Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Michelangelo Merisi da Caravaggio è colui che dipinge dal naturale: in questi termini ne hanno parlato i biografi suoi contemporanei da Karel van Mander (1603) a Giulio Mancini (1619-1620 ca.), a Giovanni Baglione (1642). La pittura come specchio della realtà. La visione di Caravaggio è sintetica, non è mai descrittiva ma unitaria. La sua breve attività artistica dura non più di vent’anni a cavallo fra due secoli: si svolge tra l’ultimo decennio del Cinquecento e il primo del Seicento, ma lui, Michelangelo Merisi, è l’uomo del nuovo secolo, il secolo di Galilei; rappresenta il Seicento o almeno ne rappresenta un aspetto importante, quello della conoscenza e della raffigurazione della realtà. Accanto al pittore, l’uomo, irruento, violento e attaccabrighe, costretto a scappare di fronte alle conseguenze, spesso drammatiche, dei duelli e dei successivi processi nei quali è ripetutamente coinvolto e che segnano anche la sua attività artistica, negli ultimi anni itinerante: Roma, Genova, Roma, Napoli, Malta, la Sicilia e poi di nuovo Napoli e infine Porto Ercole.
Michelangelo Merisi da Caravaggio nasce a Milano, e non a Caravaggio, luogo della famiglia d’origine, nel settembre del 1571; solo recentemente (2007) questa data, molto importante per la ricostruzione dell’intera opera dell’artista, è stata resa nota con certezza e ora sappiamo, sulla base di un documento dell’archivio diocesano, che Michelangelo viene battezzato il 30 settembre 1571 a Milano nella parrocchia di Santo Stefano in Brolo, chiesa ancora oggi esistente in piazza Santo Stefano. È probabile dunque che sia nato, come alcuni studiosi hanno supposto, il giorno prima, 29 settembre, giorno dedicato a San Michele Arcangelo, il cui nome fu apposto al neonato. Conosciamo il nome dei suoi genitori, originari di Caravaggio (piccolo borgo allora parte del territorio di Milano, oggi città della provincia di Bergamo): Fermo Merisi, maestro di casa di Francesco Sforza, marchese di Caravaggio, e Lucia Aratori. Sappiamo poi che, a poco più di dodici anni, nell’aprile 1584, il giovane Michelangelo entra nella bottega di Simone Peterzano, pittore assai noto della Milano tardocinquecentesca; vi sarebbe rimasto per imparare il mestiere, come da contratto, quattro anni. Questa la formazione del Merisi, avvenuta presso un pittore borromaico, fortemente segnato dalla pittura veneto-tizianesca e che di Tiziano si dichiara allievo. Se Peterzano è stato il suo vero e proprio maestro, è certo che il giovane Merisi si forma, con un occhio attento al reale, anche sulla pittura lombarda del Cinquecento: da Savoldo a Moretto, da Moroni ai Campi. Non sappiamo se rimane proprio quattro anni nella bottega milanese di Peterzano e neppure quando si trasferisce da Milano a Roma, dove lo troviamo con qualche certezza solo nella primavera del 1596. È documentato in Lombardia fino al luglio 1592, quando vende i suoi possedimenti, ma dei quattro anni che intercorrono tra il 1592 e il 1596 non sappiamo assolutamente nulla e, viceversa, la conoscenza della data di arrivo nella città eterna sarebbe fondamentale per capire meglio l’ambiente romano frequentato dall’artista e stabilire una cronologia più precisa delle sue opere. Le fonti contemporanee infatti ci parlano della presenza del Merisi a Roma ma non indicano una data precisa per il suo arrivo. Il solo Giulio Mancini, che scrive però a un decennio di distanza dalla morte dell’artista, riferisce che “se ne passò a Roma d’età incirca 20 anni”, ma nessun documento conferma questa notizia che pure alcuni studiosi, con motivazioni diverse, hanno avallato.
Sappiamo che, nonostante il sostegno, tra gli altri, della famiglia di Costanza Colonna, marchesa di Caravaggio, i primi anni romani del Merisi sono assai difficili: nella primavera del 1596 entra nella bottega di un pittore siciliano, da poco tempo identificato con Lorenzo Carli, autore di quadri devozionali oggi pressoché sconosciuto, poi transiterà presso Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino e forse anche presso Antiveduto Gramatica (notizia quest’ultima del solo Giovan Pietro Bellori), entrambi pittori assai noti e operosi nella Roma della fine del secolo. Al suo arrivo verrà ospitato in un primo tempo da Pandolfo Pucci da Recanati, beneficiato di San Pietro, e, subito dopo, da monsignor Fantino Petrignani. Al primo periodo romano, caratterizzato da una pittura dalle tinte chiare e luminose, risalgono quadri come il Ragazzo con canestra di frutta e il Bacchino malato, presto entrati nella collezione di Scipione Borghese, nipote di Paolo V, ed entrambi conservati nella Galleria Borghese a Roma. Ancora di questi anni sono i due quadri ora alla Galleria Pamphilj di Roma, il Riposo durante la fuga in Egitto e La Maddalena. Il primo dei due raffigura una scena sacra all’aperto, in un paesaggio naturale, elemento questo del tutto assente nelle altre opere del Merisi. Ma la svolta nella sua vita artistica avviene quando incontra il cardinale Francesco Maria Del Monte che lo ospiterà nel suo Palazzo a San Luigi dei Francesi. Sarà pittore e servitore del cardinale per alcuni anni, tra il 1597 e il 1601. Dal cardinal Del Monte arrivano le prime importanti commissioni, tra queste I bari del Kimbell Art Museum di Fort Worth (Texas), la Santa Caterina della collezione Thyssen (Madrid), la Buona Ventura della Pinacoteca Capitolina di Roma, la Medusa degli Uffizi, donata dal cardinale al granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici. Ai buoni uffici del cardinale si deve anche la commissione, ancora oggi forse la più nota dell’intera carriera artistica del Merisi, che tra il 1599 e il 1600 e di nuovo nel 1602, lo vede al lavoro per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, nei pressi dell’attuale Palazzo Madama, allora abitazione del cardinal Del Monte. Per questa cappella, dedicata a san Matteo e affrescata nella volta, qualche anno prima, dal Cavalier d’Arpino con un linguaggio ancora tardomanierista, l’artista dipinge, in due tempi, quattro opere: le due tele laterali con la Vocazione e il Martirio di Matteo, per un compenso di 400 scudi, e le due diverse redazioni della pala d’altare con San Matteo e l’Angelo . La prima, respinta dai committenti e passata nella collezione di Vincenzo Giustiniani, scompare durante la seconda guerra mondiale mentre è esposta al Kaiser Friedrich Museum di Berlino; la seconda è ancora oggi posta sull’altare al centro della cappella. Nella Vocazione Matteo viene ritratto mentre, intento al gioco, riceve la visita di Cristo che si presenta a lui e lo chiama direttamente: una scena profana all’interno o all’esterno di un corpo di guardia assume il senso di un evento sacro. Questa è la rivoluzione caravaggesca. Una analoga “rivoluzione” si manifesta anche nella tecnica pittorica adottata: dipinti a olio su tela (o più raramente su tavola) sostituiscono qui, come accadrà poi nell’intera opera del Merisi, la decorazione che veniva eseguita, fino ad allora, ad affresco. Alla fine del Cinquecento risale anche un’importante commissione del banchiere Ottavio Costa, la Giuditta che taglia la testa di Oloferne, dipinto ora esposto alla Galleria di Palazzo Barberini a Roma. Negli stessi anni, tra il 1600 e il 1601, il Merisi esegue per 400 scudi i due quadri laterali per la cappella di Tiberio Cerasi, tesoriere generale della Camera Apostolica, in Santa Maria del Popolo: la Conversione di san Paolo e il Martirio di san Pietro, entrambi ancora oggi in loco. Le due opere, rivoluzionarie nella sintesi compositiva e soprattutto nell’iconografia, dovevano essere, da contratto, su legno di cipresso, ma quelle oggi appese alle pareti laterali della cappella, ai lati dell’Assunta di Annibale Carracci, sono su tela. Il biografo Giovanni Baglione scrive che i quadri “non piacquero al Padrone, se li prese il Cardinale Sannesio”. Una prima versione della Conversione, almeno quella che oggi è identificata come tale, eseguita su tavola di cipresso, si trova nel Palazzo Odescalchi a Roma. Nel novembre 2006 le due versioni vengono esposte, per la prima volta l’una accanto all’altra, nella parete laterale della cappella di Santa Maria del Popolo. Il confronto, sconcertante, rivela ancora di più, se ce ne fosse bisogno, quale rapido cambiamento stia avvenendo in un artista come il Merisi che aggiorna il suo linguaggio, rivoluzionandolo, nel giro di poco tempo. Se nella prima versione, quella oggi Odescalchi, d’impronta ancora “manierista”, è rappresentato il Cristo che, sostenuto dall’angelo, tende le braccia a Paolo caduto da cavallo accecandolo con la luce e convertendolo, nella versione oggi sull’altare la figura di Cristo è sparita e resta Paolo a terra, a braccia aperte e accecato dalla luce, sovrastato dal cavallo che un uomo del seguito cerca di trattenere. Nella scelta di eliminare la figura di Cristo, sostituito dalla sola luce, viene meno la necessità iniziale di rendere palese il motore primo della conversione. La forza del racconto è tutta lì nei contrasti di luce e nella nuova sintesi caravaggesca.
All’inizio del secolo Michelangelo Merisi è, accanto ad Annibale Carracci, uno dei pittori più noti e richiesti della Roma di Clemente VIII Aldobrandini.
Negli stessi anni, a cavallo tra Cinque e Seicento, accanto alle pale d’altare, il Merisi, trentenne, dipinge per il marchese Vincenzo Giustiniani alcuni dei suoi più celebri quadri da stanza, dal Suonatore di liuto dell’Ermitage all’Amore vincitore degli Staatliche Museen di Berlino, dall’Incredulità di san Tommaso del Sanssouci di Potsdam alla Fillide già del Kaiser Friedrich Museum di Berlino (scomparsa durante l’ultima guerra). Accanto a questi capolavori, di datazione ancora controversa, sta un’opera singolare come la Fiscella o Canestra di frutta del cardinale Federico Borromeo, da lui lasciata alla Pinacoteca Ambrosiana, ove tuttora si conserva. Se nella Vocazione e nel Martirio di san Matteo o nella Conversione di san Paolo Caravaggio crea una nuova iconografia per la scena sacra, qui, nella Fiscella, crea addirittura un nuovo genere: nasce il quadro nel quale la raffigurazione dell’uomo è assente. La frutta sistemata nella canestra – poggiata su un ripiano dal quale sporge, posta di fronte a una parete uniformemente chiara contro la quale si staglia – assurge ad unico soggetto della tela e ha la stessa dignità del quadro sacro o mitologico, mostrando così la perfetta corrispondenza dell’opera (raffigurante frutta e non fiori) con la nota frase che lo stesso marchese Giustiniani mette in bocca al pittore: “tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori, come di figure”.
Ancora nei primissimi anni del Seicento un altro nobile romano, il marchese Ciriaco Mattei, commissiona al Merisi importanti dipinti come il San Giovanni Battista della Pinacoteca Capitolina, la Cena in Emmaus ora alla National Gallery di Londra e la Cattura di Cristo nell’orto in deposito alla National Gallery di Dublino.
Nell’agosto 1603 Giovanni Baglione, pittore e più tardi biografo dell’artista, sporge querela al governatore di Roma contro l’architetto Onorio Longhi e i pittori Orazio Gentileschi, Caravaggio e Filippo Trisegni per aver diffuso un libello con due poesie diffamatorie nei suoi confronti. Il Baglione sostiene che il Merisi sia mosso da invidia verso di lui perché egli ha ottenuto una commissione che questi avrebbe voluto per sé. Il processo termina alla fine di settembre e Caravaggio, che nel frattempo è rinchiuso nelle carceri di Tor di Nona, viene liberato a condizione che non si allontani, senza permesso, dalla sua abitazione. Egli s’impegna a non offendere più il Baglione e Ainolfo Bardi, conte di Vernio, garantisce per lui. Gli atti del processo sono molto interessanti perché ci offrono uno spaccato della vita artistica romana e dei suoi protagonisti. È curioso che Giovanni Baglione, acerrimo nemico del Merisi, sarà colui che scriverà poi, tra le altre, la sua biografia e soprattutto, nato come pittore del manierismo sistino, dipingerà alcune opere imitando lo stile dell’odiato antagonista. Tanto erano forti le novità del Merisi da essere attraenti anche per i suoi detrattori. Episodi del genere, querele e processi sono frequenti in questi anni nella vita dell’artista, ma è solo nel 1606, con il ferimento e l’uccisione di Ranuccio Tomassoni da Terni, che il corso dell’esistenza del pittore cambia completamente costringendolo a fuggire da Roma, ove non farà più ritorno, e a trasferirsi a Napoli. A poca distanza di tempo dunque, tra il 1604 e il fatidico 1606, si scalano le commissioni pubbliche più importanti di questi anni: la Deposizione nel sepolcro per la cappella di Francesco Vittrice in Santa Maria in Vallicella, ora nella Pinacoteca Vaticana, la Madonna di Loreto per la chiesa di Sant’Agostino, la Madonna dei Palafrenieri dipinta per la confraternita dei Palafrenieri in San Pietro, “venduta” per cento scudi a Scipione Borghese e conservata nella Galleria Borghese, la Morte della Vergine per la cappella del giurista Laerzio Cherubini in Santa Maria della Scala a Trastevere, ora al Louvre. Quest’ultima, una delle opere più discusse dell’artista, respinta, forse per ragioni di decoro, dai Carmelitani Scalzi ai quali la chiesa apparteneva e, non a caso, acquistata nel 1607 dal duca di Mantova su indicazione di Rubens, resta uno dei grandi capolavori del Caravaggio. La composizione del quadro, di dimensioni fuori dell’ordinario, con la Madonna morta, gonfia, assistita dagli apostoli e dalle donne –sapientemente ricostruita anche sullo schermo dal regista inglese Derek Jarman nel 1986, nel suo film dedicato a Caravaggio – resta scolpita nella nostra mente come un’immagine viva e presente.
I quadri degli ultimi anni della brevissima carriera del pittore sono segnati da un cambiamento nell’uso dei colori e della luce, le tinte si ispessiscono e diventano più cupe.
Il 28 maggio 1606 l’artista, durante i festeggiamenti per l’elezione al papato di Paolo V Borghese, ferisce e uccide, per una questione di gioco, Ranuccio Tomassoni da Terni. Tre giorni dopo il Merisi risulta già lontano da Roma. È fuggito per scampare al processo e alla pena. Si rifugia nei feudi Colonna a sud di Roma, a Palestrina, Zagarolo e Paliano, ove esegue una seconda redazione della Cena in Emmaus, da alcuni identificata con la versione ora a Brera. Nell’ottobre dello stesso anno è a Napoli, dove dipinge la grande pala della Madonna del rosario per la chiesa di San Domenico, ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna. All’inizio dell’anno successivo risale la tela con le Sette Opere di Misericordia, pagata 400 ducati, per la chiesa del Pio Monte della Misericordia dove è tuttora conservata. Il soggiorno napoletano non si prolungherà e, nell’estate del 1607, il Merisi si trasferisce a Malta, ove resterà per circa un anno compiendo quella che è la sua opera forse più intensa e commovente, la Decollazione del Battista per la Cattedrale di San Giovanni a La Valletta. Si tratta dell’unico dipinto firmato dell’artista e, con i suoi cinque metri di larghezza, del più grande che abbia mai eseguito. Come nella Vocazione di Matteo, forse solo possibile confronto compositivo, anche qui il drammatico episodio avviene in un ambiente delimitato: lì un corpo di guardia qui una strada, pochi i protagonisti, due gli spettatori nascosti dietro le sbarre della prigione. Un’anziana donna si mette la testa fra le mani disperata di fronte all’uccisione del Battista innocente. Il 14 luglio 1608 Caravaggio viene accolto tra i Cavalieri di San Giovanni dell’Ordine di Malta con il titolo, riservato ai non nobili, di “Cavaliere di Grazia”. Meno di tre mesi dopo, il 6 ottobre, fugge dalla prigione di Malta, nella quale nel frattempo era stato rinchiuso a causa di una rissa, e Alof de Wignacourt, Gran Maestro dell’Ordine di Malta, dà l’ordine di ricercarlo. La vita errabonda del pittore prosegue faticosamente in Sicilia ove dipinge alcune pale d’altare per le chiese di Siracusa (il Seppellimento di santa Lucia), Messina (la Resurrezione di Lazzaro e l’Adorazione dei pastori) e Palermo. Qui esegue la Natività della chiesa di San Lorenzo, una delle sue ultime opere, trafugata nel 1969 e mai rintracciata. Nel frattempo a Roma alcuni potenti sostenitori del pittore provano a ottenere la grazia dal papa. Alla fine dell’estate del 1609 Caravaggio torna a Napoli con l’idea di avvicinarsi a Roma. A Napoli l’artista è vittima di una vicenda sanguinosa: il 24 ottobre viene assalito e ferito gravemente sulla porta dell’osteria del Cerriglio, tanto che a Roma giunge la notizia che sia stato addirittura ucciso. Il secondo soggiorno napoletano del Merisi non è così ben documentato da permettere una precisa sistemazione cronologica delle ultime opere, dall’Annunciazione del museo di Nancy al Martirio di sant’Orsola della collezione di Banca Intesa. Nel luglio 1610, durante il viaggio di ritorno verso Roma, il pittore, costretto da Napoli ad intraprendere un giro più lungo e a passare in Toscana attraverso lo Stato dei Presidi, viene scambiato per un altro, fermato, interrogato a Palo, e deve abbandonare il suo carico sulla barca che riparte senza di lui. Nel tentativo di recuperare quanto gli appartiene, Caravaggio muore di febbre malarica presso l’ospedale di Santa Maria Ausiliatrice di Porto Ercole il 18 luglio 1610. La notizia arriva a Roma solo dieci giorni più tardi, il 28 luglio. Il 31, quindici giorni dopo la sua morte, si apprende che il provvedimento di grazia era stato già firmato dal papa Borghese.