difficoltà economiche e sociali trovò sbocco in un movimento emigratorio torrenziale che nel giro di un paio di decenni portò nelle Americhe alcuni milioni di siciliani e di meridionali in generale. L'agricoltura fu così posta al servizio dell'industrializzazione, attraverso la trasformazione di una gran massa di contadini, prevalentemente meridionali, in emigranti produttori di reddito all'estero, invece che in coltivatori proprietari e quindi produttori e consumatori all'interno. Il processo di industrializzazione si concentrò nelle aree settentrionali contrassegnate da più elevati livelli di sviluppo nell'agricoltura e avvantaggiate da più facili scambi con i mercati europei avanzati, con un meccanismo tale da accrescere progressivamente il divario tra Nord e Sud. Le vicende successive non avrebbero fatto che confermare la correlazione tra i rapidi processi di industrializzazione e di sviluppo del Nord e l'avanzamento più lento del Mezzogiorno: l'interdipendenza squilibrata tra le due parti del paese sarà la costante fondamentale del particolare modo di sviluppo italiano.
Gran parte della critica meridionalistica al processo di industrializzazione concentrato al Nord assunse in questa fase un orientamento liberistico. La politica economica protezionistica fu considerata nefasta per l'economia e la società italiane e giudicata l'effetto malsano della formazione di un blocco di potere industriale-agrario. Il Mezzogiorno colpito dal protezionismo fu definito dall'economista Antonio De Viti De Marco un 'mercato coloniale', cui veniva impedita sia la possibilità di vendere sul mercato internazionale i prodotti dell'agricoltura intensiva, sia di acquistare all'estero manufatti industriali di minor costo. Il modello di industrializzazione italiano fu criticato da tutto l'orientamento liberista come 'artificiale' e 'patologico'. Pur su posizioni politiche differenziate, autori come De Viti De Marco, Gaetano Salvemini, Antonio Gramsci, Luigi Sturzo si trovarono uniti negli anni a cavallo del 20° secolo nella critica del protezionismo e dei blocchi sociali che ne erano considerati espressione e supporto (industriali del Nord e agrari del Sud; capitalisti e operai del Nord, latifondisti e piccola borghesia del Sud). Tra coloro che si distinsero invece per l'approvazione della scelta protezionistica vi fu Francesco Saverio Nitti, che si fece promotore di una politica di intervento statale in grado di avviare l'industrializzazione del Mezzogiorno, riequilibrando in direzione meridionalistica il processo di modernizzazione produttiva della società italiana. La Prima guerra mondiale contribuì fortemente ad accrescere il divario tra Nord e Sud. Le pressanti esigenze belliche determinarono un'accelerata espansione dell'industria pesante del Settentrione, alimentando un ininterrotto trasferimento della ricchezza del paese lungo la direttrice Sud-Nord. Di più, nel dopoguerra l'inflazione agì a sfavore delle derrate meridionali nello scambio con i manufatti settentrionali, falcidiando il capitale monetario dei piccoli risparmiatori, mentre, dagli anni Venti in poi, si chiudeva la 'valvola di sfogo' dell'emigrazione per l'orientamento restrittivo assunto dalla legislazione nordamericana.
Il primo dopoguerra segnò per la riflessione meridionalistica un deciso orientamento sul piano politico. Sturzo individuò l'elemento di fondo del problema nella forma accentrata dello Stato unitario italiano e indicò nelle autonomie regionali il mezzo più idoneo a liberare le energie e a proteggere gli interessi del Sud. Gramsci vide nella questione meridionale la massima contraddizione storica e sociale del paese e, riprendendo le indicazioni salveminiane sull'alleanza tra operai del Nord e contadini del Sud, le sviluppò da un punto di vista leninista. Guido Dorso indicò come obiettivo più auspicabile per il meridionalismo un profondo rinnovamento della classe dirigente, la formazione di un'élite in grado di avviare, sulle basi di una forte autonomia meridionale e regionale, un tipo di sviluppo da società occidentale avanzata. Tutte queste posizioni erano destinate a essere travolte dal fascismo, che dichiarò chiusa la questione meridionale dalla nuova politica nazionale da esso sostenuta. Il regime di Mussolini vide nell'espansione coloniale e nell'intensificazione della produzione agraria, a partire da quella cerealicola, la soluzione anche del problema demografico meridionale.
Il tentativo più consistente di modernizzazione delle campagne meridionali negli anni del fascismo fu perseguito con progetti di bonifica integrale. La legislazione adottata tra gli anni Venti e Trenta non riuscì però a produrre gli effetti di rinnovamento agrario che si proponeva, perché si infranse contro la dichiarata opposizione degli agrari meridionali e contro la più coperta ma altrettanto decisa ostilità dei grandi gruppi industriali del Nord, che non gradivano l'investimento di cospicui capitali pubblici nell'ammodernamento dell'agricoltura del Sud. Il ristagno complessivo del Mezzogiorno nel periodo fascista è attestato dal calo del reddito medio per abitante, corrispondente a circa la metà di quello settentrionale.
La Seconda guerra mondiale provvide a dissolvere gran parte degli impianti industriali dislocati in Campania con i bombardamenti alleati e con le distruzioni operate dai tedeschi in ritirata. Minori danni ricevette invece l'industria del Nord, per cui anche per questa strada si acuì il divario tra le due parti del paese. Un altro elemento che aggravò drammaticamente le condizioni sociali e di vita del Mezzogiorno liberato dalle truppe alleate fu l'enorme inflazione determinata dall'immissione senza alcuna regolamentazione delle am-lire con cui l'Italia pagava le spese degli eserciti di occupazione al Sud. Mercato nero, corruzione, criminalità, prostituzione devastarono ciò che restava delle città e delle campagne meridionali dopo l'infinita serie dei bombardamenti.
Gli anni della ricostruzione e l'intervento straordinario
La fine della guerra e l'istituzione della Repubblica rappresentarono per il Mezzogiorno un momento di svolta. Il blocco agrario meridionale, già indagato e criticato da Salvemini e da Gramsci, da Sturzo e da Dorso, ne uscì definitivamente scompaginato sia per la riduzione, accentuata nel periodo fra le due guerre, del peso sociale degli agrari rispetto ai gruppi industriali e finanziari del Nord, sia per l'esplodere del malessere contadino nelle tante occupazioni delle terre incolte, a partire dal 1944. Il contributo dei contadini meridionali si rivelò decisivo anche per la scelta repubblicana del 1946: in un Mezzogiorno largamente schierato per la monarchia il voto repubblicano nelle aree tipiche del latifondo raggiunse il 40%. L'ampio movimento di lotta per la riforma agraria, acuitosi nel 1949, risultò determinante per l'adozione da parte del governo De Gasperi di provvedimenti parziali ma significativi di riforma agraria: la 'legge Sila' e la 'legge stralcio', che espropriavano oltre 400.000 ettari non coltivati alla proprietà assenteista e li assegnavano in piccoli lotti di circa sei ettari a circa 90.000 famiglie contadine. Gli effetti di queste leggi, limitati sul piano economico, furono di enorme rilievo sul terreno sociopolitico, perché posero fine al predominio della proprietà terriera nel Mezzogiorno. Nel 1950 si chiudeva una storia plurisecolare che aveva visto la terra, i feudatari, i proprietari, i contadini protagonisti incontrastati del lento processo di inserimento delle province meridionali nella modernità. Le campagne perdevano finalmente quella centralità che era stata una costante della storia del Mezzogiorno.
Negli anni della ricostruzione venne elaborata un'originale prospettiva che si proponeva di modificare il modello di sviluppo operante in Italia in senso fortemente dualistico a svantaggio del Sud. Questo progetto, che si realizzò in modo parziale e distorto, riprendeva le indicazioni nittiane sull'industrializzazione meridionale. Nel 1946 l'iniziativa di alcuni economisti e studiosi provenienti dall'IRI, tra i quali Donato Menichella e Pasquale Saraceno, in perfetto accordo con il ministro socialista dell'industria Rodolfo Morandi, dava vita alla SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno). L'obiettivo era l'avvio di un processo di sviluppo del Sud fondato sull'industrializzazione, grazie a un intervento statale di carattere straordinario e addizionale, inteso a creare nel Mezzogiorno condizioni di convenienza per l'investimento industriale. Lo strumento della nuova politica di intervento straordinario fu trovato nell'istituzione di un ente che avrebbe dovuto godere di una notevole autonomia decisionale e amministrativa, la Cassa per il Mezzogiorno, la cui legge istitutiva fu approvata nell'estate 1950. Nel primo quinquennio, la Cassa per il Mezzogiorno si occupò quasi esclusivamente di opere pubbliche: dalle infrastrutture civili alle bonifiche e irrigazioni per l'agricoltura. I finanziamenti per l'industria furono scarsissimi, mentre già l'intervento straordinario si configurava come 'sostitutivo' della spesa pubblica, invece che 'aggiuntivo'. Una seconda fase della politica dell'intervento straordinario si aprì con la legge del 1957 sulle aree e i nuclei industriali e con l'obbligo per le imprese a partecipazione statale di collocare al Sud il 60% dei nuovi impianti. Finanziamenti agevolati e sgravi fiscali dovevano servire a diffondere l'installazione di piccole e medie industrie meridionali. Dopo alcuni anni questi incentivi furono estesi alla grande industria, privata e pubblica, che nel Sud realizzò vari grandi impianti siderurgici e petrolchimici, da Taranto a Brindisi, e poi l'Alfa Romeo a Pomigliano. La fase dell'industrializzazione selettiva, nella seconda metà degli anni Sessanta, si caratterizzò per l'ulteriore incentivazione dei pochi, grandi impianti dell'industria privata e delle partecipazioni statali, che rappresentano il frutto maggiore e più discusso della politica dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno. Intanto, nel primo ventennio della politica di intervento pubblico, dalle regioni meridionali erano partiti altri quattro milioni di emigranti verso l'Europa e l'Italia del Nord: più o meno quanti erano espatriati verso le Americhe nella prima fase dell'industrializzazione italiana, durante il primo quindicennio del secolo. Scompariva il paesaggio tradizionale del Mezzogiorno agrario e contadino. Lo svuotamento progressivo delle campagne e delle zone interne provocò il rigonfiamento delle città, specie costiere, caratterizzate da prevalenti funzioni terziarie e burocratiche largamente parassitarie.
I nuovi termini della questione meridionale
Il Mezzogiorno prese l'aspetto di una periferia, ma una periferia di una grande area sviluppata. La distanza strutturale, reddituale, sociale, funzionale rispetto alla sezione più avanzata del paese non solo non si attenuava, ma addirittura tendeva per qualche verso a crescere. Oltre la distanza rispetto al Nord secondo i termini classici della questione meridionale, si avevano ora nel Mezzogiorno nuove e più gravi patologie. Specialmente dopo il terremoto campano e lucano del 1980 la politica speciale prendeva la via di una serie di 'grandi opere' e di incentivazioni e agevolazioni, che non sortivano alcun esito migliore degli indirizzi degli anni Cinquanta e Sessanta nel determinare un salto decisivo di qualità dell'economia meridionale. Per di più questo impegno pubblico finì con il cadere sotto il controllo di gruppi politici, che ne fecero strumento determinante di potere nelle rispettive regioni, mentre del consenso così ottenuto si avvalevano per rafforzare la loro posizione a livello nazionale e per promuovere e condizionare l'erogazione di nuovi flussi di risorse finanziarie verso il Sud. Clientelismo, corruzione e oligarchismo notabiliare si saldarono frequentemente in un nesso deteriore più forte di quanto fosse mai accaduto in precedenza. Non che, anche in questa fase, non si registrassero in varie zone e settori progressi notevoli. Affioravano, anzi, con quelli di una crescente modernizzazione, anche i segni del costituirsi di ceti imprenditoriali e di gruppi sociali più organici alle esigenze perduranti e al livello già raggiunto di trasformazione del Mezzogiorno. Ma i dati di fondo restavano nella sostanza quelli indicati.
La stagione degli investimenti industriali nel Sud si chiuse rapidamente. Si addensarono le critiche all'incapacità dei grandi impianti di favorire la diffusione di effetti propulsivi sull'ambiente circostante. Si parlò di 'cattedrali nel deserto', di 'modernizzazione senza sviluppo'. A metà degli anni Ottanta la Cassa per il Mezzogiorno fu sciolta, sostituita da un'Agenzia per la promozione e lo sviluppo nel Mezzogiorno, concepita secondo linee più snelle, ma i cui risultati non furono sostanzialmente migliori: nel 1993 venne anch'essa soppressa, con il passaggio delle competenze meridionalistiche al Ministero del Bilancio. La profonda crisi politica che investì l'Italia agli inizi degli anni Novanta e determinò la fine della cosiddetta prima Repubblica trovò perciò il Mezzogiorno, il meridionalismo e la politica meridionalistica in una condizione di trasformazione e di travaglio che, nonostante i progressi compiuti nel frattempo, continuava a mantenere le regioni del Meridione in uno stato generale di 'inferiorità' analogo, benché mutato nei termini, a quello in considerazione del quale era stata sollevata un secolo prima la questione meridionale. Ma, mentre allora un forte senso dell'unità nazionale aveva dato ai discorsi meridionalistici un'eco molto forte, che essi mantennero per decenni, facendo spesso del Mezzogiorno un tema centrale del dibattito e del confronto politico generale, ora, invece, la grande diffusione al Nord di tendenze revisionistiche dell'unità nazionale determinava una comprensione assai inferiore o, addirittura, una ripulsa delle esigenze del Mezzogiorno, visto come scaturigine ed emblema dei 'mali' in cui era precipitato il sistema politico italiano.