Michele Amari
Nato a Palermo il 7 luglio 1806, da Ferdinando e Giulia Venturelli, Michele Benedetto Gaetano Amari dall’età di sei anni crebbe in casa del nonno paterno, avvocato. Con la morte del nonno, nel 1820, Amari tornò a vivere nella casa paterna e assistette all’insurrezione palermitana per l’indipendenza e al suo fallimento. Dopo l’arresto del padre, nel 1822, coinvolto nella congiura di Salvatore Meccio contro Napoli e l’occupazione austriaca, Amari si trovò a mantenere la famiglia con il suo stipendio di impiegato, maturando sempre più forti ideali di indipendenza. Durissima per lui fu l’esperienza del soggiorno a Napoli, dal 1838 al 1840, come impiegato del ministero di Grazia e giustizia, in seguito a disposizioni del governo di Napoli che miravano a un accentramento più rigoroso. Tornato a Palermo, poté completare Un periodo delle istorie siciliane del secolo XIII (1842) che doveva dargli fama tra gli storici con il titolo della seconda edizione (la parigina, 1843), La guerra del Vespro siciliano, testo animato da un vivo sentimento politico siciliano.
La subita fortuna del primo saggio, l’eco patriottica in Sicilia e fuori destarono i sospetti prima, l’ira poi di Francesco Saverio Del Carretto che richiamò a Napoli il manoscritto e l’autore. Il quale, messo sull’avviso e aiutato dagli amici, lasciò Palermo alla fine del 1842 per il suo ‘primo esilio’. Il giovane siciliano che sbarcava, clandestino, in terra di Francia non era dunque, come altri esuli, un cospiratore politico: era un impiegato in subordine del ministero degli Affari di Sicilia, che aveva scoperto una vocazione per la ricerca storica e – sollecitato dai leader del ‘partito siciliano’ di Palermo – aveva scritto e pubblicato un libro colto insieme e appassionato. Da Tolone a Parigi (via Marsiglia): e qui, accanto all’attività di pubblicista, Amari diede forma al progetto di una storia della Sicilia araba, che doveva occuparlo – con le brevi interruzioni ‘patriottiche’ – per tutta la sua lunga vita (durata 83 anni!).
A Parigi Amari si lasciò coinvolgere nelle trame politiche della parte democratica, mentre seguiva le lezioni di Jules Michelet, e Joseph-Ernest Renan gli trovava un’occupazione nello studio e nella sistemazione dei manoscritti arabi della Bibliothèque nationale. Ma nel gennaio del 1848 Palermo insorse e Amari non tardò, accorrendovi a vivere quella breve e tormentata esperienza. Nel 1849 fu di nuovo a Parigi e si avvicinò alle idee di Giuseppe Mazzini: furono questi gli anni di impegno come arabista, che portarono alla pubblicazione della Storia dei Musulmani di Sicilia, di cui il primo volume uscì nel 1854.
Richiamato in Italia nel 1859 per insegnare lingua e storia araba all’Università di Pisa, tornò in Sicilia come ministro del governo di Giuseppe Garibaldi. Nel 1861 fu nominato senatore del Regno, poi divenne ministro dell’Istruzione (1862-64). Caduto il ministero, Amari riprese l’insegnamento presso l’Istituto di studi superiori di Firenze e la sua attività scientifica. Morì a Firenze il 16 luglio 1889.
Così Amari in un foglio volante, che ha serbato nel secondo tomo degli inediti Studii su la storia di Sicilia dalla metà del XVIII secolo al 1820 (il titolo, di Amari stesso, è però del 1888):
Parendomi che infin dal cominciamento di questo secolo la Sicilia sia stata penetrata dall’urto della rivoluzione europea: e sia cominciata a disporsi ad una mutazione che tante cagioni hanno impedito finora ma pur non cessarà dal procurarsi perché è conseguenza necessaria delle opinioni del secolo, e de’ nostri rapporti politici, e delle interne condizioni, io mi son proposto di scorrerne i passi. Però ho impreso a fare una storia che cominciando dagli assalti del governo alla feudalità nostra, abbia termine al 1835. Però ho voluto scrivere degli ultimi 4 lustri del secolo 13° che nella nostra storia sono il solo periodo di mutazione politica, e si riscontrano coi tempi presenti in cui par che lentamente se ne prepari. E vedendo che in quanto seguirebbe dal 1836 sarei agitato dalle passioni del tempo, o non potrei veder tutte le cagioni che il tempo scopre, mi son deliberato di lasciare ai miei compatriotti dei secoli avvenire per questo periodo di tempo una cronaca con la quale e con la storia del primo mezzo secolo di quella mutazione europea modificata in Sicilia potranno forse ritrarre le cause di quello stato [futuro] diverso certamente dal nostro in cui vivessero. Come il moto qualunque si torce o rifrange, o ritarda per mezzi diversi ne’ quali è comunicato, io comincio a scrivere il 1° febbraro 1836. Ma noterò ogni giorno che li abbia saputi le ragioni o i fatti importanti.
Vi dice due cose importanti: che il Vespro e gli Studii sono progetti, che maturano contemporaneamente fra il 1833 e il 1836, nell’ambiente del ‘partito siciliano’, e che perciò sono documenti del travaglio ideologico e politico del ristretto e prestigioso gruppo palermitano (Domenico Scinà, Marcello Fardella di Cumia, Salvatore Vigo), che ha cooptato il giovanissimo Amari (25 anni nel 1832), dal momento in cui – per il coinvolgimento del padre nella ‘congiura di Meccio’ – questi aveva compiuto una sconvolgente e accelerata maturazione politica. Fu il percorso ideologico di Amari ‘da giovane’: il netto distacco, che è di Scinà, dalla tesi di Rosario Gregorio delle fondamenta normanne della costituzione siciliana. Poiché idea madre del partito siciliano è la monarchia ‘a due teste’ (come in Belgio, Norvegia, Austria ecc.) le fondamenta vanno poste nella mutazione politica del Vespro e della sua ‘guerra’: non c’è rifiuto del dispotismo della Spagna come del dispotismo di Napoli se non nella loro pretesa di ‘dominio’ della Sicilia e degli Stati che sono parte delle rispettive monarchie. La ‘rivelazione’ è nella rivoluzione del 1820 – in cui i ‘siciliani’ si erano rifiutati di giurare la Costituzione spagnola octroyée da Napoli alla Sicilia perché sono già ‘costituzionali’ dal 1812-15, e non intendono tradire con un nuovo giuramento il giuramento antico. Da qui l’esigenza storico-politica di rivisitare con la prima mutazione (13° sec.) la seconda in progress, che si iscrive nel mezzo secolo dalla nomina di Domenico Caracciolo viceré in Sicilia (1781) ai moti del 1837.
Ma fino al 1846, quando a Parigi il progetto dei Musulmani di Sicilia prenderà forma, Amari procede lungo il percorso intrapreso dai primi anni Trenta: nuove edizioni del Vespro, e storia della Sicilia fra Sette e Ottocento. L’interesse per la storia dei musulmani è però un virgulto dello stesso ceppo: liquidando la tesi delle fondamenta normanno-sveve della monarchia meridionale, si coglie la continuità tra il tempo dei saraceni e quello dei Normanni; il tempo musulmano non è (come aveva proclamato Gregorio fin dalla prima pagina delle Considerazioni sopra la storia di Sicilia) una parentesi dalla quale i Normanni raccolgono l’eredità bizantina e musulmana, un’eredità comunque dispotica. La Sicilia ‘moderna’, costituzionale si fonda sulla ‘guerra di popolo’ di cui si era fatto duce Federico III – il vero fondatore al posto di Ruggiero. Ma, dopo l’avvio, quando la reazione napoletana ai moti siciliani del 1837 avrà fatto il deserto del ‘giardino di Sicilia’, portando a Napoli i siciliani e viceversa consegnando ai napoletani l’isola, il progetto storiografico era diventato l’arma politica di un progetto antinapoletano, e insieme l’epigrafe per i patrioti morti nel colera del 1837 o giustiziati dalla rabbia borbonica – a Siracusa, a Catania, a Palermo.
A Parigi per il suo ‘secondo esilio’, Amari vi segue l’impresa ‘cesarista’ di Luigi Napoleone (1851), e sceglie in quel clima di far crescere l’impegno storiografico. Il primo volume della Storia dei Musulmani di Sicilia esce a Firenze, per i tipi di Le Monnier, nel 1854; il secondo tomo del terzo volume, con lo stesso editore, solo nel 1872. Cosa ha determinato la scelta? I colloqui con Augustin Thierry (1795-1856), l’autore della Histoire de la conquête de l’Angleterre par les Normands (1825), dei Récits des temps mérovingiens (1840), che allora dettava, cieco e malato, l’Essai sur l’histoire de la formation et des progrès du Tiers-état (1853), debbono averlo per un verso scoraggiato a estendere all’Europa del Due-Trecento l’indagine avviata per la Sicilia, per l’altro stimolato a seguirne l’esempio nello studio della Sicilia normanna – con un’attenzione particolare (com’era nel modello) per la Sicilia prenormanna, la bizantina e l’araba. Ma dopo il 1848 (e il 1851) quella storia di Sicilia sarebbe diventata il prologo «di quel mirabile incivilimento della comune patria nostra, il quale entro pochi secoli dileguava in Europa le tenebre del medioevo»: ché nel 13° sec., il secolo di Federico II e del Vespro siciliano, «la civiltà italiana tramutò ancor sua sede, prima dall’isola alle parti meridionali della terraferma, e poi, fuggendo i capricci dei principi, alle gloriose repubbliche ch’eran surte tra il Tevere e le Alpi» (Storia dei Musulmani di Sicilia, 1° vol., 2002, p. 50). Così nell’introduzione (Parigi, luglio 1854) al volume primo dei Musulmani.
E l’unità del racconto viene affermata, con secco vigore, ad apertura del libro.
Breve […] il dominio musulmano, né arrivò a compiere la assimilazione degli abitanti che avea trovati in Sicilia. Sfasciandosi da un canto la società musulmana in Sicilia come per ogni luogo, e spuntando dall’altro canto la novella nazione italiana, questa trovò, come per caso, la insegna di ventura, gli esempi d’ordine, e gli ordini di guerra dei Normanni; talché, verso la fine dell’undicesimo secolo, [essa nazione] passò il Faro sotto la bandiera di quelli; ripigliò la Sicilia, che le apparteneva per ragione di geografia e di schiatta; si aggregò le popolazioni cristiane rimastevi, e raccolse i frutti delle proprie e altrui virtù. Perché, essendo pochi i Normanni che le aveano insegnato a vincere, e ad ordinare lo Stato, la nazione italiana, per la ineluttabile maggioranza del numero, assorbì quella forte schiatta in guisa che a capo d’un secolo ne rimasero appena pochi nomi di famiglia. De’ musulmani intanto parte si dileguò nel seno della società italiana di Sicilia, parte emigrò o fu mietuta dalle spade cristiane (Storia dei Musulmani, cit., pp. 49-50).
Il soggetto storico è dunque la ‘schiatta italica’, rigenerata a novella nazione, che – in presenza dello sfascio in Sicilia della società musulmana – viene nell’isola dietro l’insegna normanna a riprendersi la Sicilia «che le appartiene per ragione di geografia e di schiatta»: e facendolo, può raccogliere «i frutti delle proprie e delle altrui virtù». E di queste virtù altrui, degli arabi e dei Normanni, la Storia vuole essere appunto la riscoperta: esse rappresentano lo specifico contributo meridionale (e siciliano) al formarsi, e all’affermarsi della «novella nazione italiana».
Già questa sommaria enunciazione dei temi e della tesi toglie fondamento alla definizione di Amari storico ‘illuminista’. Non certo illuministico è l’appassionato ghibellinismo, che nella Storia conferma il severo giudizio sulla politica ‘antinazionale’ del papato, anticipata in pagine grandi del Vespro.
Gregorio, primo del nome tra i papi, santo nel calendario romano e grande nella storia, fu specchio di virtù cristiana con quelle macchie di ruggine connaturali per la umana debolezza a tal virtù, le quali [macchie] allargandosi in certi tempi e in certi luoghi hanno occupato e guastato tutto il terso metallo; e n’è nata quella bruttura che si chiama volgarmente gesuitismo (Storia, cit., p. 63).
Un giudizio che rinvia certo al Gesuita moderno (1847) di Vincenzo Gioberti, ma da posizioni alternative rispetto alle neoguelfe: e il rinvio a Bertrando Spaventa è d’obbligo. Non è illuministico il concetto di popolo/nazione, quale era stato assunto già a soggetto del Vespro, e ora torna dilatato e arricchito di suggestioni della storiografia francese; e neppur quello di popolo, corrispondente ai vinti che resistono alla nobiltà fatta di vincitori. Tutta romantica appare l’opposizione della ragione all’autorità, laddove di quella ragione si fanno portatori il settarismo religioso (che è «sentimento religioso», distinto e spesso opposto a confessione religiosa e a chiesa) e la democrazia dei popoli allevatori. E l’idea di rigenerazione nazionale, in cui sangue e religione e lingua svolgono un ruolo sinergico nello spingere in superficie quello che era profondo e represso. Come definire illuministica la sua rankiana concezione della storia? E se i fatti si distinguono in ‘generali’ ed ‘esteriori’ (la scorza della storia!), e lo storico privilegia i rapporti politici sui successi militari; quando la povertà delle fonti ci nega «le passioni, i pensieri, tutto quel movimento vitale che piace e giova intendere nella storia» (p. 68), possono soccorrere le leggende sacre o profane, e il racconto agiografico, dal momento che «svelano in che modo allor gli uomini delirassero, che è pur segno di vita» (pp. 69-79).
Vita, movimento vitale, commovimento, generazione e rigenerazione. Lo storico non può limitarsi a registrare l’efficacia di «quell’influsso che par sorga di epoca in epoca a rinnovare le nazioni» (pp. 66-67). Chi volesse trovare leggi alla storia, dovrebbe seguire il principio di chi ha scoperto ‘le eterne leggi della materia’: dal disordine apparente viene allora fuori un ordine, un coagulo (‘grumo’) secondo «l’affinità degli elementi che gli davano principio» (pp. 79-80). E in questo quadro si apprezza il costante riferimento alla schiatta, «ch’è elemento sì potente nei destini dei popoli»: una nota sulla quale si sarebbe più tardi (1872) chiusa la Storia, quasi eco della coeva e tesa riflessione di Renan.
Sono queste le idee che reggono il superbo capitolo III del primo libro, ove Amari affronta il tema della fondazione dell’islam, e dell’opera di Maometto:
il grosso della nazione arabica, nonostante l’antagonismo di schiatta, comparirà ridotto ad unica stampa dalla vita nomade. La qual condizione sociale, immutabile come i deserti ov’errano le tribù, è notissima per tanti ricordi univoci, da Giobbe infino ai viaggiatori d’oggidì: libri sacri, poesie, romanzi, istorie, diarii di dotti europei. E vuolsi da noi studiare perché, conoscendo gli ordini delle tribù, si spiegheranno agevolmente le vicende della nazione arabica in tutti i tempi e in tutti i luoghi. La tribù nomade o, come dicon essi, beduina, che suonerebbe appo noi campagnuola, è saldo corpo politico senz’altri legami che del sangue, senz’altra sanzione penale che la vergogna e il timore dell’altrui vendetta e rapacità. Quivi l’unità elementare della società non è l’individuo, ma sì la famiglia; né risiede vera autorità che nel capo della famiglia […]. Così varie famiglie fanno un circolo […], al quale è preposto un sayh, o diremmo noi anziano […]. È capo fittizio della parentela: magistrato senza impero sopra i privati; senz’arbitrio nelle cose comuni del circolo, nelle quali egli dee seguire il voto dei padri di famiglia. Infine rappresenta, come oggi direbbesi, il proprio circolo nella tribù. La quale unisce insieme varie parentele di un medesimo legnaggio; ordinata alla sua volta come il circolo, guidata da un capo, che vien su tra accordo e necessità come quello del circolo, e regge le faccende comuni della tribù: mutare il campo, far guerre e leghe […]. Tale è la loro gerarchia, politica insieme e militare, ché mal si distingue appo i Beduini. Ordi-
ni civili, che meritino il nome, non ve n’ha […]. Non è mestieri aggiungere qual divario corra tra le famiglie in punto di ricchezza; consistendo questa in proprietà mobili, e di più mal difese contro gli uomini e peggio contro la natura. La disuguaglianza del numero di uomini, avere, valore e riputazione delle famiglie in una nazione che sta sempre con le armi alla mano e osserva con tanta religione i legami del sangue, porta necessariamente la nobiltà ereditaria. […] La forma di governo della tribù torna all’aristocrazia, ma larga; temperandola il nome comune, la familiarità patriarcale, il bisogno continuo che i grandi hanno della gente minuta, la agevolezza di sottrarsi a un governo troppo duro, la semplicità e rozzezza dell’ordinamento sociale. Perciò di rado si vede degenerare in oligarchia e quasi mai in principato. Gli ordini della tribù nomade informano le popolazioni stanziali, uscite quasi tutte da quella, poste in mezzo ai Beduini, costrette a comporre con essi per denaro o sopportare le scorrerie, e avvezze a chiamare in lor divisioni quegli aguerriti vicini […].
«Riducendoci adesso al secolo che corse avanti la nascita di Maometto, si ponga mente a ciò, che la popolazione stanziale era meno frequente nell’Arabia di mezzo e men corrotta forse ch’in oggi»: ma entrambe, la popolazione stanziale e la nomade «riscoteansi insieme per quell’influsso che par sorga di epoca in epoca a rinnovare le nazioni». E qui Amari fa seguire un’analisi dei ‘principî’ che ebbe «il risorgimento della schiatta arabica avanti Maometto». E
le credenze religiose degli Arabi, ancorché vacillanti, diverse d’origine, e mal connesse tra loro, davano appicco a un riformatore che imprendesse di ridurle a unità. Primo avviamento a questo la idea d’un Dio supremo […]. Correa tra loro altresì una vaga speranza dell’immortalità dell’anima, non insegnata da metafisica né da teologia, ma dalla superstizione ch’è scuola senza dispute. […] Lo sviluppo di una nuova religione, apparecchiato da coteste condizioni di cose, fu favorito dalla forma che avea presa il reggimento politico della Mecca. […] Chiara mi sembra la distinzione del potere esecutivo e del legislativo nella rozza repubblica della Mecca; sottile forma di reggimento, che parrà stranissima in uno Stato ove non era potere giudiziario, né magistrati civili o penali; ma le costumanze universali delle tribù spiegano questa anomalia.
E qui giunge Maometto, il quale, da quegli elementi disparati, riuscì a prendere
ciò che seppe e poté adattare ai bisogni degli Arabi. Ne compose un sistema religioso e politico, semplice, vasto, ottimo alla prova; poiché valse a rigenerar una nazione più prontamente che non l’abbia mai fatto altra legge, e contribuì non poco all’incivilimento d’una gran parte del genere umano, e si regge tuttavia e non par disposto a morire.
Le istituzioni musulmane furono dettate a poco a poco, abrogate ed emendate secondo le circostanze: e gli arabi si contentarono di sì comodo legislatore, onnisciente e fallibile, capriccioso ed eterno.
La storia di Amari non è, nella fase musulmana così come in quella normanna, storia di una conquista bensì un processo di ‘nazionale’ (ri)generazione, vale a dire il cumulo storico delle virtù altrui sulle proprie. Se con Maometto gli arabi ‘ridiventano’ nazione, non si tratta dello sbocco di una storica vendetta di vinti, e neppure di un evento provvidenziale: punto di partenza, «l’unità elementare non è l’individuo, sì la famiglia: né risiede vera autorità che nel capo della famiglia».
A metà del 6° sec., questa ‘civiltà’ vive un’età eroica cui concorrono varie cause. L’attività dei mercanti anzitutto, che dopo la decadenza dell’impero romano scelgono la via araba per i traffici tra Oriente e Occidente; il contatto tra i due ‘imperi’ arabi, e il loro progresso accelerato dal «meraviglioso progredimento dello impero persiano»; e ancora la presenza di colonie ebraiche e di nuclei cristiani. In questo clima Maometto apprende «le tradizioni nazionali e straniere, i principî filosofici e i libri sacri d’altri popoli che, tra quel fermento di intelletti, gli tornavano da cento bocche diverse»; e «quegli elementi disparati» adatta, scegliendo, ai ‘bisogni’ degli arabi. «Ne compose un sistema […] ottimo alla prova; poiché valse a rigenerar una nazione più prontamente che non l’abbia mai fatto altra legge». Nei primi tempi, «in una società democratica e piena di fervore religioso», i precetti di Maometto – destinati a restare lettera morta nei libri di diritto – furono osservati rigorosamente:
Fu democrazia sociale come oggi si direbbe, la quale forma ben rispondeva ai principii fondamentali dell’islamismo: uguaglianza e fratellanza. E si vide, con esempio avventuratamente raro nel mondo, un popolo re nudrito per tutti i deserti dell’Arabia a spese dei vinti, come l’altro popolo re l’era stato entro le mura di Roma (Storia, cit., p. 89).
Dopo Maometto: «Pur nascea […], insieme con la novella società, una gerarchia di merito civile e religioso e una disuguale partecipazione nei comodi della repubblica; le quali condizioni cominciarono a costituire nuovo ordine di ottimati, naturalmente opposto all’antica nobiltà» (pp. 89-90): sono gli ‘ottimati religiosi’ che entrano in conflitto con la nobiltà militare. E «mentre le due aristocrazie combattean l’una contro l’altra, la democrazia surse impetuosa contro di entrambe, ma penò tre secoli a vincere e non potè usar la vittoria» (p. 90). Saranno «i partigiani della ragione contro l’autorità religiosa e politica».
Frattanto ‘tra le guerre civili’ moriva la libertà nascente degli arabi, come quella già dei Romani e di altre nazioni; e il ‘despota’ si troverà a guidare un popolo animato da passione religiosa e agitato da viva conflittualità politico-sociale, contro gli eserciti bizantino e persiano:
i primi […], uomini senza patria, raunaticci di tante genti, tratti per forza alle armi, condotti da capitani cui scegliea capo o favore; i secondi accoliti anche di varie nazioni e classi sociali diffidenti l’una dell’altra, anzi nemiche.
E in più i loro popoli «avviliti dal dispotismo, rifiniti dalle tasse»:
e qual meraviglia se tra l’universale scontentamento paresse manco male la falce dei conquistatori, i quali ragguagliavano gli imi ai sommi, disarmavano la religione dello Stato, permetteano il culto cristiano sol che si pagasse un picciol tributo, o aprivan le braccia per accogliere i vinti nella loro famiglia, nella loro chiesa e nella loro repubblica?
Così «le vecchie società cedeano il luogo alla società dei vincitori che rinascea a vita novella». È il tempo della ‘assimilazione’. Anzitutto i modi della conquista:
I popoli che s’impadroniscono di territori stranieri tengono necessariamente uno di questi tre modi: trasferimento popolare dei conquistatori, come quel de’ Franchi, dei Longobardi e d’altri barbari che non lasciavano patria dietro le spalle; colonie, come quelle dei Greci nell’antichità e degli Inglesi in America, intraprese private che suppongono un popolo incivilito e avvezzo alla libertà; o finalmente occupazione militare a nome dello stato, ch’è propria de’ governi forti in su le armi (p. 129).
Gli arabi, che vivevano in una società in cui barbarie e libertà coesistono, ma dove è già sorta la monarchia, si stanziarono nei Paesi occupati ‘in modo composto’ – «che cominciò con la occupazione militare a nome dello Stato; divenne trasferimento di intere tribù; e portò a un largo governo coloniale e indi alla emancipazione dalla madre patria».
In Africa, il modello ha la sua prova: «una schiatta non usa a soggiorno durevole né incatenata dalla proprietà territoriale» procedette da un reame all’altro «con la stessa nomade alacrità con la quale ne’ suoi deserti avea mutate le tende da un pascolo all’altro» (p. 134); e in pochi anni ‘gli accampamenti alla romana’ diventano grosse città.
Questa ‘possanza municipale’ è la base della libertà delle colonie dalla madrepatria: donde il maggior bene, «la forza di vita ch’è propria delle colonie libere e che non si infonde mai negli automi costruiti dai governi matematici». Il punto debole (‘il male’) fu invece l’assimilazione o frettolosa o incompleta. È il caso in Africa con i Berberi, che passano da una ‘guerra nazionale’ a un conflitto cronico destinato a durare sei secoli («né finì che quando gli Arabi di dominatori divennero soggetti»). Sarà, come vedremo, il caso analogo dei ‘Siciliani’.
Una matura riflessione su l’indole e i costumi dei Siciliani paragonati a quei degli altri popoli italiani non mostra tal divario che non si possa spiegare con la geografia e con la storia, e s’abbia quindi a ricercare negli archivi delle schiatte. Per altro, quando la storia e la lingua ci hanno mostrata identica la massima parte della schiatta, sarebbe temeraria quella critica che si accingesse a inforsare il fatto con cagioni, le quali è più facile imaginare che provarle. Assai più che l’incerta mescolanza di un fil di sangue straniero, sarebbe da valutare l’esempio de’ costumi che le colonie arabe e berbere abbian lasciato per avventura alle popolazioni della Sicilia occidentale, più pronte in vero alla violenza che quelle della regione di levante: ma anche in questo fatto le cagioni son dubbie e diverse, e chi sa che non v’abbiano operato più che ogni altro le condizioni topografiche e sociali? La sola conchiusione certa è che il conquisto musulmano recò in Sicilia nel IX secolo, e mantennevi fino all’XI, uno incivilimento ed una prosperità ignoti allora alle altre regioni italiane, i quali nel XII e per gran parte del XIII rifluirono su la Penisola, e contribuirono allo splendore della patria comune.
Il giudizio di Amari sulla Sicilia imperiale e bizantina è severo, senza essere sommario. La base etnica era costituita dalla ‘nazione greco-sicula’, la cui vicenda è storia di un lento decadere e consumarsi: le due schiatte, la italica e la greca, non confliggono: «il popolo siciliano non partecipò alle vicende che succedeano nella sua terra, altrimenti che come spettatore o vittima: fece plauso, maledisse, pianse, e non si mosse» (p. 183). E la Sicilia diventò allora veramente la ‘Siberia dell’Impero’.
La Sicilia era «ammorbata dalla tisi di un impero in decadenza». Diversa la Sicilia musulmana: «al contrario della stanca società bizantina che sgombrava di Sicilia, la musulmana che le sottentrò, portava in seno elementi di vitalità, progresso e discordia» (p. 188). Nel loro diritto pubblico Amari dà rilievo alle istituzioni municipali, e al diritto di proprietà – in cui emergono il diritto ‘assoluto’ di proprietà di chi coltiva per primo una terra incolta, e il divieto di esproprio delle terre dei vinti coloni che son lasciati in possesso contro il pagamento di parte del prodotto.
A monte la riflessione politico-economica del ‘partito siciliano’ degli anni Trenta, e la sua esperienza del 1848 al governo delle finanze dell’isola. A valle la grande storia, storia di due conflitti che ora si traversano, ora si sommano: quello tra gli Arabi (di Palermo) e i Berberi (di Girgenti), e la lotta degli emiri per l’indipendenza dall’Africa.
Fu aiutata cotesta emancipazione della Sicilia, dalla potenza dei Kalbiti a corte […]; dal tramutamento della sede fatimita al Cairo; dalle guerre orientali dei primi califi d’Egitto; dalla pazzia e debolezza degli
altri; dalla emancipazione contemporanea dell’Affrica. Pur la cagione principale fu che i Siciliani voleano (Storia, 2° vol., cit., p. 160).
Perciò il 10° sec. conoscerà, accanto ai due mali del secolo precedente (l’antagonismo di schiatta e il despotismo africano), il terzo ‘vizio’, l’oligarchia sfrenata dei nobili, evidente ora che non è più dato confonderla «col sentimento di libertà coloniale»: «però la plebe di Palermo parteggiava tuttavia per loro [gli ottimati] e tardò altri trent’anni a tediarsene». L’assenza di un ‘popolo’ blocca l’alternativa fra dispotismo e anarchia; l’obiettivo storico è invece «la liberazione della patria [siciliana] dall’Affrica insieme e dalla anarchia». E «l’insegnamento che vogliamo cavarne è che gli Stati non ordinati secondo uguaglianza e libertà, non hanno rimedio ai mali loro che sia scevro di colpa».
«…i Siciliani voleano». Ma chi era questo ‘popolo’, che non è nazione, ma sa esser soggetto politico nella domanda di indipendenza? È il problema che domina gli ultimi capitoli del IV libro della Storia, insieme un bilancio e un prologo. Certo, il dominio dei musulmani fu breve e l’assimilazione mai compiuta: ma un più lungo dominio non avrebbe prodotto in Sicilia positivi sviluppi, dal momento che la schiatta semitica non ha conosciuto ordinamenti civili «secondo uguaglianza e libertà»; e l’impero arabo era nato con il «germe d’immatura morte».
[…] s’era scisso il califfato; i pezzi s’erano rifranti; gli sminuzzoli, nello undicesimo secolo, si trituravano; e pur la forza dissolvente non restava di commuovere e rimescolare quegli atomi di polvere. La Sicilia […] perseverò nella discordia sino all’ultimo compimento del conquisto normanno, sendo aggravato il vizio delle istituzioni dalla diversità delle genti. A levante, popolazioni cristiane soggette a nobiltà arabica; nel centro, le plebi di Siciliani convertiti all’islam; a ponente, la cittadinanza delle grosse terre; tramezzati in tutto questi romasugli di Berberi di non so quante immigrazioni, e rifuggiti arabi di Affrica e di Spagna.
Ma «come in natura ogni disordine che a noi sembri più strano, è ordinato in sé stesso secondo le eterne leggi della materia, così in quel ribollir di tutte le genti che altre vicende avean cacciate insieme in Sicilia, nacquero vari grumi; e in ciascuno si scopre l’affinità degli elementi che vi devono principio».
È la via ‘scientifica’ per spiegare quella polarità tra africani e siciliani che domina le vicende dalla fase finale. «Starebbe bene a dire gli Affricani partecipanti del paese, cioè degli offici pubblici e stipendi militari»; e i Siciliani «la progenie degli antichi abitatori educata nell’islamismo» (pp. 245-46). La chiave è ora ricercata nel modello Thierry:
Veramente la divisione di Affricani e Siciliani torna a vincitori e vinti, a nobili e popolo: come in ogni paese conquistato, mescolandosi la schiatta, ne avanza la distinzione di classi: in Italia gli Italiani fatti popolo e i Longobardi nobiltà; in Francia, i Galli e i Franchi; in Inghilterra, i Sassoni e i Normanni (pp. 246-47).
Escluso che in Sicilia la dualità Africani/Siciliani copra l’opposizione Arabi/Berberi, essa distingue quindi nobiltà e popolo. La nobiltà però (gli Africani) in Sicilia
era scemata e fiaccata, come in ogni altro Stato musulmano, per la lotta contro il principato […]. Talché i nobili per loro virtù nelle guerre d’indipendenza e di religione, per loro vizi nei tumulti dell’oligarchia, avean perduto il sangue vitale mal supplendo le famiglie che veniano d’Affrica […]. Intanto, corsi due secoli dal conquisto, era venuto su il popolo, o cittadinanza che dir si voglia (p. 247).
Sono i ‘Siciliani’ appunto che cercavamo:
Da una mano, i Musulmani mercatanti e artigiani che passavano d’Affrica in Sicilia e raggranellavano danari con la industria; dall’altra mano, assai maggior numero, i Cristiani del paese, proprietari ed affittuari delle terre i quali si voltavano all’islamismo; i liberti di case nobili, che convertiti s’avviavano agli offici pubblici ed alla milizia; i figliuoli degli uni e degli altri, spesati negli studi legali e fatti notabili per sacro dritto della scienza, componeano tal classe che per numero vincea di gran lunga la nobiltà; nè avea da invidiarle gli avvantaggi della ricchezza nè dell’intelletto; le si accomunava negli officii dello Stato e la superava nei consigli municipali (p. 247).
È la ‘borghesia’, cui la plebe si accosta quando abbandona la nobiltà. Un processo familiare alla storiografia (e alla politica) dell’Ottocento europeo, nella quale si riconoscono le linee originali e gli scarti della vicenda ricostruita nel grande libro di Amari. Il quale ancora una volta non consente alla sua storia l’esito cui siamo preparati. Ché se il conflitto nasce in Sicilia, come in Inghilterra e in Francia, per le urgenze finanziarie della monarchia, qui la nazione, non più greco-sicula ma ‘siciliana’, colloca fuori del quadro musulmano e siciliano la propria opzione storica. E si lascerà conquistare non dai Normanni, ma dalla ‘novella nazione italica’ che già muove al seguito delle insegne normanne.
Nel 1872, con il VI libro, Amari compiva il lavoro di un trentennio. La costruzione storiografica aveva aiutato la sua maturità politica, quella stessa che ne accompagnerà l’opera di parlamentare e di ministro. Il tempo, non breve, che gli restava, sarà dedicato a stimolare la ricerca di nuove fonti (letterarie, epigrafiche, archeologiche), che riguardassero la Sicilia del 13° sec. o quella araba dal 9° al 12° sec.: ma il grande storico vuole essere soprattutto vigile scolta della propria interpretazione e delle proprie tesi. Difenderà, ancora in occasione del Centenario del Vespro (1882), la tesi della guerra di popolo e il carattere ‘letterario’ della congiura di Procida: e La guerra del Vespro crescerà di mole per le appendici documentarie, ma la revisione di alcune parti non varrà ad aumentare il fascino della prima stesura. Non diverso giudizio importa l’impegno, che si fa teso e quasi angoscioso nei secondi anni Ottanta (nel giugno 1888 ad Antonino Salinas: «temo sempre di far poco, o che le Parche taglino il filo un dì o l’altro, senza darmene avviso o chieder licenza»), a ‘cancellare e rifare la Storia dei Musulmani’: nessuna delle pagine riscritte, talune meglio argomentate o più ricche di particolari, ha il garbo e il piglio della versione che intendono sostituire, mentre le annotazioni aggiunte o rifatte non incidono su alcuna delle tesi centrali del gran libro.
Chi voglia perciò tornare oggi alla Storia di Amari, per sé e come un monumento insigne della storiografia europea dell’Ottocento, che regge bene il confronto con i tanti ‘libri grandi’ di quel secolo della storia, lasci fuori aggiunte e correzioni se vuole ancora apprezzarne il rigore del metodo, la sapienza della costruzione, il vigore appassionato di una concezione della storia aliena da teologie provvidenzialiste e dal giustificazionismo, nella quale domina il motivo dell’incivilimento che si misura dal rapporto tra le leggi e i costumi, e dal costituirsi a nazione dei popoli nei tempi della ‘vitalità’ quali si vedono nella letteratura, nelle arti, nella religione. E la comparazione, già presente in Renan, tra religioni senza sacerdozio e potere territoriale e religioni di Stato non si limita a dar contesto alle idee ‘laiche’ del grande storico liberal-democratico, ma è soprattutto chiave di accesso a un’interpretazione sociale del fenomeno religioso che associa Amari al dibattito in quei decenni attivo e in Germania, in Francia e nei Paesi Bassi. Storico europeo quindi, non ‘mediterraneo’: ché anzi egli porta nella storia della Sicilia araba tutti i temi della maggiore storiografia europea, della francese soprattutto, e di suo aggiunge una presa di distanza dall’etnologia colonialista che già dilaga in Europa dagli anni Settanta. E la Sicilia araba si pone così in modello affine ma alternativo all’Italia ‘germanica’ del Medioevo degli invasori: gli arabi, che pur aiutano i siciliani a guarir dalla ‘tisi’ bizantina, sperimentano nell’isola un modello di civiltà che si sarebbe rivelato essenziale per la fondazione della ‘nazione’, e per il contributo storico della Sicilia alla nascita e allo sviluppo dell’Italia nazione. Gli arabi hanno dato, anche attraverso i musulmani di Spagna, a un’Europa che si è scordata del debito storico e vanta il diritto della missione coloniale, che è insieme cristiana e occidentale. Non così per Amari, che ha pagato il prezzo altissimo dell’emarginazione storiografica di un’opera che pur dettava un epilogo che era al tempo stesso un bilancio e una profezia.
Un periodo delle istorie siciliane del secolo XIII, Palermo 1842 (rist. anast. a cura di R. Giuffrida, Palermo 1988).
Storia dei Musulmani di Sicilia, 3 voll., Firenze 2002.
Studii su la storia di Sicilia dalla metà del XVIII secolo al 1820, a cura di A. Crisantino, Palermo 2010.
R. Romeo, Amari Michele, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2° vol., Roma 1960, ad vocem.
I. Peri, Michele Amari, Napoli 1976.
Lettere di Antonino Salinas a Michele Amari, a cura di G. Cimino, Palermo 1985.
G. Giarrizzo, presentazione di M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, Firenze 2002.
M. Moretti, introduzione a M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, Firenze 2002.
A. Crisantino, introduzione a M. Amari, Studii su la storia di Sicilia dalla metà del XVIII secolo al 1820, Palermo 2010.