Michelangelo e la pittura un itinerario biografico
Quando compì i suoi primi esperimenti nell’ambito della pittura, al giovane Michelangelo Buonarroti (1475-1564) era già ben chiara la posizione di preminenza occupata dalla scultura nel suo mondo creativo.
Scrivendo al padre, il 1° luglio 1497, l’artista ventiduenne si firmava, con una formula che sarebbe poi divenuta consueta, «Michelagniolo scultore in Roma» e nel contratto stipulato l’estate dell’anno dopo (1498) per la Pietà compariva con la qualifica di «statuario fiorentino»1. L’avvio della sua attività pittorica rimonta al primo soggiorno romano (1496-1501), e poiché è un tratto del suo percorso sostanzialmente passato sotto silenzio, per ragioni diverse, dai biografi cinquecenteschi del Buonarroti – Giorgio Vasari (1550, 1568) e Ascanio Condivi (1553) –, la ricostruzione di questo momento è per lo più frutto delle campagne di studio condotte nel corso del Novecento e del recupero di importanti documenti d’archivio2.
Il trasferimento dell’artista a Roma, dove arrivò per la prima volta il 25 giugno del 1496, prende corpo a seguito dei violenti rivolgimenti politici che avevano avuto luogo a Firenze nel 1494, con la cacciata di Piero de’ Medici e l’instaurazione della Repubblica. Michelangelo, già ‘creato’ del mecenatismo di Lorenzo de’ Medici e rimasto per qualche tempo dopo la scomparsa del Magnifico (1492) sotto la protezione del figlio Piero, spaventato di possibili ritorsioni sotto il nuovo regime era fuggito prima a Venezia e poi a Bologna, dove si fermò all’incirca un anno impegnandosi sulle sculture rimaste mancanti alla tomba di San Domenico (il San Petronio, il San Procolo e l’Angelo reggicero) con la morte di Niccolò dell’Arca (1494), per rientrare quindi a Firenze nell’inoltrato 1495, quando la situazione si era un po’ placata. Trovò allora un punto di riferimento in Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, che per essersi prontamente schierato con i fautori della Repubblica si guadagnò il soprannome di Popolano. Lorenzo di Pierfrancesco era un committente colto e consapevole, in grado di apprezzare l’esplosivo talento del giovane maestro, il quale eseguì per lui in quella congiuntura (1496) la statua di un San Giovannino che, dopo essere stata considerata per secoli perduta, è stata identificata di recente in quella conservata a Úbeda3 (fig. a p. 16). Appartenevano al cugino del Magnifico, ad esempio, opere celeberrime di Sandro Botticelli, quali la Pallade che doma il centauro e la Primavera (Firenze, Uffizi), e di Luca Signorelli, la Madonna Medici (fig. a p. 6), precedente significativo per la successiva composizione michelangiolesca del Tondo Doni (cat. 3); secondo Vasari, Filippino Lippi ritrasse Lorenzo di Pierfrancesco, con il fratello e il padre, nei panni dei Re Magi nella pala dipinta nel 1496 per la chiesa fiorentina di San Donato in Scopeto (Uffizi), e il nome del Popolano ricorrerà in una pagina di ricordi stilata da Leonardo nei primi anni del Cinquecento4. Nel 1485 Lorenzo di Pierfrancesco – al pari del Magnifico – era stato in rapporti di dimestichezza con Angelo Poliziano, il formidabile umanista e filologo che alcuni anni dopo avrebbe fornito a Michelangelo il tema per la Battaglia dei centauri (fig. a p. 12), il rilievo scolpito al tempo in cui l’artista (circa 1490-1492) riceveva la propria formazione come scultore all’interno del cosiddetto ‘giardino di San Marco’ promosso da Lorenzo il Magnifico5.
Fu Lorenzo di Pierfrancesco a determinare lo spostamento di Michelangelo a Roma, suggerendogli la ‘truffa’ del Cupido dormiente; secondo Condivi infatti era stato lui a consigliare all’artista di spacciare questa scultura di sua mano (an- data perduta nel Seicento) come pezzo antico sul mercato romano. Attraverso questo episodio Michelangelo entrò in contatto con la cerchia del potente cardinale Raffaele Riario – cugino e rivale di Giuliano Della Rovere, il futuro Giulio II –, appassionato di antichità, e soprattutto con il suo segretario, e coetaneo, il notevolissimo Jacopo Gallo, personaggio determinante per le successive tappe del giovane Buonarroti. È per il Riario che Michelangelo, nell’estate del 1496, iniziò a scolpire il Bacco ebbro con il satiretto (Firenze, Museo del Bargello; fig. a p. 17), opera programmatica della volontà di un confronto alla pari tra scultura moderna e modelli antichi, che, rifiutata dal cardinale, venne subito acquisita dal lungimirante segretario6. L’amicizia che legava quest’ultimo a Pietro Bembo, impegnato fin da allora nell’elaborazione di un canone per il volgare tale da conferirgli una dignità di moderna lingua letteraria comparabile al latino, è un elemento utile per capire la disposizione mentale scevra da complessi d’inferiorità con cui Jacopo Gallo poteva guardare alla ricerca artistica di Michelangelo rispetto all’orientamento più conservatore, improntato all’ossequio antiquario, di Raffaele Riario7. Secondo la testimonianza di Condivi, nello stesso periodo Michelangelo realizzò per Jacopo anche un Dio d’amore, che alcuni studiosi pensano si possa riconoscere nella statua molto danneggiata in deposito al Metropolitan Museum di New York8.
All’apertura di questa stagione romana, e a questo contesto di relazioni, risalgono anche i primi indizi noti di un’attività pittorica dell’artista. Nell’anno trascorso al servizio del cardinale Riario, preparò il disegno per una composizione con San Francesco che riceve le stimmate, affidata per la traduzione in pittura, a tempera, ad un collaboratore di origine ferrarese, Piero d’Argenta, che fin da questo momento gli è accanto e che lo seguirà poi a Firenze, a Bologna e successivamente di nuovo a Roma, dove nel 1508 sarà presente nei primissimi stadi del cantiere della volta9. Questa tavola, collocata in San Pietro in Montorio a Roma, era già pressoché distrutta nel Seicento10. Intorno al nome di Piero d’Argenta è stato convincentemente raccolto un piccolo nucleo di dipinti databili all’ultimo decennio del XV secolo – tra cui il tondo dell’Akademie der bildenden Künste a Vienna (fig. a p. 15) –, che presentano insieme evidenti caratteri stilistici di scuola ferrarese, con forme aspre e spezzate, e invenzioni e tratti michelangioleschi, in questo caso per esempio la posa e il panneggio della Madonna, soluzioni che il maestro tornerà in seguito a rielaborare11.
Proprio perché convinto «che la scultura fussi la lanterna della pictura, e che da l’una a l’altra fussi quella diferentia che è dal sole a la luna», come lui stesso scriverà nel 154712, per Michelangelo la delega della messa in opera delle proprie invenzioni fin da principio fu possibile solo sul terreno della pittura (e al di fuori del corpo a corpo con l’affresco), e tale attitudine rimarrà una costante nella sua successiva attività, coinvolgendo pittori di differente provenienza, generazione, e valore, quali Sebastiano del Piombo, Pontormo, Giuliano Bugiardini, Daniele da Volterra, Marcello Venusti, Ascanio Condivi.
Prima ancora che il Bacco venisse saldato definitivamente dal cardinale Riario il 3 luglio del 1497, risulta che in giugno Michelangelo avesse acquistato, ma non si sa per quale destinazione, una tavola «di legno per dipignerlo», e tale notizia è stata collegata all’avvio dell’esecuzione della Madonna con il Bambino e san Giovannino tra angeli nota come Madonna di Manchester (cat. 1), un dipinto a tempera che si trovava a Roma nel Settecento in collezione Borghese sotto il nome di Michelangelo e che, dopo essere stato molto discusso a seguito della sua ricomparsa in Inghilterra nel secolo seguente, è oggi attribuito alla mano del giovane maestro13.
La datazione intorno al 1497 trova riscontro nelle palesi affinità, di motivi e di stile, che ci sono tra la tavola e il Bacco realizzato nello stesso anno, come la torsione del san Giovannino del tutto analoga a quella del satiretto (figg. alle pp. 18-19), mentre d’altra parte è proprio da soluzioni sperimentate qui in modo embrionale che più avanti Michelangelo svilupperà l’idea della Madonna di Bruges (1503-1505 circa; fig. a p. 29)14. La cultura tecnica, i modi e la gamma cromatica che il maestro ai suoi esordi mostra nella Madonna di Manchester, rimasta incompiuta, provengono dalla sua prima educazione all’arte, avvenuta nella solida bottega di Domenico Ghirlandaio, dove la sua presenza è già attestata nel 148715. Erano quelli gli anni di massimo fulgore del Ghirlandaio, il pittore più richiesto nella Firenze laurenziana, che con l’aiuto dei fratelli e di una vasta schiera di allievi metteva in opera allora vasti cicli ad affresco e numerose grandi pale d’altare, come quella dell’Ospedale degli Innocenti (datata 1488, ma cominciata qualche anno prima; fig. a p. 5)16.
Secondo la testimonianza di Condivi, Michelangelo già da fanciullo era imperiosamente vocato a «quelle arti che dilettano il senso», e nonostante l’opposizione del padre che voleva indurlo allo studio delle lettere «i cieli e la natura […] lo ritiravano alla pittura, di maniera che non si poteva tenere che, potendo rubar qualche tempo, non corresse a disignare or qua or là e non cercasse pratica di pittori» – un’affermazione comprovata dagli studi compiuti dal maestro ancora ragazzo su opere della tradizione fiorentina che sembra lui stesso allora mettere a fuoco come capisaldi delle proprie ragioni espressive e del proprio universo formale: per esempio il disegno del Louvre dall’Ascensione di san Giovanni Evangelista nella cappella Peruzzi in Santa Croce a Firenze, dove indaga la solidità delle figure affrescate da Giotto (figg. alle pp. 10-11), o quello di Monaco nel quale viene isolato in tutta la sua forza plastica il san Pietro nella scena del Tributo della moneta di Masaccio nella cappella Brancacci alla chiesa del Carmine17.
È ancora il Condivi a raccontare che fu allora un altro allievo del Ghirlandaio, Francesco Granacci, ad introdurre Michelangelo nella bottega del maestro, e qualche tempo dopo nella scuola laurenziana di San Marco18. Significativamente infatti il termine di confronto più pertinente per la Madonna di Manchester è la tavola di Granacci (1494 circa) con il Riposo nella fuga in Egitto con san Giovannino (Dublino, National Gallery of Ireland; fig. a p. 14), che attesta la vicinanza e le affinità di esperienze tra i due giovani artisti in questo periodo fondativo della loro storia19. Secondo il biografo, Granacci di fronte alla determinazione dell’amico a «tentare d’adoperare i colori», gli sottopose per esercizio la stampa di Martin Schongauer con le Tentazioni di sant’Antonio abate (fig. a p. 8) esortandolo a tradurla in una pittura su tavola, che si è tentativamente identificata con quella oggi nel Museo Kimbell di Fort Worth20.
Nella biografia di Condivi, fondata su notizie attinte dall’allievo al «vivo oraculo» dell’artista e da lui voluta21, il racconto di questo episodio, nel quale Ghirlandaio dinnanzi alla prova del geniale fanciullo reagisce non con ammirazione bensì con astiosa invidia, è funzionale a ridimensionare il ruolo che Vasari nelle Vite pubblicate nel 1550 aveva, pur correttamente, riconosciuto a Domenico nella educazione di Michelangelo alla pittura, tratteggiando una formazione ‘convenzionale’ in bottega che il vecchio Buonarroti, col suo senso altissimo dell’immagine di sé agli occhi di contemporanei e posteri, sentì il bisogno di rettificare.
Fu grazie al favore di Jacopo Gallo che nel 1497 Michelangelo ottenne la commissione per la sua prima opera pubblica: il gruppo della Pietà (fig. a p. 24) previsto per il sepolcro del cardinale Jean de Bilhères, a sua volta molto legato al Riario, nella cappella di Santa Petronilla annessa all’antica basilica di San Pietro e cara alla devozione dei sovrani francesi, per il quale l’artista stipulò il contratto solo il 27 agosto 1498, dopo avere trascorso l’inverno nelle cave di Carrara a scegliere preventivamente il marmo con estrema accuratezza, rientrando a Roma nel mese di marzo22.
La ricerca di forme maestose e la tensione drammatica così impressionanti nella Pietà, certamente terminata entro l’estate del 1500 (ma dopo la morte del committente nell’agosto 1499), attraversa anche il dipinto cui Michelangelo mise mano subito dopo, nel settembre di quell’anno, il Seppellimento di Cristo (cat. 2). Ancora una volta era stato Jacopo Gallo a propiziargli la commissione per questa pala d’altare destinata alla chiesa romana degli agostiniani, di cui il cardinale Riario era protettore generale. La tavola venne ordinata per la cappella del defunto vescovo di Crotone, Giovanni da Viterbo, intitolata alla Pietà; Michelangelo tuttavia la lasciò interrotta richiamato a Firenze nella primavera del 1501 da più pressanti occasioni di lavoro, e restituì persino il denaro ricevuto per il dipinto23.
La pala, già in collezione Farnese, nonostante il cattivo stato di conservazione permette di capire alcuni sviluppi dell’attività pittorica giovanile del Buonarroti, che qui nella scelta della tecnica ad olio e nella brillantezza dei colori compatti, smaltati e luminosi anticipa aspetti del Tondo Doni (cat. 3). Benché esso sia incompiuto, alcune parti del dipinto sono state portate ad uno stadio di lavorazione molto avanzato, e in queste risalta una ricerca di politezza delle superfici, di finitura estrema, affine a quella che l’artista aveva raggiunto nel marmo della Pietà. La «superba illusione di rilievo» del corpo di Cristo nella tavola sembra davvero la trasposizione pittorica della stessa figura del gruppo scultoreo24 (figg. alle pp. 24-25).
Lo studio del Louvre, a penna su carta preparata in rosa, per la Maddalena inginocchiata in basso a sinistra è fortemente memore dell’apprendistato nella bottega del Ghirlandaio25, così come lo è nel Seppellimento la tecnica esecutiva, eppure c’è qui un’ansia di forme nuove, più grandi e moderne, una concentrazione preminente sulla plasticità delle figure e il loro incastro, straordinariamente carica di implicazioni, che nella pittura italiana alla svolta del secolo trova un confronto solo nel ciclo di affreschi con le storie dell’Apocalisse cui attendeva Luca Signorelli nella Cappella Nova del duomo di Orvieto (1499-1502 circa; fig. a p. 22). È significativo che il disegno di nudo maschile del Louvre, tracciato con segni rapidi a penna, e che è verosimilmente una prima idea per il san Giovanni (fig. a p. 23), pensato ancora sulla sinistra del Cristo, proprio per il valore germinale di questa invenzione di figura, sia stato spesso in passato collegato ad opere più tarde dell’artista, dal David (1501-1503 circa; fig. a p. 28) fino ai Prigioni (Firenze, Galleria dell’Accademia), scolpiti nel terzo decennio per la tomba di Giulio II26.
Nel contratto per la Pietà, sotto la garanzia di Jacopo Gallo, Michelangelo prometteva di consegnare «la più bella opera di marmo che sia hoge in Roma, et che maestro nisuno la faria megliore hoge»27. Anche il Seppellimento, se fosse stato ultimato ed esposto, avrebbe rappresentato una pazzesca sfida sulla scena della pittura romana nell’età di Alessandro VI, dominata dalla tradizione arcaizzante di Antoniazzo e dal timido protoclassicismo di Pinturicchio e Perugino. Proprio nel 1500 Agostino Chigi, scrivendo da Roma al padre Mariano, definiva Perugino il migliore maestro disponibile in Italia e risolveva di ordinare a lui la monumentale ancona con la Crocifissione e santi (fig. a p. 26) per la cappella di famiglia nella chiesa di Sant’Agostino a Siena28.
Dopo avere assunto nel giugno 1501, ancora con la mediazione di Jacopo Gallo, l’incarico per l’esecuzione di alcune statue per l’altare del cardinale Francesco Piccolomini nel duomo di Siena, Michelangelo torna stabilmente a Firenze dove, nell’agosto dello stesso anno, sottoscrive il contratto per il gigantesco David di marmo29. Questa grandiosa prova di statuaria eroica, concepita per svettare dai contrafforti della cattedrale di Santa Maria del Fiore, venne invece collocata e presentata al pubblico l’8 settembre 1504 davanti al Palazzo della Signoria, trasformandosi in emblema della giovane Repubblica fiorentina retta dal gonfaloniere Pier Soderini30.
L’immediato successo riscosso dal David generò un flusso di altre commissioni per opere di scultura e il coinvolgimento nel cantiere decorativo della Sala del Maggior Consiglio del Palazzo della Signoria.
Già dall’anno prima, 1503, mentre Michelangelo era ancora impegnato sul David, a Leonardo, rientrato a Firenze nel 1501 dopo il lungo periodo trascorso nella Lombardia sforzesca, era stato chiesto il progetto per uno dei due grandi dipinti murali per la parete est della sala, quello con la Battaglia di Anghiari, lo scontro del 1440 in cui i fiorentini avevano sconfitto le truppe del duca di Milano Filippo Maria Visconti. Risulta dai documenti che Michelangelo mise mano alla preparazione del cartone per l’episodio contiguo, tratto dalla Istoria fiorentina di Leonardo Bruni e volto a celebrare la vittoria riportata nel 1364 a Cascina dai fiorentini sui pisani, solo nel settembre del 1504, mentre contemporaneamente lavorava alla cosiddetta Madonna di Bruges (fig. a p. 29), come testimonia anche il foglio del British Museum su cui compaiono insieme studi per la Battaglia di Cascina e per questa scultura31. È anche stato supposto che spettasse a Niccolò Machiavelli, allora segretario della Repubblica, la responsabilità del tema prescelto per la decorazione della sala e incentrato sul valore delle milizie cittadine32.
Prima di lasciare Firenze per spostarsi a Roma al servizio di Giulio II nel 1505, l’artista era arrivato a fissare sul cartone la parte della composizione comprendente la scena dei soldati che, mentre si concedono un bagno nell’Arno, vengono scossi da un allarme improvviso. La presenza del cartone della Battaglia nella sala del Palazzo della Signoria veniva registrata nel 1510 dalla guida di Firenze di Francesco Albertini pubblicata in quell’anno33.
Nessuna fonte spiega meglio di Vasari che cosa significò quest’opera per il rinnovamento della cultura figurativa italiana. Proprio perché divenuto immediatamente un ineludibile testo di riferimento, a forza di essere studiato, il cartone andò ben presto distrutto (già alla metà del secondo decennio), ma la sua lezione formale continuò ad agire come un lievito.
L’assemblaggio di corpi nudi fissati in una mirabile varietà di pose e movimenti complessi e «stravaganti attitudini» (Vasari), le amplificazioni delle anatomie, la moltiplicazione di scorci arditissimi e torsioni antinaturalistiche, andavano in una direzione antitetica a quella perseguita da Leonardo nel cartone della Battaglia di Anghiari – per come lo si può immaginare dagli studi preparatori (fig. a p. 32) più che dalle copie –, dove il maestro, ormai nel pieno della sua maturità, si era concentrato stupendamente sulla resa dei più furiosi moti dell’animo e dello scatenamento delle forze naturali nella violenza della mischia tra cavalli e cavalieri, in un vertiginoso tour de force che metteva a frutto sterminate ricerche avviate oltre vent’anni prima.
La composizione elaborata da Michelangelo nel cartone della Battaglia è nota dagli studi preliminari superstiti, sia per l’insieme della scena, come nello studio del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, sia per le singole figure, come nel disegno del British Museum (fig. a p. 34) per il bagnante che si volta avvitandosi su sé stesso, modellato con la penna, l’acquerello e rialzi a biacca per restituire rilievi e tensioni della muscolatura, o come nel foglio della Casa Buonarroti (fig. a p. 35) con un nudo di spalle, che si suppone derivato dal rilievo di un sarcofago antico34. La testimonianza più efficace per visualizzare la porzione della Battaglia messa a punto da Michelangelo è la tavola a grisaille, oggi ad Holkham Hall (fig. a p. 33), nella quale, come racconta Vasari, Aristotile da Sangallo nel 1542, su consiglio di Paolo Giovio, tradusse il cartonetto che lui stesso, nella giovinezza, aveva ricavato dal cartone della Battaglia di Cascina, e che dopo la distruzione di questo ne era divenuto preziosissima memoria35. È sulla base di questa o analoghe derivazioni che Vasari compose la sua memorabile ecfrasi del cartone michelangiolesco, che il pittore aretino, nato nel 1511, non poté vedere dal vero.
Tra gli artisti che «stupiti e ammirati» fecero in tempo a formarsi o a maturare su quel cartone dove era mostrata «l’estremità dell’arte» traguardata da Michelangelo, Vasari ricorda i maggiori maestri della «maniera moderna», da Raffaello, giunto a Firenze nel 1504 e immediatamente dedito a carpire gli ingranaggi di quell’opera (figg. alle pp. 36-37), al precocissimo Perino del Vaga, più tardi a Roma allievo del Sanzio, da Francesco Granacci a Ridolfo Ghirlandaio, figlio di Domenico, da Baccio Bandinelli, a quel tempo ancora molto interessato alla pittura e all’incisione, all’eccentrico pittore spagnolo Alonso Berruguete, e poi Andrea del Sarto, Franciabigio, i più giovani Rosso e Pontormo, il misterioso Maturino, in seguito largamente attivo a Roma insieme a Polidoro da Caravaggio, e ancora gli scultori Jacopo Sansovino, Lorenzetto e Tribolo36. Alle invenzioni di Michelangelo per la Battaglia, divulgate su ampia scala anche tramite le stampe di Agostino Veneziano, attingerà a modo suo anche Tiziano, prelevandone la figura dell’ignudo disteso sulla destra per immergerlo nel lago di colore e di luce del Baccanale degli Andrii (Madrid, Prado) dipinto (1523-1526 circa) per il duca di Ferrara Alfonso d’Este, a sua volta entusiasta ammiratore e committente del Buonarroti37.
Nella bellissima pagina dell’autobiografia che Benvenuto Cellini dedica alla descrizione dei cartoni di Leonardo e del Buonarroti, che «inmentre che gli stetteno in piè, furno la scuola del mondo», il grande scultore e orefice fiorentino afferma che nel prosieguo della sua attività, e neppure nella volta, Michelangelo «non arrivò mai a questo segno alla metà; la sua virtù non aggiunse mai da poi alla forza di quei primi studii»38. È un giudizio importante per capire l’enorme difficoltà con cui i contemporanei recepirono gli svolgimenti della ricerca del Buonarroti negli affreschi del soffitto sistino, protesa verso una sempre più accentuata idealizzazione e astrazione delle forme e delle figure, decantate da ogni accidente del mondo sublunare, con esiti davvero «inimitabili», come insiste a dire Condivi, e che solo un genio assolutamente altro quale quello di Raffaello sarebbe riuscito ad assimilare, reinterpretare ed immettere nella lingua della moderna pittura italiana39.
La fama della commissione del dipinto murale per Palazzo della Signoria può comunque spiegare la menzione di Michelangelo come eccellente scultore «etiam pictor» contenuta nel trattato De sculptura dell’umanista napoletano Pomponio Gaurico, ben a giorno dei fatti artistici di Firenze, dove nel 1504 fu pubblicato questo suo libro, che per la prima volta registra a stampa il nome del Buonarroti40.
Il progetto della Battaglia resterà interrotto, al pari dell’omologo di Leonardo, con la partenza di Michelangelo per Roma nella primavera del 1505, chiamato al servizio di Giulio II con ogni probabilità dietro suggerimento di Giuliano da Sangallo, da tempo architetto di fiducia del papa e del banchiere Alamanno Salviati, figura molto influente nella Firenze di Pier Soderini41.
Era stato il cardinale Giuliano Della Rovere ad occuparsi del sontuoso monumento sepolcrale in bronzo per lo zio Sisto IV, ordinato ad Antonio Pollaiolo nel 1484 ma terminato solo nel 1493 (oggi nel Museo del Tesoro di San Pietro)42. Forte probabilmente dell’esperienza di questa lunga attesa, l’idea del proprio mausoleo – concepito per la basilica di San Pietro – venne pianificata nella testa di Giuliano poco dopo la sua ascesa al pontificato (1503). Michelangelo arrivò a Roma entro il 27 marzo del 1505, e i primi accordi per la tomba del papa dovettero essere stipulati molto rapidamente, se già nel mese di aprile l’artista riceveva una somma di denaro per avviare l’acquisizione dei marmi necessari all’impresa43. Sono le battute di partenza della «tragedia della sepoltura» destinata a concludersi soltanto a quasi quarant’anni di distanza, e le cui complesse vicende si intrecceranno indissolubilmente e con terribili affanni al prosieguo dell’attività creativa del maestro44. Il progetto iniziale, di grandiosità tale «che di bellezza e di superbia e di grande ornamento e ricchezza di statue passava ogni antica et imperiale sepoltura», è noto dalla descrizione di Condivi, che ne spiega l’articolazione a pianta quadrangolare, intorno ad una cella funeraria interna, su due registri, con «quaranta statue» e un corredo di rilievi bronzei di mano dell’artista45.
In un breve volgere di tempo, dopo che già Michelangelo aveva trascorso la seconda metà del 1505 a Carrara a selezionare i marmi per quest’opera, i propositi e la disponibilità economica del pontefice furono bruscamente stornati dalla sepoltura e convogliati sul progetto messo in campo da Bramante di un radicale rifacimento moderno della basilica paleocristiana di San Pietro, cui si diede assoluta priorità posponendo indefinitamente i piani per il sepolcro. La reazione sdegnata e anticonvenzionale di Michelangelo, che senza domandare permessi fuggì a Firenze, sottraendosi alla volontà e alla giurisdizione pontificie, è da leggere nel segno della speciale relazione che lo legava a Giulio II, «il quale svi[s]sceratamente l’amò, avendo di lui più cura e gelosia che di qualunque altro ch’egli appresso di sé avesse»46. La lettera che l’artista appena arrivato a Firenze scrisse a Giuliano da Sangallo il 2 maggio 1506 racconta, a caldo, la portata della sua «disperatione» e del suo timore e insieme la sua irremovibilità dal lavoro alla sepoltura, «che sson cierto, se ssi fa, non à la par cosa tucto el mondo»47.
Nei mesi passati a Firenze, tra l’aprile e il novembre del 1506, Michelangelo, impaurito» – come attesta una fonte contemporanea – dalle pressioni esercitate dal papa sul gonfaloniere Pier Soderini per riportarlo all’obbedienza, rimette mano ad opere già in corso di lavorazione e altre ne avvia48: riprende il lavoro al cartone della Battaglia di Cascina; comincia a scolpire il San Matteo (fig. a p. 39) per la serie di apostoli che fin dal 1503 gli era stata richiesta dal duomo fiorentino e di cui questa scultura incompiuta sarà l’unico esito, scaturito anche dall’impatto con il Laocoonte ritrovato a Roma nel gennaio del 150649; organizza la spedizione in Fiandra della Madonna di Bruges; discute con Pier Soderini del progetto di una scultura da collocare a pendant del David di fronte a Palazzo della Signoria, ed è probabilmente in questo periodo che viene terminato il Tondo Doni 50 (cat. 3).
Come Taddeo Taddei (altro amico del Bembo), per il quale poco prima Michelangelo aveva cominciato a scolpire il tondo marmoreo, non finito, conservato alla Royal Academy di Londra (1503-1506 circa; fig. a p. 44), e che di lì a breve si sarebbe appassionato alla pittura di Raffaello, anche Agnolo Doni era un giovane borghese fiorentino attento alle principali novità artistiche dei suoi giorni. Col pretesto del proprio matrimonio, nel gennaio del 1504, con Maddalena Strozzi, aveva commissionato a Raffaello la famosa coppia di ritratti oggi alla Galleria Palatina di Firenze, e poiché nella magnifica e inseparabile cornice del Tondo Doni, ritenuta su disegno di Michelangelo, compare lo stemma della famiglia della sposa, si è supposto che anche quest’opera sia collegata all’occasione nuziale, pur con un ritardo nella consegna51.
Dopo il Tondo Taddei, frutto di un momento di permeabilità alle ricerche di Leonardo, la sperimentazione di Michelangelo su composizioni con più figure entro un formato circolare era proseguita con il tondo marmoreo avviato per Bartolomeo Pitti (fig. a p. 45), committente che l’artista doveva avere incontrato in qualità di operaio della cattedrale fiorentina nel 1503-1504, quando il David veniva ultimato e si discuteva della sua collocazione52. Nella tavola per i coniugi Doni-Strozzi il gruppo della Sacra Famiglia è proiettato sul primo piano, ottenendo un massimo risalto plastico e dinamico della figura della Madonna, rappresentata mentre si volge su sé stessa nell’atto di ricevere l’erculeo Gesù bambino che Giuseppe le passa da dietro le spalle, in uno scorcio difficile e potentissimo che al contempo rielabora quello del bagnante che si gira al centro del cartone della Battaglia e prelude al Giona della volta Sistina (cat. 4 a.7).
È stato dimostrato che il dipinto, preparato con meticolosa accuratezza, fu eseguito a olio con una tecnica veloce, e tale da produrre sulla superficie un effetto di brillantezza, conferendo ai colori una solidità minerale e alle forme una consistenza scultorea53. Vasari osservava infatti che Michelangelo «con tanta diligenza e pulitezza lavorò questa opera che certamente delle sue pitture in tavola, ancora che poche sieno, è tenuta la più finita e la più bella opera che si trovi»54.
La torsione della Vergine, con il ginocchio che aggetta in avanti, è un’invenzione parallela a quella del San Matteo, e segnano entrambe momenti germinali per lo sviluppo della cosiddetta «figura serpentinata», costruita a guisa di «fiamma di foco che ondeggia», «moltiplicata per uno, due e tre», formula costitutiva del linguaggio manierista di cui le fonti cinquecentesche (Lomazzo, che riferiva da Marco Pino) attribuivano la definizione proprio a Michelangelo55.
E d’altra parte le ricerche sul tema della figura che, pur presa in una posa statica, è percorsa da un senso vivido di moto a spirale erano state innescate dal ritorno di Leonardo a Firenze e dalla circolazione dei suoi studi sul motivo della Leda, nelle due versioni accovacciata e stante (note dai disegni di Rotterdam e di Chatsworth, e da varie derivazioni), che per le loro potenzialità creative catturarono subito anche la fantasia di Raffaello – rimontano infatti al 1507 sia il Trasporto di Cristo al sepolcro (Roma, Galleria Borghese), nel quale è flagrantemente reinterpretata la Madonna del Tondo Doni, sia la Santa Caterina d’Alessandria della National Gallery di Londra, dove sono mirabilmente trasfusi i modelli della Leda in piedi di Leonardo e del San Matteo di Michelangelo56 (figg. alle pp. 40-41, 46-47).
Vasari metteva in particolare evidenza lo «svoltare della testa della madre di Cristo», uno scorcio che l’artista studiò nel foglio della Casa Buonarroti (fig. a p. 48) e che sarebbe rimasto a lungo impresso nella memoria degli artisti fiorentini, come fa capire il disegno di Pontormo (fig. a p. 49) per la testa di uno dei personaggi della lunetta del salone nella villa medicea di Poggio a Caiano (1520-1521 circa)57. Pur nel mutamento di scala e di tecnica, si segue bene il passaggio dalla Madonna del Tondo Doni alle prime Sibille affrescate nella volta Sistina.
La ricomposizione del conflitto con Giulio II passò attraverso la disponibilità di Michelangelo a raggiungere il papa a Bologna, «mi fu forza andare là cholla choreggia al chollo a chiedergli perdonanza», come lui stesso confiderà58. Lì rimase per oltre un anno, fino al marzo del 1508, incastrato nella realizzazione di una grande statua bronzea del papa, seduto e benedicente, ordinata per essere collocata in una nicchia sulla facciata di San Petronio, a sancire il pieno ritorno della città sotto il governo della Chiesa, ma che sarebbe stata distrutta in breve a furor di popolo quando Bologna fu riconquistata dai Bentivoglio nel 1511. Come fanno intendere le lettere scritte allora al fratello Buonarroto, il «chativo essere», il «grandissimo disagio», le «fatiche istreme» del periodo trascorso a Bologna sono rette grazie al miraggio di poter tornare a coinvolgere il papa negli agognati lavori per la sepoltura, destinati però di nuovo a slittare a causa del cantiere aperto da Bramante in San Pietro59.
La rapida demolizione dell’antica basilica, condotta dall’architetto con un’energia distruttiva che impressionò i contemporanei e Michelangelo stesso60, e la rimozione di parte del tetto imposero di trasferire la celebrazione delle più importanti cerimonie papali nella cappella che era stata costruita e fatta affrescare da Sisto IV con Storie di Mosè e di Gesù e ritratti di papi antichi, per mano di una vasta squadra di pittori, per lo più di area toscana, reclutata dall’allora cardinale Giuliano Della Rovere, ben informato sul panorama artistico della Firenze laurenziana. La nuova rilevanza che la cappella veniva ora ad assumere richiedeva un ammodernamento della decorazione sistina del soffitto, che presentava un’arcaica volta stellata realizzata da Pier Matteo d’Amelia, e che si può ricostruire sulla base del modelletto preparatorio conservato al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (fig. a p. 50).
L’idea di dotare la volta di una nuova decorazione e di affidarla a Michelangelo era già sorta nella mente di Giulio II nella primavera del 1506, quando l’artista era da poco fuggito a Firenze. Piero Rosselli, un suo amico esperto di carpenteria e architettura, gli riferiva infatti per lettera il 10 maggio di avere assistito ad un’antipatica conversazione tra il papa e Bramante durante la quale quest’ultimo aveva cercato di gettare discredito sulle capacità di Michelangelo come pittore, in particolare nel campo da lui ancora non esperito dell’affresco, e per giunta ad una tale altezza da terra, insistendo che il Buonarroti gli aveva «deto piue e piue vote none volere atendere a la capela», e di non voler «atendere se none a la sipultura e none a la pitura»61. Su questo episodio Michelangelo vorrà tornare, nella sua ormai inoltrata maturità, per bocca di Condivi, spiegando che l’intento di Bramante era o spingerlo a declinare la commissione per la volta, così che «commoverebbe contra di sé il papa», oppure indurlo ad accettarla per dimostrare che egli «riuscirebbe assai minore di Raffaello da Urbino, al qual per odio di Michelagnolo prestavano ogni favore, stimando che la principal arte di lui fusse (come veramente era) la statuaria»62.
Nel marzo del 1508 il Buonarroti, tornato a Roma da Bologna, era già impegnato sui lavori preliminari per il cantiere decorativo del soffitto, e dopo che Piero Rosselli ebbe effettuato la rimozione della decorazione preesistente e la preparazione del nuovo intonaco, il 10 maggio si accingeva a mettere mano all’impresa, come registrava nei suoi Ricordi63.
Ciò significa che il programma iconografico e il partito decorativo erano stati concordati con il papa in tempi davvero stretti, e che entro quella data l’artista aveva definito lo schema generale per l’intero soffitto64.
Secondo quanto Michelangelo racconta a posteriori in una lettera del 1523 all’amico Giovan Francesco Fattucci, segretario di Clemente VII allora appena assurto al pontificato, il progetto iniziale era assai più ridotto e meno imponente, poiché non si estendeva alle pareti, non arrivava cioè al registro delle lunette, e prevedeva soltanto le figure degli apostoli seduti nei pennacchi, accomodati entro una partitura geometrica ripresa dai modelli antichi e a quel tempo molto in voga «e ’l disegnio primo di decta opera furono dodici Apostoli nelle lunecte, e ’l resto un certo partimento ripieno d’adornamenti, chome s’usa. Dipoi, cominciata decta opera, mi parve riuscissi cosa povera, e dissi al papa [...] Allora mi decte nuova chommessione che io facessi ciò che io volevo, e che mi chontenterebe, e che io dipigniessi insino alle storie di socto»65.
Il disegno conservato al British Museum (fig. a p. 52), relativo a questo primissimo stadio progettuale, mostra infatti un’impostazione analoga a quella adottata dal Sodoma, più o meno nello stesso momento, per la volta della Stanza della Segnatura, e mantenuta da Raffaello (fig. a p. 54), e poco dopo da Pinturicchio (fig. a p. 55) per la volta decorata nel coro bramantesco di Santa Maria del Popolo66.
Nella grandiosa redazione definitiva del progetto sembrano essersi riversate le energie creative rimaste frustrate dalla sospensione dell’impresa della sepoltura: la finta, imponente architettura marmorea scandisce il soffitto, includendo i troni tra le vele e le sottostanti lunette, e al contempo lo svincola dalla precedente decorazione quattrocentesca delle pareti. Ai quattro angoli, l’eliminazione dei costoloni visibili nel modelletto di Pier Matteo d’Amelia (fig. a p. 50) e la creazione di superfici unitarie negli spazi dei pennacchi contribuiscono pure a ‘sganciare’ la volta isolandola nella sua totale autonomia67.
Ai Profeti e alle Sibille assisi sui troni e impegnati a redigere i testi in cui antividero l’avvento di Cristo si alternano nelle vele triangolari gli antenati di Gesù secondo la genealogia con cui si apre il Vangelo di Matteo, una teoria di personaggi strani e sbigottiti che continua nelle lunette. Lungo la fascia centrale, al di là del cornicione presidiato da coppie di ignudi, in un altro spazio, si svolgono, seguendo un proprio differente orientamento, le storie della Genesi, dalla creazione del mondo al diluvio universale, fino ai quattro episodi presentati nei pennacchi angolari, tutti allusivi all’intervento divino in favore del popolo eletto.
La descrizione di Condivi aiuta a capire la distinzione tra le scene e le figure con funzione narrativa e quelle la cui funzione è invece eminentemente decorativa. Dopo avere descritto l’articolazione della volta e il succedersi dei soggetti biblici, il biografo osserva che «non meno di questa è maravigliosa quella parte che alla storia non si appertiene», ovvero gli ignudi seduti sugli zoccoli, deputati a recare le insegne di papa Della Rovere, e impegnati a reggere tramite dei nastri medaglioni bronzei con altre storie dell’Antico Testamento, o ancora i putti in carne e ossa collocati sotto i cartigli con i nomi dei Profeti e delle Sibille, e quelli marmorei, a coppie, nei pilastri dei troni, o le finte statue compresse con attitudini sempre diverse negli spazi ingratissimi sopra le vele con gli antenati di Cristo68.
Dopo avere risolto, dribblando gli ennesimi sabotaggi di Bramante, il problema dell’ideazione di uno speciale ponteggio adatto all’impresa e tale da consentire di lavorare contemporaneamente agli affreschi del soffitto e delle lunette, il cantiere ebbe inizio dalla parte della cappella riservata ai laici, al di là della balaustra marmorea che separava la zona dell’altare, che quindi poté restare agibile mentre si lavorava alla prima metà del soffitto. L’esecuzione procedette dunque secondo un ordine opposto a quello della narrazione, a partire dalla campata del Diluvio (cat. 4 d.2).
Il variegato corpus di disegni preparatori ha permesso di ricostruire i procedimenti creativi seguiti da Michelangelo, che inizialmente esplorava le sue invenzioni con rapidi schizzi di piccole dimensioni utili a impostare pose e movimenti delle figure. Lo stadio successivo comportava lo studio delle singole figure sul modello dal vivo, indagandone la costruzione anatomica ai fini della resa del movimento e del rilievo, in una serie di spettacolari disegni a matita, come quello del British Museum per l’Aman crocifisso (fig. a p. 58), dove sono analizzati anche i particolari della gamba flessa e del piede poggiato69. L’artista passava poi a trasporre i disegni sui cartoni che, con la tecnica dello spolvero o dell’incisione, venivano trasferiti sull’intonaco umido.
Come testimoniano le fonti, da principio Michelangelo si dispose ad affrontare l’immane opera ricorrendo alle tradizionali modalità della collaborazione di bottega. Con l’aiuto di Francesco Granacci reclutò infatti da Firenze un gruppo di pittori, di calibro modesto, alcuni dei quali provenienti come loro dall’officina del Ghirlandaio, con qualche esperienza nell’affresco alle spalle, e che sarebbero rimasti accanto al maestro almeno fino a tutto il 1509, pur con compiti ‘meccanici’ e senza interferenze nella responsabilità ideativa. Tra questi aiuti c’erano Giuliano Bugiardini, Jacopo Torni detto l’Indaco, Angelo di Donnino, Aristotile da Sangallo, e a Roma nell’autunno del 1508 arrivò anche Piero d’Argenta70. Si diede inoltre disponibile a partecipare alla squadra Raffaellino del Garbo, purché con un compenso superiore a quello che al tempo di papa Sisto «già gli dette maestro Pier Matteo d’Amelia»71. Profondamente insoddisfatto dei risultati di tale organizzazione del lavoro, Michelangelo preferì ben presto procedere in solitudine, avvalendosi soltanto di due garzoni, gli emiliani Giovanni Trignoli e Bernardo Zacchetti, i cui nomi sono ancora registrati nei documenti di pagamento del 151072. C’è dunque un’enfatizzazione della personalità titanica di Michelangelo nell’affermazione di Condivi secondo cui egli «Finì tutta quest’opera in mesi venti, senza haver aiuto nessuno, né d’un pure che gli macinasse i colori»73.
L’esecuzione della prima metà della volta partì verso la fine dell’estate del 1508. Le tappe iniziali andarono a rilento, con errori nella preparazione dell’intonaco che generarono muffe sulla superficie pittorica e che obbligarono al rifacimento dei primi brani messi in opera74. All’altezza del 27 gennaio 1509 l’artista era precipitato nello sconforto per l’andamento delle cose ed era preoccupatissimo dell’assenza di fondi in cui era stato lasciato dal pontefice. Quel giorno si sfoga scrivendo al padre: «Io ancora sono ’n una fantasia grande, perché è già uno anno che io non ò avuto un grosso da questo Papa, e no’ ne chiego, perché el lavoro mio non va inanzi i’ modo che a me ne paia meritare. E questa è la difichultà del lavoro, e anchora el non esser mia professione. E pur perdo il tempo mio sanza fructo»75. Il tema della difficoltà espressiva che la pittura pone all’artista torna in un famoso sonetto che in questo periodo compose per un amico, invocando comprensione per la propria «pittura morta [...] non sendo in loco bon, né io pittore»76. Il carteggio mostra il suo progressivo incupirsi con il passare dei mesi. In novembre racconta al fratello Buonarroto: «Io sto qua in grande afanno e chon grandissima faticha di chorpo, e non ò amici di nessuna sorte, e no’ ne voglio; e non ò tanto tempo che io possa mangiare el bisonio mio»77.
La sua fama come pittore andava però irresistibilmente crescendo. Nel maggio 1510, il cardinale Francesco Alidosi, forse la personalità della stretta cerchia papale che più poteva presso Giulio II, indirizzò a Michelangelo «in pictura ac statuaria arte principi» una lettera con la richiesta, da lui mai assolta, di un Battesimo di Cristo da dipingere ad affresco «et di figure non molto grande» per la cappella della villa che Giuliano da Sangallo aveva ristrutturato per il pontefice alla Magliana (sarà invece la bottega di Raffaello ad occuparsi di questa decorazione)78.
La parte della volta che arriva alla sesta campata inclusa (con la Creazione di Eva, il Profeta Ezechiele e la Sibilla Cumana, cat. 4 d.5, a.4, f.3) fu ultimata nell’estate del 1510, mentre Giulio II si spostava a Bologna per la campagna militare contro Alfonso d’Este, senza curarsi delle richieste economiche avanzate con crescente inquietudine da Michelangelo per portare avanti il resto del lavoro. L’artista andò per due volte a Bologna tra il settembre e l’inverno 1510-1511, ma le cose poterono rimettersi in moto solo con il ritorno del papa a Roma in estate. A quel punto venne smontato il ponteggio e per la prima volta, accorso Giulio II con massima impazienza, anche Michelangelo poté osservare l’effetto degli affreschi visti da terra. Questa verifica fu determinante per la conduzione della seconda metà della volta, dove le figure crescono di scala e assumono proporzioni più monumentali, uno sviluppo che è particolarmente evidente nel confronto tra gli ignudi delle due sezioni e tra lo statico Zaccaria, dipinto al principio, e l’enorme e scattante Giona sopra l’altare, eseguito al termine del ciclo79 (cat. 4 a.1, a.7).
Grazie anche all’esperienza maturata nel frattempo, la seconda parte della decorazione del soffitto venne ultimata, con ritmi molto più sostenuti che nella prima, nell’ottobre del 1512, quando Michelangelo poteva riferire al padre di avere terminato i lavori e che il papa ne era rimasto «assai ben sodisfato», e la volta fu presentata al pubblico per la festa di Ognissanti dello stesso anno, lasciando «le persone trasecolate e mutole», come commenta Vasari80.
Condivi racconta che quando nell’estate del 1511 fu smontato il ponteggio, Raffaello, «avendo vista la nuova e maravigliosa maniera, come quello che in imitare era mirabile, cercò per via di Bramante di dipignere il resto»81. È poco probabile che il Sanzio, in quel momento impegnato a concludere il cantiere della Stanza della Segnatura (1508-1511) e prossimo ad avviare quello della Stanza di Eliodoro (1511-1514), brigasse con Bramante per aggiudicarsi la seconda metà della volta, ma la notizia riportata dal biografo restituisce bene il senso di assedio provato da Michelangelo dinnanzi alla stupefacente, incalzante prensilità di Raffaello.
Anche Vasari, secondo cui Bramante mostrò a Raffaello la volta ancora incompiuta «accioché i modi di Michelagnolo comprendere potesse», individuava nell’incontro con il soffitto sistino un punto di passaggio fondamentale nella evoluzione stilistica del maestro urbinate, che da allora «ingrandì fuor di modo la maniera e diedele più maestà»82. Il processo di assimilazione, da parte di Raffaello, delle novità della volta, lo sviluppo di forme più dilatate e grandiose, la scoperta di quel cromatismo acido e stridente, la crescente capacità di stemperare nella peculiare facilità e grazia della sua pittura la straordinaria difficoltà di Michelangelo si possono seguire sulle opere che già Vasari additava come cruciali per questa svolta: dalla lunetta della cappella di Agostino Chigi in Santa Maria della Pace (1511 circa; fig. a p. 60), dove le Sibille disposte nello spazio scomodo dell’arco già iniziano a risentire della «maniera nuova, alquanto più magnifica e grande che non era la prima», e dove il putto con la fiaccola al vertice rende omaggio al Bambino del Tondo Doni, al Profeta Isaia affrescato (1513 circa; fig. a p. 62) per l’edicola allestita nella chiesa di Sant’Agostino dal dotto prelato Johannes Goritz, prova altissima degli studi alacri compiuti da Raffaello, che qui sembra addirittura essere entrato nella testa di Michelangelo tanto da creare una figura che al contempo rielabora i profeti del soffitto sistino e quasi anticipa gli esiti, ancora in fieri, del Mosè scolpito per la tomba di Giulio II (1513-1516 circa; fig. a p. 65).83
È su questo lavoro d’innesto delle invenzioni e dei modi di Michelangelo, altrimenti immasticabili, entro il linguaggio di Raffaello che si formano i suoi allievi e che nasce, a Roma, nel corso del secondo decennio del Cinquecento, il fenomeno che chiamiamo ‘manierismo’84. Ne è eloquente testimonianza la Battaglia di Ostia (1515 circa; fig. a p. 63), il secondo degli affreschi realizzati nella Stanza dell’Incendio, che farà scuola tra gli allievi – Giulio Romano e Perino del Vaga in primis – proprio per il modo in cui lì il Sanzio aveva saputo sciogliere e rielaborare i più plastici e complicati nodi di figure della volta Sistina85.
A seguito della morte di Giulio II nel febbraio 1513 e dell’accordo stipulato con i suoi eredi per una redazione meno ambiziosa del monumento funebre, Michelangelo tornò ad immergersi in questo tormentato progetto, come testimonia anche il foglio dell’Ashmolean Museum dove a studi per il brano della Sibilla Libica sulla volta (cat. 4 f.5) si affiancano schizzi a penna per gli Schiavi oggi al Louvre (fig. a p. 64), scolpiti, come il Mosè, per tale seconda versione della sepoltura86.
Assorbito da questo impegno e dalle successive imprese architettoniche e scultoree nelle quali fu implicato da Leone X e poi da Clemente VII a Firenze (la facciata per la basilica di San Lorenzo, la Sagrestia Nuova e l’allestimento del mausoleo mediceo, il cantiere della Biblioteca Laurenziana), dopo il compimento della volta Sistina Michelangelo si distaccherà per lungo tempo dalla pratica della pittura, scegliendo di intervenire sulla scena romana, prima e dopo la morte di Raffaello, attraverso la mediazione di Sebastiano Luciani (dal 1531 detto del Piombo).
L’amicizia e la collaborazione con il pittore veneziano già allievo di Giorgione, giunto a Roma nel 1511 al seguito di Agostino Chigi e al quale in più occasioni Michelangelo trasmette invenzioni e suggerimenti grafici, sono gli strumenti con cui il maestro, pur senza coinvolgersi direttamente, fa muro alla progressiva egemonia di Raffaello e della sua scuola nei favori della committenza pontificia e del mecenatismo. Tale antagonismo diviene esplicita competizione con la duplice commissione a partire dal 1516, in gara l’uno con l’altro, da parte del cardinale Giulio de’ Medici, di una pala d’altare destinata alla cattedrale di Narbonne, di cui egli era titolare, avanzata in parallelo a Raffaello e a Sebastiano, sostenuto dal Buonarroti.
In questa circostanza il Sanzio concepisce ed avvia la Trasfigurazione (fig. a p. 70), che lo terrà impegnato sino alla morte nel 1520 e nella quale, con un estremo colpo di genio, il maestro urbinate trova nelle incessanti ricerche sul chiaroscuro come mezzo per rendere il rilievo svolte da Leonardo, che a Roma era stato dal 1513 al 1516, la via per rispondere al plasticismo michelangiolesco. Per la pala cui contemporaneamente Sebastiano attendeva, Michelangelo passa all’amico fondamentali spunti compositivi per il gruppo principale con Lazzaro, appena tornato alla vita, seduto sul bordo della tomba, mentre un giovane lo aiuta a liberarsi dalle bende del sudario in cui ancora è avvolto. I disegni rimasti permettono di seguire il corso dei pensieri dell’artista, che nel primo dei due fogli del British Museum (fig. a p. 68) definisce, nel Lazzaro, una figura ancora molto prossima agli ignudi o all’Adamo del soffitto sistino (cat. 4 d.6), per arrivare nel secondo (fig. a p. 69) alla redazione definitiva, poi tradotta fedelmente in pittura da Sebastiano (fig. a p. 71), in cui la figura, perduto ogni carattere apollineo, è piegata ad una torsione più complessa e di effetto più drammatico87. La collaborazione con il pittore veneziano proseguirà di lì a poco nella decorazione della cappella del mercante fiorentino Pier Francesco Borgherini in San Pietro in Montorio (1516-1524 circa), una commissione passata a Sebastiano da Michelangelo stesso, che anche in questa occasione assisté l’amico condividendo idee e disegni.
A monte del Giudizio (cat. 5), l’unica circostanza in cui Michelangelo torna alla pittura eseguendo un’opera di sua mano è per il «quadrone da sala» con Leda e il cigno realizzato al principio del 1530 per Alfonso d’Este88.
Dopo il sacco di Roma, la conseguente cacciata dei Medici da Firenze e la costituzione di un ordinamento repubblicano al quale il Buonarroti aveva convintamente aderito e che fu ben presto minacciato dalla riconciliazione tra gli interessi di Clemente VII e quelli di Carlo V, nell’estate del 1529 egli partì in missione per Ferrara con lo scopo di studiare le fortificazioni di cui Alfonso, alleato del nuovo governo fiorentino ed esperto di arti belliche, aveva dotato la città.
L’incontro rinnovava quello folgorante avvenuto nel 1512, sul ponteggio eretto nella Cappella Sistina, quando, come riferiva un testimone oculare, «il Signor Ducha andò in su la volta con più persone, tandem ogni uno a pocho a pocho se ne vene giù de la vollta et il Signor Ducha restò su con Michel Angello che non si poteva satiare di guardare quelle figure et assai careze gli fece di sorte che Sua Excellencia desiderava el gie facesse uno quadro et li fece parlare e proferire dinarij et li ha inpromesso de fargiello»89.
La promessa riprese fiato con la spedizione ferrarese di Michelangelo, che concepì per il duca un quadro di argomento mitologico, con il conturbante accoppiamento tra Leda e Giove sotto forma di cigno e la nascita dalle uova di Castore e Polluce, probabilmente stimolato dalla visita al celebre ‘camerino delle pitture’ di Alfonso, sulle cui pareti i dipinti di Tiziano e di Dosso raccontavano, con ben differenti bagni di sensualità, la favola di Bacco.
Il dipinto, che le fonti dicono a tempera e che conosciamo solo attraverso le stampe (fig. a p. 75) e alcune derivazioni, fu preparato durante l’inverno 1529-1530, mentre erano sospesi i lavori nella Sagrestia Nuova, ed è a questa fase preliminare che risale lo stupendo disegno della Casa Buonarroti (fig. a p. 73) con studi sul modello dal vivo per la testa china, di profilo, della Leda90; le forme artificiose della figura discendono palesemente da quelle elaborate per la Notte (fig. a p. 74) sulla tomba di Giuliano de’ Medici, riprendendo un’iconografia nota dalla scultura e dalla glittica antiche. L’improntitudine dell’agente di Alfonso incaricato di provvedere al ritiro del dipinto provocò una violenta rottura con l’artista che, offeso, si rifiutò di consegnarlo e decise, con un gesto di magnifica forastica fierezza, di regalarlo, insieme al cartone e ai disegni preparatori, ad un suo amato garzone con problemi economici, Antonio Mini. Nel 1531 il poco affidabile Mini si trasferì in cerca di fortuna nella Francia di Francesco I, portando con sé la Leda che venne lì studiata da Rosso Fiorentino e che, acquisita dal sovrano ed esposta a Fontainebleau, da alcuni documenti della fine del Seicento risulta essere stata bruciata perché considerata oscena.
A seguito della capitolazione della Repubblica fiorentina nell’agosto 1530 e della riconquista della città da parte di Clemente VII che l’anno dopo ne affidò il controllo al tirannico e crudele duca Alessandro de’ Medici, Michelangelo venne a trovarsi in una posizione critica, ancora una volta terribilmente spaventato delle sanguinose vendette scatenate contro i sostenitori del precedente regime, e bisognoso del perdono e della protezione del papa.
Sotto questa pressione, ripreso il lavoro al mausoleo mediceo, accettò nel 1531 di occuparsi della progettazione di un dipinto, la cui richiesta arrivava da Nicolas von Schomberg, arcivescovo di Capua e rappresentante di Clemente VII a Firenze, a sua volta sollecitato da Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto ed eminente espressione del potere imperiale in Italia, a sua volta ancora sollecitato dalla cugina e vera destinataria dell’opera, Vittoria Colonna, che nel giro di qualche anno sarebbe diventata uno dei principali riferimenti del mondo affettivo e intellettuale di Michelangelo. Il soggetto, prescelto da lei, era l’episodio evangelico del Noli me tangere, che l’artista concentrò nella opposta tensione tra la figura della discepola protesa in avanti, in una posa analoga alla Madonna nello studio compositivo per il Giudizio della Casa Buonarroti (fig. a p. 83), e quella del Cristo che insieme avanza e si ritrae. Michelangelo giunse ad approntare il cartone di cui affidò la traduzione in pittura a Pontormo (fig. a p. 77), per il quale nutriva una stima consolidata e che era in quel momento gradito alla committenza medicea91.
Poco dopo, nel 1533 circa, è di nuovo a Pontormo che il Buonarroti si rivolse per trasporre in pittura il cartone con Venere e Amore preparato su richiesta di Bartolomeo Bettini, «suo amicissimo» con cui aveva condiviso le esperienze politiche della stagione dell’assedio; il dipinto, giudicato da Vasari «cosa miracolosa» è identificato con la tavola della Galleria dell’Accademia di Firenze (fig. a p. 78), dove viene sviluppata la composizione abbozzata da Michelangelo in un rapido schizzo del British Museum92. Secondo Vasari, l’incapacità di Pontormo nell’opporsi agli emissari del duca Alessandro che confiscò arbitrariamente il quadro al Bettini fu causa di un’irreparabile rottura tra il pittore e Michelangelo, il quale «n’ebbe dispiacere per amor dell’amico a cui avea fatto il cartone, e ne volle male a Iacopo»93.
Se con artisti della statura di Sebastiano o Pontormo era possibile un piano di collaborazione, come lo sarà più avanti con Daniele da Volterra e, pur su un differente livello, con Marcello Venusti, entrambi usciti dal magistero di Perino, sotto un diverso segno, quello della «compassione», vanno intesi altri episodi in cui Michelangelo aiutò alcuni pittori meno dotati ma a lui devoti, come Bugiardini, cui fornì qualche schizzo di figura per lo stentato Martirio di santa Caterina ordinatogli da Palla Rucellai per la sua cappella in Santa Maria Novella94, o come Condivi, per il quale preparerà durante il sesto decennio il car- tone con l’Epifania (British Museum), tradotto da Ascanio nell’infelice tavolona conservata alla Casa Buonarroti.
Le prime notizie sulla commissione a Michelangelo di un affresco per la parete d’altare della Cappella Sistina con la Resurrezione dei morti risalgono agli ultimi tempi del pontificato di Clemente VII, anche se esso sarà poi effettivamente realizzato solo dopo l’avvento di Paolo III, tra il 1536 e il 154195.
I disegni superstiti raccontano la progressiva maturazione e crescita del progetto, dal foglio più antico, oggi a Bayonne (fig. a p. 81), dove è impostata solo la sezione superiore centrale con il Cristo giudice, figura ancora esemplata sull’invenzione appena precedente del Giove che punisce Fetonte (British Museum) approntata per Tommaso de’ Cavalieri (fig. a p. 80), ai vari altri schizzi compositivi parziali noti, fino allo studio per l’intera composizione, oggi alla Casa Buonarroti96 (fig. a p. 83). Da questo disegno si capisce come in principio l’affresco fosse pensato con un’estensione minore, senza comportare su quella parete l’eliminazione delle due lunette dipinte in concomitanza con la volta e il tamponamento delle due finestre sottostanti, e mantenendo la pala d’altare originaria affrescata dal Perugino, attorno alla cui cornice inizialmente Michelangelo immaginava di accalcare i gruppi di ignudi del registro inferiore. Qui la Madonna era ancora una sorella delle Eliadi nel citato disegno per Tommaso.
Verosimilmente, prima di mettere mano all’esecuzione, Michelangelo dovette giungere a elaborare uno schema complessivo da presentare a Paolo III, per passare poi allo studio delle singole figure, e quindi alla redazione dei cartoni. Rimangono numerosi potentissimi disegni, per lo più a matita nera, nei quali l’artista studiava pose, movimenti e scorci su un modello vivente, indagandone gli effetti luministici e plastici. Se a fronte di questi mirabili studi si rammentano quelli concepiti oltre vent’anni addietro per la volta, si possono misurare i radicali sviluppi stilistici dell’artista dal primo al secondo cantiere sistino, alla ricerca di forme sempre più stilizzate, severe e risolutamente spogliate di ogni venustà e grazia97. Il linguaggio elaborato da Michelangelo nel Giudizio è infatti programmaticamente estraneo alla grammatica della pittura italiana del tempo in cui l’affresco fu concepito ed eseguito, ovvero la grammatica «universale» (Vasari) di Raffaello e della sua scuola98.
Il gravoso impegno dell’affresco per la parete d’altare della Cappella Sistina stornava il Buonarroti, ancora una volta, imponendogli di tornare all’arte della pittura, dai lavori scultorei in corso che più gli stavano a cuore, innanzitutto la tomba di Giulio II per cui aveva sottoscritto un ennesimo contratto nel 1532, per una versione del progetto ormai molto ridimensionata rispetto a quella di partenza, e poi i marmi per le tombe medicee, la lavorazione dei quali rimase interrotta con la definitiva partenza da Firenze nel 1534.
Alle fasi preliminari del cantiere del Giudizio fu chiamato a collaborare Sebastiano del Piombo, ma avendo egli agito di testa propria nella preparazione della superficie muraria, che aveva deciso di predisporre per essere dipinta ad olio e non ad affresco, si scontrò con la volontà di Michelangelo, cui quella tecnica, prediletta dal pittore veneziano, risultava invece non solo lontana ma addirittura odiosa. Stando a Vasari, la frattura fu insanabile e segnò la fine della loro lunga e proficua relazione, che non sarebbe più ripresa fino alla morte di Sebastiano nel 1547.
Nel progetto definitivo, l’affresco dilaga sull’intera parete, al tempo stesso proseguendo e sconvolgendo la tradizione iconografica del tema. Il fulcro dell’incombente visione, carica di memorie dantesche, è il gesto imperioso di Cristo, che genera tutt’attorno uno spazio astratto in cui le singole figure e i gruppi di ignudi fluttuano sospinti da un turbinio che li trascina verso l’alto o verso il basso. La composizione, articolata per quadranti, come spiega Condivi, prevedeva in alto le due lunette con gli angeli che portano i simboli della Passione, e che determinarono l’eliminazione di quelle corrispondenti fatte al tempo della volta, e, scendendo lungo la parete, Cristo (la figura del quale reinterpreta il giovane guerriero al centro della giovanile Battaglia dei centauri; fig. a p. 13) e la Madonna circondati dalle schiere dei santi e dei martiri, al centro gli angeli con le trombe del Giudizio e ai loro lati i due gruppi degli eletti che salgono al cielo e dei dannati che precipitano all’Inferno, poi, nel registro inferiore, a sinistra la resurrezione dei corpi, ormai intatti e perfetti, di chi è stato salvato, al centro la bocca dell’Inferno, e a destra Caronte che traghetta i dannati verso Minosse99.
È ben noto come l’esclusiva concentrazione di Michelangelo sulle proprie ragioni formali, e sulla sola rappresentazione, infinitamente variata, del corpo umano, provocò fin dal disvelamento del Giudizio, il 1° novembre 1541, violente reazioni polemiche; le censure, imperniate sulla mancanza di decoro e sulla estraneità ad ogni esigenza di sollecitazione devozionale da parte di Michelangelo («per più stimare l’arte che la fede», argomentava Pietro Aretino), diventeranno sempre più aggressive nel corso dei successivi decenni, sotto la morsa del Concilio Tridentino, tanto da compromettere perfino l’esistenza dell’affresco, minacciato di distruzione, e salvato, sotto Pio IV, grazie all’intervento di Daniele da Volterra (1564-1565), il quale provvide con il massimo riguardo possibile a ‘velare’ con i famigerati braghettoni i brani che più si prestavano ad accuse e strumentalizzazioni ipocrite100.
I tempi lunghi di gestazione e messa in opera del Giudizio spiegano la profonda evoluzione stilistica che lo attraversa, pur nella sua suprema unitarietà. Le sezioni concepite ed eseguite per prime, cioè le due lunette con gli angeli che trasportano i simboli della Passione, sono ancora molto innervate nelle precedenti esperienze: le figure degli angeli ‘giocolieri’ (figg. alle pp. 87-89), atletici e privi di ali, dalle proporzioni svelte e al contempo poderose, articolati in pose complesse e impetuosamente dinamiche, sono memori delle ricerche sviluppate per la figura della Vittoria scolpita (1527-1530 circa; fig. a p. 86) per la tomba di Giulio II (ma poi esclusa dai piani per il monumento), e per i disegni d’omaggio preparati per Tommaso de’ Cavalieri a Roma nei primi anni Trenta, come ad esempio il Ratto di Ganimede (Cambridge, Fogg Art Museum)101.
Scendendo verso la zona degli inferi (figg. alle pp. 90-91), al termine del cantiere, lo stile si fa progressivamente più austero, scabro e lapidario, con esiti affini a quelli delle ultime due statue realizzate per la tomba di Giulio II, Rachele e Lia (figg. alle pp. 92-93), e degli estremi interventi dell’artista nel campo della pittura, indiretti e diretti, dai cartonetti per l’Annunciazione Cesi, preparati intorno alla metà del quinto decennio per essere affidati a Venusti, agli affreschi per la Cappella Paolina (cat. 6 e 7), avviati in strettissima sequenza con il Giudizio102.
È dentro l’affresco sistino, cioè negli svolgimenti della ricerca michelangiolesca che accompagnano la sua gestazione ed esecuzione, che cambia irreversibilmente il mondo della cultura figurativa. Come giustamente sempre si ripete, esso segnò una cesura, sovvertendo le consuetudini e le aspettative della tradizione rinascimentale e modificandone in modo drastico il corso: dall’adozione del fondo blu uniforme, senza delimitazioni, privo di ogni indicazione spaziale, entro il quale galleggiano i gruppi di figure, allo scarto programmatico dalle convenzioni prospettiche e proporzionali. Per queste stesse ragioni, il Giudizio risultò tremendamente arduo e sconcertante per la generazione degli artisti che erano cresciuti imparando a maneggiare la difficoltà delle forme michelangiolesche, dalla Battaglia di Cascina al Tondo Doni alla volta Sistina, attraverso la lezione di Raffaello, per tramite della quale quei testi erano divenuti assimilabili nella pittura moderna. Di fronte alle sbalorditive novità che l’opera imponeva innanzitutto rispetto alle prove precedenti del Buonarroti stesso, gli artisti attivi a Roma che all’epoca del suo disvelamento avevano tra i trenta e i quarant’anni (Perino del Vaga, Daniele da Volterra, Francesco Salviati, Giorgio Vasari, Battista Franco, Roviale Spagnolo, Marcello Venusti, Prospero Fontana, Jacopino del Conte) furono quelli che, ciascuno a suo modo, più faticarono per riuscire a recepirne le sfide e le aperture; laddove per la generazione dei giovani maestri nati nel terzo decennio – Marco Pino, Girolamo Siciolante, Pellegrino Tibaldi, Taddeo Zuccaro –, pure passati tutti per l’affollata bottega di Perino e insieme cresciuti studiando il Giudizio, il problema sarà piuttosto fare i conti con le ulteriori provocazioni che Michelangelo metteva in gioco poco dopo con gli affreschi della Paolina.
Fin dall’autunno del 1541, mentre ancora l’esecuzione del Giudizio era in corso, Paolo III pianificava di affidare a Michelangelo la decorazione della nuova cappella pontificia costruita proprio allora nel Palazzo Apostolico da Antonio da Sangallo103. I lavori sarebbero partiti verso la fine dell’anno successivo, mentre ancora non trovava termine la «tragedia della sepoltura», con il nuovo contratto negoziato nell’agosto 1542 che permetteva di concludere il monumento sepolcrale, destinato – fin dagli accordi del 1532 – non più a San Pietro ma a San Pietro in Vincoli, basilica di cui Giuliano Della Rovere era stato cardinale titolare, secondo un progetto ridotto, comprendente a questo punto solo tre statue di mano dell’artista: il Mosè (fig. a p. 65), unica delle numerose sculture eseguite in precedenza con questa finalità a trovare effettivamente posto nella tomba di Giulio II, e le personificazioni della vita contemplativa e della vita attiva, Rachele e Lia, ultimate verso il 1544 (figg. alle pp. 92-93).
Il terribile avvilimento in cui la commissione degli affreschi per la Paolina, sopraggiunta in tale situazione, precipitò Michelangelo, emerge da una lettera che il 24 ottobre di quell’anno egli indirizzò ad un amico, tentando di riepilogare la catena di eventi che aveva comportato suo malgrado, nel corso del tempo, il continuo differimento della fine dei lavori alla sepoltura, aspramente contestatogli per decenni dagli eredi di papa Della Rovere104. La conclusione è un bilancio feroce e persecutorio: «Tutte le discordie che naqquono tra papa Iulio e me fu la invidia di Bramante et di Raffaello da Urbino; et questa fu causa che non e’ seguitò la sua sepultura in vita sua, per rovinarmi. Et avevane bene cagione Raffaello, ché ciò che haveva dell’arte, l’aveva da me»105. È su questo orizzonte che vengono concepite le ultime opere di Michelangelo nella pittura: «Ma, per tornare alla pittura, io non posso negare niente a papa Pagolo: io dipignerò mal contento et farò cose mal contente»106.
I due grandi e gravi affreschi che si fronteggiano sulle due pareti della Cappella Paolina portano infatti alle estreme conseguenze la disintegrazione dello spazio rinascimentale esplorata nel Giudizio, e sono quanto di più antitetico si possa immaginare al mondo creativo ed espressivo di Raffaello e della sua scuola.
Nella Conversione di Saulo (cat. 6), eseguita per prima (1542-1545 circa), il Cristo in picchiata scatena intorno a sé un vortice che travolge sul primo piano i personaggi della storia, fa scattare l’enorme cavallo in direzione contrapposta, verso la profondità, produce il disporsi delle figure su piani obliqui e diagonali, con un moltiplicarsi incombente di vedute da dietro e scorci stranianti. La Crocifissione di san Pietro (1545-1550 circa; cat. 7), che Paolo III non fece in tempo a vedere finita, evolve ulteriormente in questo senso: qui il perno della composizione è la croce trasversale al centro, che attraversa il cerchio sghembo formato dagli aguzzini e intorno alla quale convergono come per attrazione i gruppi delle figure. A parte il santo a testa in giù, l’unico personaggio fermo è, al centro, l’uomo che scava la buca per la croce, studiato in uno scabro disegno del British Museum107 (fig. a p. 95). L’illusione di uno spazio che va oltre i limiti del dipinto coinvolgendo quello dell’osservatore è accentuata dai cavalli che balzano fuori dalla cornice di sinistra, dalle pie donne che scendono lasciando la scena del martirio, e dal manipolo di soldati che viceversa vi si arrampicano dentro. A quest’ultimo brano dell’affresco è collegata una preziosa testimonianza dei procedimenti di lavoro di Michelangelo, l’accuratissimo cartone del Museo Nazionale di Capodimonte (fig. a p. 96), conservatosi non in quanto finalizzato a trasferire la composizione sull’intonaco, ma in quanto cartone ausiliario, utile cioè a ‘fissarne’ la versione definitiva messa a punto in vista dell’esecuzione108.
A sondare la possibilità di un dialogo con il Giudizio fu, per primo, Perino del Vaga (Piero di Giovanni Bonaccorsi), il grande allievo fiorentino di Raffaello rientrato a Roma nel 1537 dopo l’attività genovese al servizio di Andrea Doria e quella pisana, e ben presto divenuto il pittore di riferimento di casa Farnese, assumendo un vero e proprio monopolio del mercato artistico romano del quinto decennio, reso possibile dall’ausilio di una sempre più articolata bottega. A lui Paolo III commissionò pressoché contemporaneamente (1542) la decorazione a stucco, su disegno di Michelangelo, del soffitto della Cappella Paolina (rimossa sotto Gregorio XIII) e il progetto di una spalliera destinata ad essere tradotta in arazzo e collocata sulla parete d’altare sotto l’affresco tra le due porte della Cappella Sistina, un’opera per la quale il pittore non riuscì mai a portare a compimento neppure il cartone, e che si può giudicare sulla base del foglio degli Uffizi (fig. a p. 98) e dei modelli parziali su tessuto conservati alla Galleria Spada109.
Questo mirabile disegno include la porzione della spalliera prevista per stare in corrispondenza del registro inferiore subito a sinistra dell’altare, e per- mette di capire l’intelligenza e l’equilibrio con cui il Bonaccorsi seppe rispondere al rischio di misurarsi con il Giudizio, riconoscendone il valore di nuovo capitale termine di confronto e al contempo preservando l’autonomia dei propri mezzi espressivi110. La composizione che Perino elabora per questa specie di «gigantesco bordo di arazzo» innova, pur nella continuità, il repertorio, ancora largamente improntato a modelli raffaelleschi, che poco prima lui stesso aveva dispiegato negli schemi pensati per la cappella Massimo (1538-1539 circa) in Trinità dei Monti e nel basamento della Stanza della Segnatura (1541)111.
Nel disegno per la spalliera la vocazione decorativa del pittore fiorentino preme con accensioni fino ad allora sconosciute, e con un effetto di profondo perturbamento della ritmica raffaellesca, ma proprio questa diventa la chiave più riuscita per l’impervio compito di accompagnare la drammaticità dell’affresco sistino. Le due figure, per quanto aggraziate e morbidamente modellate, hanno volumi espansi in precedenza estranei a Perino e mostrano caratteri capaci di mediare, all’occhio dello spettatore, tra le sperimentazioni michelangiolesche della volta e quelle più recenti del Giudizio, ma l’eleganza delle loro forme si tiene volutamente a debita distanza dalle proporzioni massicce e dalle esasperazioni anatomiche dei risorti dipinti dal Buonarroti. Eppure i dettagli ornamentali, come i mascheroni al centro e alla base, sono caratterizzati da deformazioni e da un’immediatezza che sembrano esito di un confronto serrato con i modi di Michelangelo nella sezione inferiore dell’affresco.
Dopo Perino, e proprio in quanto suoi ‘creati’, qualche primo riscontro importante dell’impatto del Giudizio sembra arrivare, con differenti declinazioni, solo da Daniele da Volterra e da Pellegrino Tibaldi.
Nella Deposizione di Cristo dalla croce (1545-1547 circa; fig. a p. 100), unico brano superstite del ciclo di affreschi della cappella Orsini in Trinità dei Monti commissionato a Daniele, fino a quel momento attivo nella stretta orbita del Bonaccorsi, la lezione difficile e tragica del Giudizio arriva come un colpo di vento che scombussola il linguaggio del pittore, spingendolo ad una composizione di solenne eloquenza, dove le figure assumono proporzioni più maestose, gli scorci si moltiplicano, e pose e moti hanno assorbito un’intonazione cupa. La Deposizione Orsini è, per queste ragioni, e anche per la scelta del fondo blu del cielo, senza alcuna connotazione ambientale, un tentativo precoce, condotto con molta indipendenza, di accostarsi alle novità dell’affresco sistino112. È un dipinto che, appunto per la sua lucidità intellettuale, piacerà moltissimo a Goethe e al suo amico pittore Wilhelm Tischbein113.
C’è, in questo approccio di Daniele, il senso di una presa di contatto progressiva, meditata, densa di esitazioni e riguardi, che è diversissimo dall’adesione impulsiva, irruenta che mostra in quello stesso momento un artista, come è Tibaldi, pure passato per la bottega di Perino, ma di oltre quindici anni più giovane rispetto a Daniele, e che sia per la provenienza padana sia per il dato generazionale, può sviluppare con quei nuovi modelli dei suoi giorni un rapporto assai più disinibito e anticanonico, quale emerge a partire dalla Adorazione dei pastori della Galleria Borghese (1549; fig. a p. 101): qui il pittore ventiduenne per la prima volta «adotta con consapevolezza la forma cubica michelangiolesca e il corollario che ne discende di uno spazio dotato di reale profondità», derivando dal Giudizio la costruzione serpentinata delle figure dalle forme statuarie, la disposizione per trasversali, i contrapposti e gli scorci violenti114.
Estremo rampollo di questa tradizione è Taddeo Zuccaro, approdato adolescente da Sant’Angelo in Vado a Roma, e subito attratto, tramite lo zio Francesco Nardini, decoratore operoso nella bottega di Perino, entro il vitalissimo cantiere della Sala Paolina di Castel Sant’Angelo, «tepida serra» dove andava maturando «la tradizione più pura della ‘maniera’»115.
Un disegno di gusto cronachistico, di mano del fratello minore Federico (fig. a p. 102), mostra Taddeo giovanissimo, nella Cappella Sistina, dedito a esercitarsi sul Giudizio116. Sono proprio gli strumenti acquisiti durante la sua studiosa e disperatissima formazione romana che permettono a Taddeo di giungere a quella nuova miscela tra il «senso pagano del raffaellismo» e la drammatica gravità del Michelangelo tardo divenuta in breve l’ingrediente costitutivo della pittura italiana della seconda metà del Cinquecento117.
Dopo il ciclo di esordio realizzato nella cappella di Jacopo Mattei in Santa Maria della Consolazione (1553-1556 circa), dove ancora i riferimenti salienti per il partito decorativo e il linguaggio di Taddeo sono Perino e Daniele da Volterra, la riflessione sulle ultime opere pittoriche del Buonarroti diventa predominante nella decorazione della cappella Frangipane in San Marcello al Corso, che impegnò il pittore fino alla sua precoce scomparsa nel 1566118. La pala d’altare con la Conversione di Saulo (1564 circa; fig. a p. 104) è eseguita su una lastra di lavagna, come in vari casi avevano fatto Sebastiano del Piombo e Daniele nell’intento di garantire alla pittura una durevolezza materiale paragonabile a quella della scultura. Trova qui esemplare testimonianza la tensione di Taddeo a ricomporre entro un incastro siglato invenzioni, soluzioni spaziali, formule, gesti desunti dalla lezione del Giudizio e della Paolina, ma depurati ormai dal senso di cerebrale fatica e incomparabile difficoltà dei modelli michelangioleschi, e portati ad una temperatura fantastica e ad un grado di virtuosismo illusivo che già anticipano il mondo del barocco.
1 Il carteggio di Michelangelo, ed. postuma di G. Poggi, a cura di P. Barocchi e R. Ristori, I, Firenze 1965, p. 3; I contratti di Michelangelo, a cura di L. Bardeschi Ciulich, Firenze 2005, p. 5.
2 M. Hirst, J. Dunkerton, Michelangelo giovane, scultore e pittore a Roma 1496-1501, Modena 1997; M. Hirst, Michelangelo, I. The achievement of fame 1475-1534, New Haven-London 2011, pp. 37-41.
3 F. Caglioti, Il ‘San Giovannino’ mediceo di Michelangelo, da Firenze a Úbeda, in «Prospettiva», 2012, 145, pp. 2-81.
4 J. Shearman, The collections of the younger branch of the Medici, in «The Burlington Magazine», CXVII, 1975, pp. 12-27; N. Baldini, In the shadow of Lorenzo the Magnificent. The role of Lorenzo and Giovanni di Pierfrancesco de’ Medici, in In the light of Apollo. Italian Renaissance and Greece, a cura di M. Gregori, catalogo della mostra (Athens 2003), 2 voll., Cinisello Balsamo 2004, I, pp. 277-282.
5 J. Shearman, The collections, cit., p. 12; Il giardino di San Marco. Maestri e compagni del giovane Michelangelo, a cura di P. Barocchi, catalogo della mostra (Firenze), Cinisello Balsamo 1992.
6 M. Hirst, J. Dunkerton, Michelangelo giovane, cit., pp. 31-37.
7 N. Baldini, D. Lodico, A.M. Piras, Michelangelo a Roma. I rapporti con la famiglia Galli e con Baldassarre del Milanese, in Giovinezza di Michelangelo, a cura di K. Weil-Garris Brandt, C. Acidini Luchinat, J.D. Draper, N. Penny, catalogo della mostra (Firenze), Firenze-Milano 1999, pp. 149-162; V. Romani, Raffaello e Pietro Bembo negli anni di Giulio II, in Pietro Bembo e le arti, a cura di G. Beltramini, H. Burns, D. Gasparotto, Venezia 2013, pp. 339-356, in partic. p. 345; l’epitaffio del Gallo scritto da Bembo si può leggere nei suoi Carmina, [Venezia 1533], a cura di R. Sodano, Torino 1990, pp. 53-54.
8 K. Weil-Garris Brandt, A marble in Manhattan: the case for Michelangelo, in «The Burlington Magazine», CXXXVIII, 1996, pp. 644-659; Ead., I primordi di Michelangelo scultore, in Giovinezza, cit., pp. 69-103: pp. 84-96; J.-R. Gaborit, Le Cupidon de Manhattan. Un Michel-Ange retrouvé, Paris 2000.
9 M. Hirst, J. Dunkerton, Michelangelo giovane, cit., pp. 42-44.
10 Si è pensato di poterne individuare una sommaria riproduzione in uno schizzo tracciato dal collezionista di disegni Sebastiano Resta (1635-1714), attivo a Roma dal 1661 circa, e quindi riportato nel manoscritto Lansdowne 802 della British Library (G. Agosti, M. Hirst, Michelangelo, Piero d’Argenta and the ‘Stigmatization of St. Francis’, in «The Burlington Magazine», CXXXVIII, 1996, pp. 683-684; M. Hirst, J. Dunkerton, Michelangelo giovane, cit., pp. 81-83; M. Hirst, Michelangelo, cit., p. 38); non è da escludere però che tale schizzo dipenda piuttosto da un disegno che Resta acquisì nel 1689 e che egli credeva di mano del Buonarroti (Le postille di Padre Sebastiano Resta ai due esemplari delle Vite di Giorgio Vasari nella Biblioteca Apostolica Vaticana, a cura di B. Agosti e S. Prosperi Valenti Rodinò, apparato di commento di M.R. Pizzoni, Città del Vaticano, in corso di pubblicazione).
11 M. Hirst, J. Dunkerton, Michelangelo giovane, cit., pp. 41-44.
12 Il carteggio, cit., IV, Firenze 1979, p. 265.
13 M. Hirst, J. Dunkerton, Michelangelo giovane, cit., pp. 42-47.
14 F. Caglioti, Il ‘San Giovannino’, cit., pp. 18-24.
15 J.K. Cadogan, Michelangelo in the workshop of Domenico Ghirlandaio, in «The Burlington Magazine», CXXXV, 1993, pp. 30-31; M. Hirst, J. Dunkerton, Michelangelo giovane, cit., pp. 89-110.
16 J.K. Cadogan, Domenico Ghirlandaio. Artist and artisan, New-Haven-London 2001, pp. 259-261, n. 34.
17 A. Condivi, Vita di Michelagnolo Buonarroti [Roma 1553], a cura di G. Nencioni, con saggi di M. Hirst e C. Elam, Firenze 1998, pp. 8-9; M. Hirst, Michelangelo draftsman, catalogo della mostra (Washington), Milano 1988, pp. 6-8, n. 1.
18 Ibid., p. 10.
19 M. Hirst, J. Dunkerton, Michelangelo giovane, cit., p. 46.
20 A. Condivi, Vita, cit., p. 9; K. Christiansen, The earliest painting by Michelangelo, in «Nuovi Studi», XIV, 2009, pp. 37-46.
21 A. Condivi, Vita, cit., p. 6.
22 K. Weil-Garris Brandt, Michelangelo’s Pietà for the cappella del re di Francia, in “Il se rendit en Italie”. Études offerts à André Chastel, Paris-Roma 1987, pp. 111-120.
23 M. Hirst, J. Dunkerton, Michelangelo giovane, cit., pp. 63-78; A.M. Pedrocchi, Michelangelo, Fiammetta ed il vescovo di Crotone. Tre personaggi per una cappella in Sant’Agostino a Roma, in «Studi di Storia dell’Arte», XXIV, 2014, pp. 71-82.
24 M. Hirst, J. Dunkerton, Michelangelo giovane, cit., pp. 111-130, in partic. p. 119 e sgg.
25 M. Hirst, Michelangelo draftsman, cit., pp. 12-13, n. 3.
26 Si veda la rassegna di pareri in Musée du Louvre-Musée d’Orsay, Département des Arts Graphiques. Inventaire général des dessins italiens, VI, Michel-Ange, élèves et copistes, a cura di P. Joannides, V. Goarin, C. Scheck, Paris 2003, pp. 93-97, n. 12.
27 I contratti, cit., p. 5.
28 P. Scarpellini, Perugino, Milano 1984, pp. 112-113, n. 141; R. Bartalini, Le occasioni del Sodoma. Dalla Milano di Leonardo alla Roma di Raffaello, Roma 1996, p. 90.
29 F. Caglioti, La cappella Piccolomini nel duomo di Siena, da Andrea Bregno a Michelangelo, in Pio II e le arti. La riscoperta dell’antico da Federighi a Michelangelo, a cura di A. Angelini, Siena 2005, pp. 386-481, in partic. pp. 452-474.
30 M. Hirst, Michelangelo a Firenze: il David nel 1503 e l’Ercole nel 1506 [1997], in Id., Tre saggi su Michelangelo, Firenze 2004, pp. 58-76.
31 J. Wilde, Italian drawings in the Department of prints and drawings in the British Museum. Michelangelo and his studio, London 1953, pp. 10-14, n. 5 recto; H. Chapman, Michelangelo drawings. Closer to the master, catalogo della mostra, London 2005, pp. 77-95; M. Hirst, Michelangelo, cit., pp. 56-60.
32 A. Cecchi, Niccolò Machiavelli o Marcello Virgilio Adriani? Sul programma e l’assetto compositivo delle “Battaglie” di Leonardo e Michelangelo per la Sala del Maggior Consiglio in Palazzo Vecchio, in «Prospettiva», 1996, 83-84, pp. 102-115.
33 Memoriale di molte statue et picture sono nella inclyta cipta di Florentia di Francesco Albertini (1510), ed. critica di W.H. de Boer, a cura di M.W. Kwakkelstein, Firenze 2010, pp. 190-191.
34 J. Wilde, Italian drawings, cit., pp. 14-16, n. 6 recto; M. Hirst, Michelangelo draftsman, cit., pp. 16-17, n. 5; H. Chapman, Michelangelo drawings, cit., p. 81.
35 G. Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, a cura di R. Bettarini, P. Barocchi, V, Firenze 1984, p. 393.
36 Ibid., VI, Firenze 1987, pp. 24-25.
37 Si veda oltre.
38 B. Cellini, La vita, in Id., Opere, a cura di B. Maier, Milano 1968, p. 71.
39 A. Condivi, Vita, cit., pp. 52, 54.
40 P. Gaurico, De sculptura, a cura di P. Cutolo, Napoli 1999, p. 250.
41 M. Hirst, Michelangelo in 1505, in «The Burlington Magazine», CXXXIII, 1991, pp. 760-766; J. Keizer, Giuliano Salviati, Michelangelo and the ‘David’, in «The Burlington Magazine», CL, 2008, pp. 664-668.
42 L.D. Ettlinger, Pollaiuolo’s tomb of pope Sixtus IV, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», XVI, 1953, pp. 239-274; Monumento di Sisto IV: Museo storico artistico del Tesoro di San Pietro, a cura di G. Bordin, Città del Vaticano 2009.
43 M. Hirst, Michelangelo, cit., pp. 61-63.
44 A. Condivi, Vita, cit., p. 36.
45 G. Vasari, Le Vite, cit., VI, p. 26; A. Condivi, Vita, cit., pp. 24-25.
46 A. Condivi, Vita, cit., p. 35.
47 Il carteggio, cit., I, pp. 13-14.
48 M. Hirst, Michelangelo, cit., p. 71.
49 M.J. Amy, The dating of Michelangelo’s St Matthew, in «The Burlington Magazine», CXLII, 2000, pp. 493-496.
50 M. Hirst, Michelangelo, cit., pp. 73-79.
51 A. Hayum, Michelangelo’s Doni Tondo: Holy Family and family myth, in «Studies in Iconography», 7-8, 1981-1982, pp. 209-233.
52 M. Hirst, Michelangelo a Firenze, cit., p. 65.
53 E. Buzzegoli, Relazione sul restauro del dipinto, in Il Tondo Doni di Michelangelo e il suo restauro, Firenze 1984, pp. 57-70, in partic. p. 58.
54 G. Vasari, Le Vite, cit., VI, p. 22.
55 G.P. Lomazzo, Trattato dell’arte della pittura, scoltura et architettura [Milano 1584], in Id., Scritti sulle arti, a cura di R.P. Ciardi, II, Firenze 1974, p. 29.
56 K. Oberhuber, Raffaello, l’opera pittorica, Milano 1999, p. 69.
57 G. Vasari, Le Vite, cit., VI, p. 22; M. Hirst, Michelangelo draftsman, cit., pp. 30-31, n. 10.
58 Nella lettera a Giovan Francesco Fattucci della fine di dicembre del 1523 (Il carteggio, cit., III, Firenze 1973, p. 8).
59 Il carteggio, cit., I, pp. 51, 55.
60 A. Condivi, Vita, cit., p. 34.
61 Il carteggio, cit., I, p. 16.
62 A. Condivi, Vita, cit., pp. 29-30.
63 I ricordi di Michelangelo, a cura di L. Bardeschi Ciulich e P. Barocchi, Firenze 1970, pp. 1-2.
64 M. Hirst, Michelangelo, cit., pp. 85-87.
65 Il carteggio, cit., III, p. 8.
66 R. Bartalini, Sodoma, the Chigi and the Vatican Stanze, in «The Burlington Magazine», CXLIII, 2001, pp. 544-553; H. Chapman, Michelangelo drawings, cit., pp. 105-110.
67J. Wilde, Michelangelo. Six lectures, Oxford 1978, p. 56.
68 La citazione è da A. Condivi, Vita, cit., p. 33.
69J. Wilde, Italian drawings, cit., pp. 25-26, n. 13.
70 M. Hirst, Michelangelo, cit., pp. 91-94.
71 Il carteggio, cit., I, p. 73.
72W.E. Wallace, Michelangelo’s assistants in the Sistine Chapel, in «Gazette des Beaux-Arts», CX, 1987, pp. 203-216.
73 A. Condivi, Vita, cit., pp. 34-35.
74 F. Mancinelli, Tecnica e metodologia operativa di Michelangelo sulla volta della Cappella Sistina, in Michelangelo. La Cappella Sistina. Rapporto sul restauro degli affreschi della volta, a cura di F. Mancinelli, Novara 1994, II, pp. 9-22, in partic. p. 18.
75 Il carteggio, cit., I, p. 88.
76 M. Buonarroti, Rime, a cura di E. N. Girardi, Roma-Bari 1967, pp. 4-5, n. 5.
77 Il carteggio, cit., I, p. 101.
78 Ibid., I, p. 104; Musée du Louvre - Musée d’Orsay. Département des Arts Graphiques. Inventaire général des dessins italiens, V, Raphaël, son atelier, ses copistes, a cura di D. Cordellier e B. Py, Paris 1992, pp. 509-510; A. Cavallaro, La villa dei Papi alla Magliana, Roma 2005, pp. 67-87.
79J. Wilde, Michelangelo. Six lectures, cit., pp. 68-71.
80 Il carteggio, cit., I, p. 137; G. Vasari, Le Vite, cit., VI, p. 49.
81 A. Condivi, Vita, cit., p. 34.
82 G. Vasari, Le Vite, cit., IV, Firenze 1976, pp. 175-176.
83 Ibid., IV, p. 176.
84 La lettura più importante resta quella di H.Voss, Die Malerei der Spätrenaissance in Rom und Florenz, Berlin 1920, trad. it. Roma 1994; R. Longhi, Due pannelli di Daniele da Volterra [1964], in Id., Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, VIII, 2, Cinquecento classico e Cinquecento manieristico 1951-1970, Firenze 1976, pp. 113-117, in partic. pp. 113-114.
85 B. Davidson, Early drawings by Perino del Vaga. Part two, in «Master Drawings», I, 1963, 4, pp. 19-26, in partic. pp. 19-20.
86 P. Joannides, The drawings of Michelangelo and his followers in the Ashmolean Museum, Cambridge-New York 2007, pp. 120-126, n. 18.
87J. Wilde, Italian drawings, cit., pp. 29-31, nn. 16, 17; M. Hirst, Sebastiano del Piombo, Oxford 1981, pp. 66-75; Id., Michelangelo draftsman, cit., pp. 55-57, n. 21.
88 A. Condivi, Vita, cit., p. 43; Michelangelo. La “Leda” e la seconda Repubblica fiorentina, a cura di P. Ragionieri, catalogo della mostra (Torino, Bonn), Cinisello Balsamo 2007; M. Hirst, Michelangelo, cit., pp. 242-244; sulla Leda e le relazioni tra Michelangelo e il duca di Ferrara si veda V. Farinella, Alfonso I d’Este, le immagini e il potere: da Ercole de’ Roberti a Michelangelo, Milano 2014, in partic. pp. 683-713.
89 A. Luzio, Federico Gonzaga ostaggio alla corte di Giulio II, in «Archivio della R. Società Romana di Storia Patria», IX, 1886, pp. 509-582, in partic. pp. 540-541.
90J. Wilde, Notes on the genesis of Michelangelo’s Leda, in Fritz Saxl 1890-1948. A volume of memorial essays from his friends in England, a cura di D.J. Gordon, London 1957, pp. 270-280; M. Hirst, Michelangelo draftsman, cit., pp. 92-93, n. 38.
91 M. Hirst, Michelangelo, Pontormo e Vittoria Colonna, in Id., Tre saggi, cit., pp. 4-29.
92 Le citazioni sono da G. Vasari, Le Vite, cit., V, p. 326; J. Wilde, Italian drawings, cit., p. 93, n. 56.
93 G. Vasari, Le Vite, cit., V, p. 327.
94 Ibid., V, p. 282.
95 Sebastiano la preannunciava a Michelangelo il 17 luglio 1533: Il carteggio, cit., IV, p. 18.
96 M. Hirst, Michelangelo draftsman, cit., pp. 123-125, n. 51; M. Marongiu, Le tre versioni della “Caduta di Fetonte”. Cronologia e contesto, in Michelangelo als Zeichner. Atti del Colloquio Internazionale (Vienna, 19-20 novembre 2010), a cura di C. Echinger-Maurach, A. Gnann, J. Poeschke, Münster 2013, pp. 329-343: p. 339.
97 H. Chapman, Michelangelo drawings, cit., pp. 229-247.
98 S. Ginzburg, Vasari e Raffaello, in Giorgio Vasari e il cantiere delle Vite del 1550, Atti del Convegno (Firenze, 26-28 aprile 2012), a cura di B. Agosti, S. Ginzburg, A. Nova, Venezia 2013, pp. 29-46, in partic. pp. 39-40.
99 A. Condivi, Vita, cit., p. 49.
100 Il carteggio, cit., IV, p. 216; B. Barnes, Michelangelo’s Last Judgment. The Renaissance response, Berkeley-Los Angeles-London 1998.
101 Per la dibattuta cronologia della Vittoria: M. Hirst, Michelangelo, cit., pp. 228-229; sul Ganimede: Il mito di Ganimede prima e dopo Michelangelo, a cura di M. Marongiu, catalogo della mostra, Firenze 2002.
102 J. Wilde, Cartonetti by Michelangelo, in «The Burlington Magazine», CI, 1959, pp. 370-381; F. Kappler, Una nota di cronologia sui disegni di Michelangelo per la pala Cesi di Santa Maria della Pace, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», LVI, 2014, 3, pp. 103-108.
103 Un nuovo termine cronologico post quem (11 dicembre 1542) per l’effettivo inizio dell’impresa è segnalato da R. Lauber, «Et maxime in li occhî». Per la descrizione delle opere d’arte in Marcantonio Michiel, in Testi, immagini e filologia nel XVI secolo, Atti delle Giornate di Studio (Pisa, 30 settembre-1° ottobre), a cura di E. Carrara, S. Ginzburg, Pisa 2007, pp. 1-36, in partic. p. 20. Sul recente restauro: La Cappella Paolina, a cura di M. De Luca, A. Nesselrath, A. Paolucci, U. Santamaria, Città del Vaticano 2013.
104 Il carteggio, cit., IV, pp. 150-155.
105 Ibid., IV, p. 155.
106 Ibid., IV, pp. 151-152.
107 J. Wilde, Italian drawings, cit., pp. 108-110, n. 70 recto.
108 M. Hirst, Michelangelo draftsman, cit., pp. 128-131, n. 53; Id., Michelangelo, i disegni [New Haven-London 1988], Torino 1993, pp. 105-106.
109 E. Parma, in Perino del Vaga tra Raffaello e Michelangelo, a cura di E. Parma, catalogo della mostra (Mantova), Milano 2001, pp. 282-283, n. 153.
110 V. Romani, in Daniele da Volterra amico di Michelangelo, a cura di V. Romani, catalogo della mostra, Firenze 2004, pp. 25-26.
111 Mostra di disegni di Perino del Vaga e la sua cerchia, a cura di B.F. Davidson, Firenze 1966, pp. 51-52, n. 49.
112 V. Romani, in Daniele da Volterra, cit., pp. 29-32.
113 J.W. Goethe, Viaggio in Italia, trad. it. a cura di E. Castellani, Milano 1997, pp. 390-391.
114 V. Romani, Tibaldi «d’intorno» a Perino, Padova 1990, pp. 51-52.
115 J.A. Gere, Taddeo Zuccaro. His development studied in his drawings, London-Chicago 1969, pp. 43-44; G. Briganti, La maniera italiana, Firenze 1985, p. 51.
116 J. Brooks, Taddeo and Federico Zuccaro artist-brothers in Renaissance Rome, catalogo della mostra, Los Angeles 2007, p. 34, n. 18.
117 G. Briganti, La maniera, cit., p. 55.
118 J.A. Gere, Taddeo Zuccaro, cit., pp. 71-83.