CIANCIULLI, Michelangelo
Secondogenito di otto fratelli, nacque in Montella (Avellino) il 1°ag. 1734 da Giovan Battista, di cospicua famiglia di proprietari, e da Eustachia de Stefanellis, gentildonna del vicino comune di Serino. Trascorse l'infanzia e la fanciullezza nella .casa patema, ove iniziò gli studi, in parte sotto la guida di insegnanti privati e in parte presso i frati del vicino e assai rinomato'monastero di S. Francesco a Folloni. Il buon ingegno che il C. presto rivelò convinse il padre a trasferirsi con tutta la famiglia a Napoli, per permettergli la regolare frequenza dell'università, ove risulta iscritto come "istitutista" fra le matricole di legge nell'anno 1751. Contemporaneamente iniziò a far pratica nello studio dello zio paterno, Giuseppe, rinomato avvocato del foro napoletano, e a esercitare l'avvocatura nei tribunali della capitale, grazie ad un permesso rilasciatogli dalla Real Camera di S. Chiara: a soli diciannove anni cominciò dunque a difendere cause civili e a ventuno vinse la sua prima causa importante, mettendo in luce le sue doti di dottrina e di eloquenza.
Il, successo così rapidamente colto nel foro lo distrasse però dagli studi, cosicché solo nel 1775, quando cioè la sua fama di giureconsulto era già largamenté diffusa, si iscrisse fra le matricole del terzo anno di legge, come "procuratore", e non giunse mai alla laurea, peraltro non necessaria, al tempo, per esercitare l'avvocatura.
Grazie alla sua competenza e, insieme, alla fama di onestà che lo circondava, il C. si conquistò presto la stima delle principali famiglie patrizie napoletane, che fecero a gara per assicurarselo come patrocinatore dei loro interessi; il giro di affari sempre crescente e il gran numero di clienti ricchi e nobili che a lui ricorrevano non gli impedirono tuttavia di assumere, disinteressatamente, la difesa delle cause che gli parevano giuste e di curare la formazione dei molti discepoli della sua scuola, da cui uscirono poi avvocati di gran nome.
La conferma ufficiale al suo successo gli venne da Ferdinando IV che, nel 1780, volendo avviare una riforma del foro, lo prescelse come "censore" del nuovo Collegio degli avvocati, istituito allo scopo di controllare e mettere ordine nell'avvocatura. Nel 1789 lo stesso re lo volle magistrato, affidandogli, "per le riprove di onestà e valore una piazza di giudice nella Gran Corte Civile": la nomina, non sollecitata, a giudice della Vicaria civile non dovette in un primo momento risultare gradita al C., il quale vedeva così arrestata nel suo rigoglio più pieno la carriera professionale. Tuttavia si dedicò alla nuova attività con il consueto scrupolo, e solo due anni dopo, nel 1791, stavolta per sua esplicita richiesta, ottenne la carica di avvocato fiscale del Regio Patrimonio, col grado di presidente, seguita (1798) dalle cariche di avvocato fiscale della Suprema Giunta degli abusì feudali e di caporuota nel Sacro Regio Consiglio.
Nel giugno del 1799, nonostante egli, coerente con il suo lealismo monarchico, si fosse mantenuto del tutto estraneo alle vicende della, Repubblica partenopea, fu arrestato sotto raccusa di giacobinismo, probabilmente solo perché due suoi figli avevano militato nella guardia civica repubblicana, ed egli stesso aveva mantenuto cordiali rapporti di amicizia con l'ex discepolo F. Saponara, che aveva ricoperto alte cariche nella Repubblica. Ma il cardinale Ruffo, riconosciutane l'innocenza, lo fece immediatamente liberare e, restaurato il governo borbonico, il C. fu riconfermato caporuota, e poi nominato avvocato della Real Corona; infine, nel 1801, fu chiamato a far parte della nuova giunta, di Stato, nominato membro della giunta economica per le cause dei dissequestri dei rei di Stato, e addetto alle transazioni dei beni burgensatici con i figli dei rei di Stato.
Nel febbraio del 1806, quando i Borboni furono costretti a riparare in Sicilia di fronte alle truppe di occupazione francesi, Ferdinando IV incluse nel Consiglio di reggenza il C., il quale si adoperò massimamente, in quel momento difficile, a negoziare una resa pacifica e ad evitare ogni inutile spargimento di sangue ziella capitale, presidiata oramai solo dai seicento uomini della milizia urbana. In quegli stessi giorni rifiutò la carica di presidente del Sacro Regio Consiglio, che si era fatta vacante e gli era stata offerta dagli altri consiglieri unanimi, per non sembrare abusare della sua posizione. Giuseppe Bonaparte, al suo arrivo a Napoli, volle incontrare il C., perché lo riteneva, per le sue disavventure del '99, segreto amico della Francia; ma egli, rassegnate le dimissioni dal Consiglio. di reggenza, manifestò al nuovo re anche la sua volontà di rinunziare all'ufficio di magistrato, che non sentiva in coscienza di poter esercitare nel mutato regime. Il Bonaparte tuttavia non intendeva privarsi della collaborazione dei C., e gli impose tassativamente, facendo peraltro abilmente appello al suo spirito di sacrificio e al suo amor patrio, di mantenere la carica; ed anzi, dopo pochi .giorni, lo nominò direttore del ministero di Giustizia, in sostituzione del ministro che.aveva abbandonato il suo posto.
Istituito, nel maggio del 1806, il Consiglio di Stato, il C. fu chiamato a dirigerne la sezione legislativa, che aveva il compito di proporre disegni di legge, rinnovare regolamenti e riti giudiziari e soprattutto rinnovare la compagine sociale; la legge eversiva della feudalità dell'agosto del 1806, che reca la firma del C., fu in buona parte frutto del suo ingegno.
Egli si applicò anche con particolare cura alla riforma giudiziaria: varò una nuova legge sui delitti e sulle pene, creò la Corte di cassazione, istituì l'albo chiuso per gli iscritti all'esercizio della professione forense e l'obbligo dell'abito e del giuramento per avvocati e procuratori; riordinò la magistratura escludendone molti magistrati indegni e rifiutando gli aspiranti non forniti dei requisiti richiesti. La legge che conteneva l'organizzazione dei tribunali suscitò però tante opposizioni che Giuseppe Bonaparte fu costretto a rimandame l'applicazione; il re tuttavia testimoni.ava in altri modi al C. la sua stima, accresciuta e stimolata anche dal fatto, che questi compariva come "capo ribelle" in cima alle liste di proscrizione compilate dal Borbone in Palermo: quasi per reazione infatti la carriera del C. ne fu accelerata, e nel marzo del 1807 egli fu eletto consigliere di Stato, mel luglio consigliere privato del re, nel novembre infine ministro di Giustizia.
Nel 1808 Giuseppe, quando fu chiamato ad assumere il trono di Spagna, da Baiona incaricò il C. di presiedere in sua vece il Consiglio di Stato, e di disporre la pubblicazione del suo proclama e dell'atto costituzionale; nel giugno dello stesso anno, in riconoscimento dei suoi meriti politici e culturali, lo nominò gran dignitario dell'Ordine delle Due Sicilie e membro della Società reale per l'Accademia delle scienze.
Altrettanta stima e simpatia gli dimostrò Gioacchino Murat; ma oramai il C. era divenuto impopolare tra la classe dei magistrati, che aveva considerato poco meno che un affronto la riforma dei tribunali; spiacquero soprattutto l'abolizione del vecchio calendario giudiziario e delle sue numerose feste e la chiusura degli antichi tribunali, vecchi di secoli e di tradizione, l'impostazione della nuova formula di giuramento, l'entrata in vigore del nuovo codice napoleonico con i suoi articoli concernenti il divorzio.
In realtà il C. non era divorzista, ma su questo punto Murat si mostrò inflessibile e costrinse i magistrati al giuramento o alle dimissioni, nonostante in un primo momento avesse promesso, per bocca dello stesso C., che non avrebbe mai imposto ai suoi magistrati cattolici l'obbligo di pronunziar sentenze di divorzio. Il mutato comportamento del re fu interpretato come un inganno del C., mentre invece questi si era adoperato soltanto a calmare gli animi, e aveva cercato invano di ottenere dal re che sì potesse conservare l'antica formula del giuramento. L'inaugurazione solenne dei nuovi tribunali, nel gemiaio del 1809, fu turbata dunque dalle agitazioni della classe forense, che manifestava il suo malcontento per i nuovi ordinamenti e riversava ingiustamente sul C. la responsabilità della inevitabile confusione che ne era derivata.
Travolto ed amareggiato dalle polemiche, il C. dunque presentò al re le sue dimissioni dalla carica di ministro, ove fu sostituito da G. Zurlo; il Murat tuttavia, a riprova della sua stima, volle nominarlo vicepresidente a vita del Consiglio di Stato, con grado e trattamento di ministro; e nel 1813 lo decorò della collana dell'Ordine delle Due Sicilie, seguita l'anno dopo dalla medaglia d'onore dello stesso Ordine.
Gli ultimi anni di attività del C. fùrono turbati dai num si contrasti che egli ebbe cogli amministratori del Decurionato del suo paese natale che, per meschini interessi personali, riuscirono ad escludere Montella dal tracciato della nuova strada nazionale che congiungeva Napoli a Foggia; e dagli sforzi che dovette sostenere per contenere le prepotenze dei "galantuomini" ai danni dei meno abbienti. Fra i nemici che si creò nella sua costante difesa della giustizia, o forse anche fra i borbonici che gli rimproveravano il suo attaccamento al Murat, vanno ricercati gli autori di una anonima composizione satirica, riportata dal De Nicola nel suo Diario napoletano, che lo calunniava impietosamente.
L'età ormai avanzata, l'amarezza per le maldicenze di cui era fatto oggetto, alcune preoccupazioni, familiari, assieme al declinare dell'astro di Murat, contribuirono a far sentire al C., ormai ottantunenne, la stanchezza di tanti anni di lavoro: nel marzo del 18 15 il re gli concesse il richiesto riposo e, a testimonianza della sua gratitudine per i servigi resi alla Corona e all'impiego pubblico, volle conservargli il rango e lo stipendio. Dopo il ritomo dei Borboni, pur rimanendo fedele ai suoi ideali monarchici, non si riavvicinò alla corte; grazie soprattutto alla stima di cui era ampiamente circondato si sottrasse alle vendette della Restaurazione.
Il C. si spense a Napoli il 16 maggio del 1819.
Dal suo matrimonio con Dorotea Perillo nacquero nove figli, fra cui meritano di essere ricordati Filippo, che fu avvocato generale di Cassazione e membro della commissione per la riforma dei codice di procedura civile; Alessandro, che fu assessore dei Reali Presidî di Toscana e poi giudice del tribunale di S. Maria di Capua; e Pietro, sacerdote, cappellano del tesoro di S. Gennaro, anche lui studioso appassionato di giurisprudenza.
Fonti e Bibl.: Il C. ha lasciato solopoche note manoscritte ed allegazioni a stampa: cfr. Avellino. Bibl. provinc., Sez. Prov. C. 603/1-7 (1762-67). Per la sua attività al ministero di Giustizia, cfr. Archivio di Stato di Napoli, Sogreteria di Giustizia, ad annos;i fasciche conservavano il ricordo della sua attività al Consiglio di Stato sono andati distrutti nell'incendio del 1943. Cfr. inoltre C. Minieri Riccio, Mem. stor. degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1844, p. 96; A. F. Miot de Melito, Mémoires, Paris 1873, II, p. 286; L. Conforti. Napoli dal 1789 al 1796. Napoli 1887, p. 21; A. M. Iannacchino, Topografia stor. dell'Irpinia, Avellino 1894, IV, p. 191; P. Colletta, St. del Reame di Napoli, a cura di N. Cortese, Napoli 1957, I, p. 17; II, pp. 207, 212 s., 218; C. De Nicola, Diario napoletano, Napoli 1906, I, pp. 159, 198, 207, 405, 491, 494; II, pp. 18, 131, 200, 212, 219, 230 s., 245, 252, 317, 331, 337, 411 s., 440, 445, 449, 452 s., 620 s., 641, 670, 779, 782; J. Rambaud, Naples sous Joseph Bonaparte (1806-1808), Paris 1911, pp. 11, 13, 237, 360, 374; A. Scandone, M. C. statista irpino nel periodo napol., in Rivista storica del Sannio, X(1924), pp. 113-121, 179, 186, 254-259; XI (1925), pp. 8-16, 63-70; A. Sarni, M. C. (1734-1819), in Irpinia, III(1931), pp. 579-93; L. Blanch, Il Regno di Napoli dal 1801 al 1806, a cura di B. Croce, Bari 1945, pp. 207, 212 s., 218; F. Scandone, L'alta valle del Calore, Napoli 1953, IV, pp. 7, 10 ss., 15, 19, 21 s., 34, 36 s.; B. Croce, Ildivorzio nelle provincie napol., in Aneddoti di varia letteratura, III, Bari 1954, pp. 413, 415 s.; G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, I, Milano 1958, p. 325; A. Valente, Gioacchino Murat e l'Italia merid., Torino 1965, p. 274; G. Passaro, Saggio di bibl. montellese, Lioni 1976, passim;N. A. Tallarico, Il vescovo B. della Torre e i rapporti Stato-Chiesa nel Decennio francese a Napoli (1805-1815), in Annuario dell'Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, XXVII-XXVIII(1975-76) [1978], pp. 363-65.