CAMMARANO, Michele
Nacque a Napoli il 23 febbr. 1835 da Salvatore di Giuseppe, il quale aggiungeva alla sua principale attività di autore drammatico e di librettista di opere liriche quella di pittore di vedute locali, e da Angelica Cammarano. Il giovane C. ebbe così occasione di crescere in un ambiente familiare propizio a secondarne la vocazione artistica (oltre che dal padre e dal nonno fu indirizzato, infatti, verso la pittura di paesaggio dal fratello di quest'ultimo, Antonio); un ambiente, peraltro, ove anche i rapporti con il mondo del teatro favorivano l'accesso a una cultura ben più vivace di quella che ristagnava nel clima provinciale della Napoli degli ultimi tempi borbonici, permeata di fermenti patriottici.
Il 14 marzo 1853 il C. si iscrisse all'Accademia di Belle Arti di Napoli, frequentando assiduamente la scuola di paesaggio dello Smargiassi e quella di nudo retta dal Mancinelli: ma la sua formazione si basò soprattutto sugli esempi di Giuseppe e Filippo Palizzi, attraverso i quali risaliva tanto alla tradizione lirica di G. Gigante e della scuola di Posillipo quanto alle più moderne disposizioni in senso naturalista che appunto Giuseppe Palizzi aveva ricavato in Francia dal contatto con Courbet e con la scuola di Barbizon. Di queste disposizioni verso una presa diretta dal vero il C. dette già prova significativa con i dipinti che espose nel 1855 alla mostra nel R. Museo borbonico, come quello rappresentante i Crociatiche tagliano un bosco (Napoli, Museo di S. Martino) - quadro preparato attraverso una fitta serie di studi fatti tra i monti del Molise -, e poi ancor meglio nel Paesaggio invernale del 1857 (Napoli, Gall. dell'Accademia) in cui il basilare influsso palizziano si colora di austera trepidazione romantica. Qualche anno dopo, nel 1859, partecipò al concorso per il "pensionato"; dovendo in tale occasione eseguire un quadro a soggetto obbligato (un Paesgggio con un eremita in una grotta), dettato dal De Vivo, espresse la sua insofferenza per siffatte esercitazioni scolastiche che definì, in una lettera a B. Celentano, come "ciò che pazzamente vien fatto nell'Accademia" (B. Celentano, Due settenni della pittura, Roma 1881 p. 327 nota): ne riuscì invero un'operina modesta (Napoli, Gall. dell'Accademia) invano toccata di tratti palizziani.
Già allora a si convinta vena naturalista era sottinteso un sentimento di civile partecipazione agli eventi contemporanei, che si ampliò e si precisò dopo il 1860 e dopo le esperienze compiute militando nella guardia nazionale, in cui s'era arruolato volontario in quell'anno stesso. Nel 1861 si recò brevemente a Firenze, intendendo partecipare all'Esposizione nazionale per la quale aveva ideato un quadro, poi perduto, di argomento garibaldino: ebbe allora i primi contatti con i macchiaioli. Ma l'ispirazione a temi di attualità si manifesta meglio in opere come il Terremoto di Torre del Greco (Napoli, Museo di S. Martino) che è pure del 1861 e, due anni dopo, in Ozio e lavoro (Napoli, Museo di Capodimonte) improntato a motivi di polemica sociale, sia pure di carattere genericamente umanitario. Proprio in Ozioe lavoro, però, è anche un più controllato dettato formale, che quasi s'accosta a quello d'un Marco De Gregorio e che comunque segna il distacco dalle matrici palizziane. Tale distacco si farà più netto dal 1865 - anno in cui il C. si trasferisce a Roma - in poi: a Roma infatti, grazie anche al rapporto con il Fracassini, riaffiorano i pur mediati influssi del realismo di Courbet, e l'artista riesce ad esprimere, al di là dell'aneddotica di tante sue opere di quel momento, una sincera emozione per il mondo popolare.
Tra le opere migliori di questo periodo sono Chiacchiere in piazza in Piscinula (1865) e la Porta santa (1868), entrambi nella Gall. naz. d'arte moderna a Roma, il Ghetto (1868: Napoli, coll. Apuzzo) e quell'Incoraggiamento al vizio (1868: Roma, coll. Cerciello) che l'artista portò con sé a Venezia, nel 1869, e che fece grande impressione sui pittori veneziani, dal Ciardi al Favretto allo Zandomeneghi. Nei mesi trascorsi a Venezia il C. dipinse alcuni paesaggi e vedute della laguna, di ferma struttura luministica, e uno dei suoi veri capolavori: Piazza S. Marco (1869: Roma, Gall. nazionale d'arte moderna), episodio di virtuosismo per la brillante resa degli effetti notturni, ma anche autentica tranche de vie della società borghese del tempo.
Tornato a Roma, il C. ne riparte il 2 marzo 1870 per recarsi a Parigi, ove ha finalmente modo di conoscere personalmente Courbet, ma è attratto soprattutto da Géricault, del cui Radeau de la Méduse esalterà, nelle sue Memorie, la "straordinaria potenza, ... l'intonazione e disegno ardito, palpitante despressione della figura" (Biancale, p. XIV). Non s'interessa invece delle coeve esperienze degli impressionisti. Di nuovo a Roma, giusto in tempo per essere testimone della liberazione della città, ne celebrerà l'evento con quella Carica dei bersaglieri a Porta Pia (1871: Napoli, Museo di Capodimonte) che è il primo dei suoi grandi quadri ispirati all'epos risorgimentale e di certo il più popolare: una composizione "in grande", complessa e corale, memore dell'esperienza compiuta proprio dieci anni prima con il Terremoto di Torre del Greco ma anche, e sia pure in accezione semplificata, della lezione di Géricault. Giustamente è stato osservato che qui "ciò che ha interessato l'artista non è il fatto di cronaca con le sue determinazioni di luogo e di tempo, ma la sua drammaticità; non la storicità letterale 'panoramica' del fatto, ma la sua immediata violenza, la sua imminenza di 'primo piano'" (Maltese, 1960, p. 218).
Negli anni successivi, sempre a Roma, il C. è ancora talvolta impegnato in grandi composizioni "storiche", come Il 24 giugno a San Martino (1883: Roma, Gall. nazionale d'arte moderna), che accentua ulteriormente la coralità della Carica dei bersaglieri e mostra un ancor più sicuro dominio dell'impaginazione scenica. Ma la sua attività è allora prevalentemente dedita all'approfondimento di un tematica popolare e sociale di più cruda evidenza, non scevra di polemiche nei confronti della società ufficiale dell'Italia unita.
Già Iboscaioli (dipinto a Subiaco nel 1878: Napoli, coll. del Banco di Napoli, in deposito al Museo di Capodimonte) e il Covo dei briganti (Roma, coll. C. Bruno) scantonano il folclore per indagare dimesse condizioni umane: nella Partita a briscola, nota anche come Rissa a Trastevere (1887: Napoli, Gall. dell'Accademia), infine, erompe un'emozione quasi sgomenta e il discorso pittorico si fa serrato, fulmineo, dimostrando come certi episodici recuperi dalla tradizione del naturalismo secentesco - già comparsi ad esempio nel Terremoto di Torre del Greco o nel Ghetto del 1868 - qui, resi ancora più espliciti per puntuali riferimenti alla Deposizione del Caravaggio, sappiano finalmente realizzarsi in rivivificato linguaggio espressivo.
Ricevuto l'incarico di dipingere un quadro rappresentante la Battaglia di Dogali, per lo scrupolo di documentarsi dal vero sul paesaggio africano e sui costumi locali, il C. si trasferisce a Massaua, ove resta per oltre quattro anni, dal 1888 al 1893: l'enorme quadro che risulta da sì accanito esercizio veristico (Roma, Gall. nazionale d'arte moderna) è, ad onta dell'assunto celebrativo, "una composizione per niente retorica, ma l'immagine di una battaglia vera, disperata, dove bianchi e neri, vincitori e perdenti condividono imparzialmente terrore e coraggio, esaltazione e abbrutimento" (Maltese, 1967, p. 21).
Fu questa la sua ultima impresa di grande respiro compositivo; dopo il ritorno in patria attese quasi solo a paesaggi di taglio minuto, come se volesse tornare a un'indagine particolareggiata di singoli brani di natura, e a qualche ritratto o studio di figura.
Il 15 genn. 1900 fu nominato a succedere a Filippo Palizzi sulla cattedra di "pittura di paese e di animali" nell'Istituto di Belle Arti di Napoli, incarico che accolse volentieri anche per alleviare le sue dissestate condizioni economiche. Tornò così, dopo trentacinque anni, nella città natia, e si dedicò con impegno all'insegnamento, cercò anzi di rinnovarne alquanto i metodi tradizionali, portando i suoi allievi a esercitarsi dal vero com'egli stesso aveva fatto in gioventù: "devi cercare di rendere l'albero così come se dipingessi un nudo", raccomandava loro, come racconta E. Pansini (in Cimento, XXXIX [1950], p. 152).
Divenne allora amico di Salvatore Di Giacomo, al quale lo legavano affini attitudini di interesse per la vita popolare. Fece qualche viaggio in Sicilia riportandone impressioni di paesaggi per lui inconsueti. Ma tornato ormai a risiedere stabilmente in un ambiente che era quanto meno restio ad aprirsi alle correnti di nuova e più viva cultura figurativa, incapace egli stesso a scuotersi dalla pigra routine in cui s'era adagiato, trascorse gli ultimi anni della sua vita senza più produrre nulla in cui si riconoscesse l'antico suo talento. Quando morì, a Napoli, il 21 sett. 1920, era ormai considerato un sopravvissuto.
La rivalutazione critica della personalità del C. è giunta solo in tempi recenti, dopo aver scontato le generiche, enfatiche commemorazioni di tendenza tradizionalista, e invece sul filo d'una spregiudicata e globale riconsiderazione e del movimento verista e dei propositi etico-sociali della "pittura di storia" ottocentesca. Così, se per la conoscenza dei dati biografici resta fondamentale la monografia sul pittore di M. Biancale (in larga parte basata su quelle Memorie che il C. aveva redatto negli ultimi anni di vita e il cui manoscritto, consegnato al Di Giacomo, è rimasto quasi tutto inedito ed è ora introvabile), per una più consistente indagine critica bisognerà attendere le pagine di C. Lorenzetti nella sua storia dell'Accademia di Belle Arti di Napoli (1952), il saggio introduttivo di P. Ricci al catalogo della mostra dedicata all'artista nel 1959 - nel quale però vengono amplificati oltre misura i rapporti con la tradizione del naturalismo secentesco napoletano e vengono peraltro svalutati altri aspetti della civiltà artistica dell'Ottocento, come il movimento dei macchiaioli, che pur parteciparono di istanze civili e sociali simili a quelle del C. -, e infine gli scritti del Maltese (1960 e 1967). Sono questi proprio che finalmente riequilibrano la valutazione dell'apporto del C. a quello che fu, sostanzialmente, un momento unitario dell'arte italiana, riconoscendo in lui "il solo pittore dell'Italia unita che seppe quasi dovunque evitare la retorica e tenere alta la propria dignità di artista nonostante l'ufficialità dei temi e l'impeto delle proprie convinzioni politico-sociali" (1960, p. 219).
Bibl.: Fondamentale la monografia di M. Biancale, M. C., Milano-Roma 1936. Un esauriente repertorio della bibl. edita fino al 1958 è in app. a M. C. (catal.), con saggio introduttivo di P. Ricci, Napoli 1959, da integrare però con le note d'archivio pubblicate in C. Lorenzetti, L'Accademia di Belle Arti di Napoli, Firenze 1952, pp. 268 ss., 285-287. Tra gli scritti successivi si segnalano: C. Maltese, Storia dell'arte in Italia, 1785-1943, Torino 1960, ad Indicem;A.Schettini, La scuola napoletana, in I grandi pittori dell'Ottocento italiano, Milano 1961, III, pp. 37-39; R. Causa, Napoletani dell'800, Napoli 1966, pp. 51-59; C. Maltese, Realismo e verismo nella pittura italiana dell'Ottocento, Milano 1967, pp. 21 s.; F. Bellonzi, La pittura di storia dell'Ottocento ital., Milano 1967, p. 21; La Galleria dell'Accad. di Belle Arti…, Napoli 1971, pp. 74-81, 84, 103, tavv. LXXVIII-LXXX.