Michelangelo Schipa
Michelangelo Schipa può considerarsi il rappresentante più significativo di una scuola storica che nel Mezzogiorno ereditò la passione civile della generazione che aveva combattuto per l’unità italiana, provando a trasferire quella passione in una dimensione propriamente storiografica. Questo avvenne, da un lato, attraverso l’approfondimento documentario e interpretativo della storia meridionale, in particolare del Medioevo, in una prospettiva di storia nazionale, e, dall’altro, nell’affermazione di questa storia quale parte necessaria e integrante di quella italiana, tanto più nel momento dell’approdo del Paese a vita unitaria.
Michelangelo Schipa nacque a Lecce il 4 ottobre 1854 da una famiglia – il padre, Giuseppe, era sarto, la madre, Teresa Bandelli, era casalinga – della piccola borghesia artigiana. Sono due tratti – quello dell’origine provinciale, e particolarmente salentina, e quello del contesto sociale – che non devono certo essere sopravvalutati nel profilo generale di una vita che si svolse quasi del tutto a Napoli e in ambienti intellettuali, ma che, tuttavia, non vanno trascurati per la migliore comprensione di quella vita e, soprattutto, del modo in cui essa seppe inserirsi nel quadro ricco, ma anche frastagliato, della cultura, e in specifico modo della cultura accademica, dell’antica capitale borbonica tra l’ultimo quarto del 19° sec. e la prima metà, circa, del 20° secolo.
A Lecce Schipa visse continuativamente fino al 1873, anno nel quale, grazie a una borsa di studio concessagli dall’Amministrazione provinciale della città (per sollecitazione dell’allora assai influente duca Sigismondo di Castromediano), egli poté iscriversi alla facoltà di Lettere dell’Università di Napoli. Frequentò in maniera sempre più soddisfacente il liceo-ginnasio intitolato a Giuseppe Palmieri, rivelando quella capacità negli studi umanistici che è, del resto, alla radice della sua scelta universitaria.
Nell’ateneo napoletano egli studiò, tra gli altri, con Luigi Settembrini, Francesco De Sanctis e Giuseppe De Blasiis. Si trovò, cioè, di fronte ad alcuni grandi protagonisti della scuola letteraria, storica, filosofica napoletana che erano stati tutti, al tempo stesso e con impegno non inferiore a quello dedicato allo studio e all’insegnamento, protagonisti della rinascita politica e morale del Mezzogiorno e quindi, di fatto, attori non secondari del Risorgimento meridionale. Schipa li incontrava, tuttavia, in un momento in cui le loro biografie, come quella dell’università napoletana che, dopo l’Unità, essi avevano contribuito a riformare in profondità, mostravano i segni di un’inevitabile stanchezza e di un non meno inevitabile bisogno di rinnovamento. La loro lezione – civile e storiografica insieme – nel momento in cui veniva accolta dal giovane Schipa, lo obbligava, dunque, a chiedersi in quale modo essa avrebbe potuto trasmettersi in un Mezzogiorno e in un’Italia sollecitati, nella vita nazionale, a nuove questioni e a nuove idealità. Questa dimensione problematica, a partire già dagli anni di formazione universitaria, si avverte particolarmente nel rapporto con De Blasiis che – accanto, ma assai più del non accademico Bartolomeo Capasso – divenne per lui maestro di studi storici.
Dopo la laurea, conseguita nel 1877, Schipa ebbe un breve incarico di insegnamento al liceo Umberto di Napoli, per assumere poi, nel successivo 1878, grazie all’intervento di De Sanctis, tornato allora al ministero della Pubblica istruzione, l’insegnamento (sempre per incarico) di storia e geografia nel prestigioso liceo Torquato Tasso di Salerno. I dieci anni trascorsi a Salerno, nel vivo, quotidiano rapporto con una città nella quale era facile avvertire – come scrisse poi il suo allievo migliore, Ernesto Pontieri – «il fascino del misterioso Medio Evo meridionale» (Cacciatore 1995, p. 533), sono da considerarsi determinanti per l’itinerario storico e storiografico di Schipa. È in quegli anni, d’altronde, che egli pubblica – proprio sull’annuario del liceo Tasso – i suoi primi lavori (Alfano I arcivescovo di Salerno prima e, in seguito, La cronaca amalfitana) nei quali si manifestano, già con significativa originalità, interessi medievistici frutto, da un lato, dell’esempio del maestro De Blasiis e, dall’altro, dell’incontro con la realtà salernitana. Interessi – è bene ricordarlo – che alimentano in quel periodo altri studi e ricerche destinati a confluire, nel 1887, in un volume – Storia del principato longobardo in Salerno – al quale va anche un premio dell’Accademia dei Lincei.
Nel 1888 Schipa era di ritorno a Napoli, dove vinse la cattedra presso l’Istituto tecnico nautico, mentre l’anno dopo ottenne anche, per concorso, la cattedra di storia al Collegio militare della Nunziatella. Il 1890 è, infine, l’anno in cui conseguì la libera docenza in storia moderna presso la facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Napoli. Il ‘provinciale’ Schipa si era inserito ormai con autorevolezza nella vivace vita intellettuale della Napoli tardoumbertina. Lo dimostra, forse anche più della progressione della sua carriera di docente, l’ingresso, nel 1890, all’Accademia Pontaniana e, in misura maggiore, la sua partecipazione al circolo dei Nove Musi che raccoglie – dal giovane Benedetto Croce a Francesco Saverio Nitti, da Vittorio Pica a Onorato Fava – alcune delle figure più interessanti e meno convenzionali del mondo artistico e letterario della Napoli di quegli anni. Come lo dimostra, nel 1892, la pronta collaborazione alla neonata «Napoli nobilissima», la rivista che Croce fondò allora con l’obiettivo di ripercorrere la storia napoletana tra erudizione e divulgazione, con lo sguardo attento tanto alle vicende storiche come ai suoi costumi, alle sue tradizioni e, soprattutto, al suo patrimonio artistico e architettonico. A quest’ultimo aspetto, in particolare, già con un articolo sul «Campanile di Santa Maria Maggiore», apparso sul primo numero della rivista, si indirizza il contributo dato alla rivista da Schipa che, solo in anni successivi, a partire dal 1897-98, si dedicherà, invece, a quegli studi su figure e momenti della storia napoletana del Settecento che rappresentano (accanto ai lavori di maggiore peso realizzati per l’«Archivio storico per le province napoletane») le premesse dell’ampio studio su Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, pubblicato nel 1904.
Il 1904 è anche l’anno in cui Schipa, che nel 1901 era succeduto a De Blasiis nell’insegnamento di storia moderna, ottenne la titolarità della cattedra sempre di storia moderna con una chiamata ‘per chiara fama’ da parte della facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Napoli. Coincide, in qualche modo, con questa definitiva consacrazione della sua attività di studioso e di professore (Schipa aveva allora già cinquant’anni) l’avvio di un ulteriore, nuovo indirizzo di ricerche a cui egli consacrò prevalentemente i suoi interessi nel successivo quarto di secolo. Infatti, con la pubblicazione, nel 1911, nell’«Archivio storico delle province napoletane», di un lavoro dedicato a La pretesa fellonia del duca di Ossuna, cominciò a configurarsi un percorso tutto legato alla storia del Seicento, e più esattamente di quello meridionale, di cui fu coronamento, nel 1925, la pubblicazione della monografia su Masaniello presso Laterza.
Croce non era, ovviamente, estraneo alla collocazione editoriale di quel volume, a suggello, quasi, di un’amicizia talvolta controversa, a ragione dei diversi caratteri e degli indirizzi metodologici dei due storici, ma durata, con reciproca sincerità, per quasi mezzo secolo. A Michelangelo Schipa, «all’amico […] che l’intera vita ha consacrata a illustrare la storia del Mezzogiorno d’Italia», Croce aveva voluto dedicare, nel maggio del 1924, la sua Storia del Regno di Napoli, e un anno dopo, nel maggio del 1925, Schipa apparve tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti che – come è noto – Croce fece uscire su «Il Mondo», in risposta e in opposizione al Manifesto degli intellettuali italiani del fascismo voluto da Giovanni Gentile. Qualche mese più tardi, tuttavia, negando la propria volontà di aderire all’iniziativa assunta da Croce, Schipa si iscrisse al Partito nazionale fascista. Fu la fine di un’amicizia e fu un’opacità che accompagnò la fine di una carriera universitaria – Schipa, settantacinquenne, lasciò l’insegnamento nel 1929 – che venne, invece, da tutti allora ricordata (e giustamente) per i tratti salienti di una ininterrotta laboriosità di ricerca e di insegnamento.
I suoi ultimi anni, segnati da un progressivo indebolimento delle condizioni di salute, furono vissuti operosamente, ritornando – come è il caso del lavoro su Sicilia e Italia sotto Federico di Svevia, apparso inizialmente come quinto capitolo del sesto volume della Cambridge medieval history – su temi, figure e contesti a lui particolarmente cari, o meglio configurando – come accade per la preparazione del volume, voluto dai suoi allievi e introdotto da Gioacchino Volpe, intitolato Albori di Risorgimento nel Mezzogiorno d’Italia – quella dimensione di storico patriota, in cui una sostanziale ‘impoliticità’ si colora di una sincera adesione alla nascita dello Stato nazionale, che si poteva cogliere già nella sua formazione giovanile. Morì a Napoli il 4 ottobre 1939, all’età esatta di ottantacinque anni.
Tanto nella scelta del tema da trattare, quanto nell’indirizzo metodologico assunto, Schipa mostrò, nei suoi primi lavori – Alfano I arcivescovo di Salerno, studio storico-letterario e La cronaca amalfitana – un’adesione ai terreni di ricerca e alla tensione morale che sono espressione della generazione degli storici meridionali, i quali superano l’orizzonte della storiografia romantica attraverso la viva esperienza dell’impegno per il Risorgimento nazionale. Ancor prima, dunque, che nell’interesse per il Medioevo, e in particolare per l’11° sec., meridionale, Schipa – guardando soprattutto al suo maestro, l’abruzzese De Blasiis – si riconosce in quell’ethos che proprio De Blasiis aveva saputo riassumere in maniera esemplare, aprendo così, nel 1861, il suo corso di storia nazionale:
Noi ci volgiamo alla storia non per chiederle esempi di ire fraterne, ma perché nelle dolorose vicende insegni ai nipoti ad essere migliori dei padri. Severi scrutatori del passato, rinunziando alla triste eredità degli antichi, accettiamo quella delle glorie che è nostro dovere imitare, superare.
In questa prospettiva sarebbe improprio insistere eccessivamente – come pure talvolta si è fatto – sui caratteri ‘italocentrici’ di questa storiografia della quale Schipa non tardò a farsi uno dei rappresentanti più significativi. La scelta della ‘storia patria’, in lui come in molti altri che in quegli anni diedero vita a sodalizi di studi storici di cui la Società napoletana di storia patria (alla quale Schipa partecipò fattivamente durante tutto l’arco della sua vita e che presiedette, infine, dal 1914) costituì uno degli organismi più rappresentativi, non fu un’opzione restrittiva, ma l’obbligato terreno che le nuove condizioni dello Stato unitario appena realizzato chiedevano di assestare.
Su questo terreno, peraltro, Schipa esercitò un intervento originale, segnalandosi rapidamente tra gli esponenti più promettenti di una generazione di storici che fece, per così dire, da ponte tra il momento di superamento della storiografia essenzialmente filosofica dell’età romantica e quella storiografia economico-giuridica che solo con la generazione appena più giovane di lui (quella, per intenderci, di Gaetano Salvemini) troverà la sua definitiva consacrazione. Già, infatti, nelle sue maggiori opere di tema medioevistico – la Storia del Principato longobardo di Salerno (1887) e la Storia del Ducato napoletano (1895) rifuse poi, nel 1923, nel volume Il Mezzogiorno d’Italia anteriormente alla monarchia: ducato di Napoli e principato di Salerno – l’erudizione non si presenta solo – come è spesso ancora il caso di De Blasiis e come è il caso, soprattutto, dell’altro suo maestro, Capasso – quale strumento di superamento di modelli astratti della precedente tradizione storiografica, ma come una premessa per andare, per dir così, avanti nella direzione di una conoscenza delle strutture giuridiche, economiche, sociali che costituiscono l’armatura (ma non mai il soggetto) della vicenda storica. Ne deriva, dunque, in opere successive e più mature – come il saggio sulle Contese sociali napoletane nel Medioevo, apparso nel 1906 nell’«Archivio storico delle province napoletane» – un accostamento palese agli indirizzi di quella che veniva allora affermandosi come scuola ‘economico-giuridica’, con la differenza, tuttavia, che non appartenendo a Schipa quella tensione etico-civile che è nel giovane socialista Salvemini (e che apparteneva in fondo anche a Pasquale Villari), egli finisce in qualche modo – è stato giustamente osservato – con l’‘accademizzare’ l’impegno militante di quella scuola storica.
Sin dalla metà degli anni Ottanta, e certo con continuità a partire dagli anni Novanta del 19° sec., il rapporto con Croce, attraverso «Napoli nobilissima» e attraverso la Società napoletana di storia patria, per un verso opposto offrì a Schipa di vivere da vicino il rinnovamento in chiave etico-politica della storiografia italiana che in quegli anni si affacciava nelle posizioni neoidealiste e storiciste del filosofo abruzzese. Questo determinò due diverse conseguenze sul suo lavoro, entrambe non lontane da quelle che potrebbero osservarsi anche nel lavoro di Croce. Da un lato – come rivelano i tanti interventi su «Napoli nobilissima» – l’erudizione si fa, in un certo senso, divulgazione; diventa passione, curiosità di cose minute affidata a pagine di sicura piacevolezza letteraria. Dall’altro, la ricerca storica si volge a un’accumulazione di dati documentari, di conoscenze di fatto, di informazioni che devono, però, essere funzionali a una ricostruzione (forse meglio a un’interpretazione) in cui si accampano da protagonisti i soggetti storici individuali e collettivi e le grandi forze ideali da cui essi sono spinti e di cui essi sono interpreti. È questo il caso dell’opera su Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone (1904), la cui divisione in due parti, l’una dedicata al contesto sociale del tempo di Carlo e l’altra alla sua azione di governo, autorizza, secondo il giudizio di Giuseppe Cacciatore,
a considerare come la storiografia di Schipa avesse, a quel punto, raggiunto un consapevole livello di piena maturazione, nel senso, innanzitutto, di una ormai acquisita capacità di oltrepassare la pur indispensabile fase di raccolta dei dati e delle fonti […] e di saper concentrare i risultati della ricerca in un quadro unitario di insieme (1995, p. 548).
La lunga recensione che Croce dedicò al libro sulle pagine de «La Critica», ci rende, tuttavia, avvertiti della distanza che proprio in quel momento, cioè nel momento di un’indiscutibile maturità metodologica e conoscitiva di Schipa, si conservava tra i due, i quali pure ritrovavano – non bisogna mai dimenticarlo – nel comune sforzo di dissodare a fondo la storia del Mezzogiorno d’Italia un punto di convergenza ideale, di intesa professionale e di amicizia. Pur nella larghezza, sincera, di riconoscimenti per il lavoro svolto (un lavoro che riempiva indubbiamente una vistosissima assenza storiografica), Croce rimproverava a Schipa un restringimento di orizzonti interpretativi che faceva della sua opera una storia ‘locale’ lontana dal quadro assai più vasto in cui le vicende e i soggetti da lui raccontati andavano inseriti e meglio compresi. In definitiva, il pessimismo nutrito da Schipa sui reali effetti della politica riformatrice voluta da Carlo avrebbe potuto, e dovuto temperarsi – a giudizio di Croce – in una visione meno angusta della grande cultura riformatrice (e dei suoi principali protagonisti) del Settecento napoletano, quale essa agì in costante e reciproco rapporto con la grande cultura del Settecento europeo.
Si trattava, come ben si intende, di una considerazione metodologica di fondo che andava a toccare la congruità maggiore o minore del lavoro di Schipa con quello che Croce intendeva continuare a fare, con sempre maggiore determinazione, nel campo degli studi storici. E Schipa vi rispose, a suo modo, non intervenendo direttamente sul tema e sull’epoca storica che aveva dato pretesto a questa discussione, ma dedicandosi di lì a poco a un nuovo oggetto – il Seicento napoletano – caro anch’esso a Croce (particolarmente al Croce più giovane) e nel quale egli si sarebbe provato a dare la misura della sua personale dimensione del lavoro storico: gli studi che precedono l’opera maggiore e, infine, il Masaniello pubblicato nel 1925. «Vero e proprio gioiello di narrazione storica» (G. Galasso, cit. in Cacciatore 1995, p. 552), il libro fonde una ricostruzione della società e delle forze culturali della Napoli del tempo con l’azione dei grandi soggetti individuali – Giulio Genoino, Gennaro Annese, Tommaso Aniello d’Amalfi – e collettivi – la plebe napoletana – che danno vita alle giornate rivoluzionarie. Privo di note, di apparati e documenti, per i quali l’autore deliberatamente rinvia ai lavori preparatori dipanatisi nell’arco di almeno quindici anni, il Masaniello svela così intero il magistero storico, ma anche quello letterario di Schipa, capace di affidare alla narrazione il compito di accogliere e riconvertire interpretativamente i dati che provengono da componenti problematiche tra sé diverse: le idee, la società, l’economia, le istituzioni giuridiche e politiche, le psicologie individuali e collettive.
Qualcuno – è il caso del giudizio che vi porterà il suo maggiore allievo, Pontieri – vi vedrà forse con troppa generosità uno dei migliori sforzi di restituire pienezza di ‘italianità’, cioè di storia nazionale, alla storia del Mezzogiorno e delle vicende del suo Regno. Pur con le riserve che si possono avanzare su questa ipotesi di lettura, non c’è dubbio che il Masaniello si impone, al pari di ricerche che egli volle espressamente dedicare al contributo dato dal Meridione d’Italia al processo risorgimentale – per tutti il volume intitolato Albori di Risorgimento nel Mezzogiorno d’Italia che raccoglie, quasi alla vigilia della sua morte, una serie di scritti sparsi e le lezioni tenute nel 1901 –, come uno dei documenti esemplari di quella storia patriottica scritta a partire dall’esperienza e dalle condizioni storiche del Mezzogiorno d’Italia che resta il carattere originale e distintivo dell’opera di Schipa.
Alfano I arcivescovo di Salerno, Salerno 1880.
La cronaca amalfitana, Salerno 1881.
Storia del principato longobardo di Salerno, Napoli 1887.
Storia del Ducato Napoletano, Napoli 1895 (questo testo e la Storia del principato longobardo di Salerno saranno poi rifusi in Il Mezzogiorno d’Italia anteriormente alla monarchia: ducato di Napoli e principato di Salerno, Bari 1923).
Il Regno di Napoli descritto nel 1713 da P.M. Doria, «Archivio storico per le province napoletane», 1899, pp. 25-84.
Il Muratori e la cultura napoletana del suo tempo, «Archivio storico per le province napoletane», 1901, pp. 90-98.
Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Napoli 1904, Milano 19232.
L’Università di Napoli nel secolo XVIII, in Storia dell’Università di Napoli, Napoli 1924, pp. 433-66.
Masaniello, Bari 1925.
Frederick II: Italy and Sicily, in Cambridge medieval history, 6° vol., Cambridge 1926 (trad. it. Sicilia e Italia sotto Federico di Svevia, Napoli 1928).
Albori di Risorgimento nel Mezzogiorno d’Italia, Napoli 1938.
Studi masanelliani, a cura di G. Galasso, Napoli 1997.
Studi di storia napoletana in onore di Michelangelo Schipa, Napoli 1926.
W. Maturi, Michelangelo Schipa, «Rivista storica italiana», s. V, 1939, 4, pp. 572-78.
E. Pontieri, Michelangelo Schipa, «Archivio storico per le province napoletane», 1939, pp. V-XXVI.
G.M. Monti, Michelangelo Schipa, «Rinascenza salentina», 1940, pp. 99-110.
Z. Schipa, Ricordando, Napoli 1940.
N. Acocella, introduzione a F. Hirsch, M. Schipa, La Longobardia meridionale (570-1077). Il Ducato di Benevento. Il Principato di Salerno, a cura di N. Acocella, Roma 1968.
N. Acocella, Salerno medioevale e altri saggi, a cura di A. Sparano, Napoli 1971.
R. Villari, Elogio della dissimulazione: la lotta politica nel Seicento, Roma-Bari 1987.
E. Sestan, Storiografia dell’Otto e Novecento, a cura di G. Pinto, Firenze 1991.
G. Cacciatore, Profilo di Michelangelo Schipa, «Archivio storico per le province napoletane», 1995, pp. 527-58.
A. Musi, La rivolta di Masaniello nella scena politica barocca, prefazione di G. Galasso, Napoli 20022.
G. Aliberti, Michelangelo Schipa e la storiografia dei valori, Roma 2007.
In Giuseppe De Blasiis (Sulmona 1832-Napoli 1914) può agevolmente riconoscersi una delle figure più rappresentative di quella generazione che agli studi accompagnò la diretta esperienza di lotta per l’unità nazionale. Dopo il maggio del 1848 egli provò a imbarcarsi in maniera avventurosa per andare a difendere la Repubblica romana, poi, nel 1854, durante la Guerra di Crimea, raggiunse il teatro di guerra dove intendeva combattere contro i russi. Rimpatriato e rimasto sotto sorveglianza della polizia borbonica, si impegnò nell’impresa garibaldina comandando quella legione del Matese che il 3 settembre 1860 liberò dalle truppe pontificie la città di Benevento. La cattedra di storia nazionale che gli venne affidata all’indomani del rinnovamento dell’università napoletana, divenne, così, il riconoscimento non solo dei meriti di un giovane studioso che già nel 1857 si era distinto con una monografia su Pier delle Vigne, ma dell’autentico, vissuto patriottismo che aveva ispirato e animato quegli studi. La successiva attività scientifica di De Blasiis si mosse, del resto, sul filo di una ricerca in cui la vasta erudizione era messa al servizio di una chiara causa etico-politica: la vocazione unitaria del Mezzogiorno italiano dalle origini medievali fino al Risorgimento. Ne è prova la sua opera maggiore, L’insurrezione pugliese e la conquista normanna nel secolo XI, uscita in tre volumi tra il 1864 e il 1873. Nel corso del suo lungo insegnamento nell’ateneo napoletano, ebbe tra i suoi migliori allievi Michelangelo Schipa.
Nato anch’egli nella provincia meridionale, Romolo Caggese (Ascoli Satriano 1881-Milano 1938) seguì, piuttosto, la via che era stata, quasi mezzo secolo prima di Pasquale Villari. Ottenuta una borsa di studio, egli si iscrisse, infatti, nell’ottobre del 1900 all’Istituto di studi superiori di Firenze dove si laureò proprio con Villari, con una tesi intitolata Un comune libero alle porte di Firenze nel secolo XII: un tema caro al maestro dal momento che si trattava di ricostruire le lotte sociali e politiche che avevano condotto alla nascita del comune di Prato. La sintonia storiografica fu anche sintonia civile, anche se l’impegno di Caggese, soprattutto dopo l’incontro a Firenze con Gaetano Salvemini, assunse maggiore consonanza con le battaglie condotte allora dal movimento socialista. Alla cosiddetta scuola economico-giuridica mostrano, comunque, di appartenere le sue principali opere di quel periodo: Classi e Comuni rurali nel Medioevo italiano, pubblicato nel 1907 e, soprattutto, i tre volumi della Storia di Firenze dalla decadenza di Roma al Risorgimento, che sono del 1912. Il decennio che va dal 1914 al 1924 fu quello nel quale – in virtù anche dei legami stabiliti con Ettore Ciccotti, Napoleone Colajanni e gli stessi, ovviamente, Salvemini e Villari – la battaglia civile di Caggese si svolse all’insegna di un dichiarato ‘meridionalismo’. L’esito storiografico più impegnativo di questa sua vocazione civile è sicuramente il volume su Roberto d’Angiò, tutto rivolto all’analisi delle cause e delle origini dell’arretratezza economica e politica del Mezzogiorno d’Italia. Dopo aver firmato il Manifesto antifascista di Benedetto Croce, egli conobbe, come Schipa, un mutamento profondo di convinzioni che lo portò all’adesione al fascismo. Nel gennaio del 1926 ottenne la cattedra di storia medievale e moderna a Milano (la cattedra di Gioacchino Volpe) che manterrà fino alla morte.
Nato in Calabria, Ernesto Pontieri (Nocera Terinese 1886-Roma 1980) si trovò a raccogliere l’eredità del suo maestro Schipa, nel difficile passaggio dal fascismo all’Italia repubblicana, attraverso le prove di un conflitto mondiale che a Napoli assunse quel carattere straziato e lacerante che egli raccontò in un intenso contributo apparso nel 1943 nell’«Archivio storico per le province napoletane»: Rovine di guerra in Napoli. Se, perciò, gli studi del periodo precedente il conflitto –I primordi della feudalità calabrese (1922), Il regno normanno (1933), Il tramonto del baronaggio siciliano (1943) – si segnalano per la forza originale di indagine sul Mezzogiorno tardomedioevale, quelli del periodo successivo, a partire da Per la storia di Ferrante I d’Aragona re di Napoli che è del 1947 o Tra i normanni nell’Italia meridionale che è del 1948, per giungere ai più tardi lavori dedicati ad Adelaide del Vasto contessa di Sicilia (1964) o a I movimenti religiosi del secolo XVI e l’Italia (1965), mostrano lo sforzo evidente di leggere, attraverso la vicenda meridionale, il processo di decadenza etica e politica dell’Italia moderna. Rettore dell’Università di Napoli dal 1950 al 1959, Pontieri trovò in questo ruolo l’opportunità di combattere una battaglia operosamente intensa per la ricostruzione della città dopo i disastri della guerra. Da qui la sua partecipazione alle rinnovate istituzioni culturali della Napoli del dopoguerra, a partire dall’Istituto italiano per gli studi storici, e poi la Società napoletana di storia patria di cui fu presidente, come fu presidente dell’Accademia Pontaniana.