CARRASCOSA, Michele
Nacque a Palermo (ma per altri, a Paternò) l'11 apr. 1174 da Francesco, proprietario, e da Teresa de Vitt.
La futile controversia sul luogo di nascita (Paternò, e precisamente il borgo detto "Palermo", come precisa S. Correnti, Era siciliano di Paternò il più grande generale di Murat, in Giorn. di Sicilia, 14 febbr. 1962), non ha purtroppo condotto a più proficue indagini né sulla biografia del C. né sulla famiglia, passata nel Regno dall'originaria Spagna all'epoca di Carlo di Borbone, fornendo da allora fino alla caduta del Regno numerosi alti ufficiali all'esercito borbonico e successivamente all'esercito italiano.Secondo tenente in uno dei reggimenti di cavalleria napoletani inviati in Lombardia in soccorso degli Austriaci, il C. rimase ferito combattendo contro i Francesi nella battaglia di Lodi (10 maggio 1796); nel 1798, secondo maggiore del reggimento "Principessa cavalleria", prese parte alla disastrosa campagna romana del generale K. Mack. Nel 1799 aderì alla Repubblica partenopea militando nella cavalleria repubblicana col grado di caposquadrone. Non si hanno notizie certe delle vicende del C. dopo la sconfitta della Repubblica: dal Castel Sant'Elmo sembrerebbe essere stato trasferito prima nel penitenziario di Santo Stefano, e successivamente esiliato.
Il C. ricomparve nel Regno nel 1806, capobattaglione nel I reggimento di linea dell'esercito di Giuseppe Bonaparte. Diede ottima prova delle sue doti militari nella campagna di Calabria, per cui il colonnello A. Bigarré (che rimarrà sempre suo estimatore) lo richiese per il I reggimento di linea napoletano che egli veniva ricostituendo nel deposito di Mantova. Avviato questo reggimento alla volta della Spagna, il C. venne richiamato a Mantova dal Bigarré, ora al comando del II reggimento, i cui effettivi erano costituiti dalla peggior feccia delle galere regnicole. Con questo reggimento il C., nominato colonnello il 23 maggio 1808, valicò le Alpi nel luglio di quell'anno; appena giunto in Catalogna esso cadde in tale stato di disgregazione da dovere essere riavviato in Francia e ivi riorganizzato. Il C. tornò in Ispagna in novembre, ma il 17 febbr. 1809 un contrattacco spagnolo lo colse di sorpresa, con un centinaio di soldati, ad Igualada. Ferito e fatto prigioniero, il C. venne liberato quella notte stessa da un ritorno offensivo del gen. Pino. Nominato generale di brigata, ritornò dopo una lunga convalescenza a Napoli nell'estate 1509. Nella capitale assurse ben presto ai più alti gradi dell'esercito del Regno: ispettore generale della scuola di Marte, tenente generale e comandante della piazza di Napoli ed infine, nel 1813, comandante della I divisione di linea.
Benché egli fosse stimato altamente negli ambienti militari per coraggio, doti di organizzatore e la severa disciplina che sapeva imporre alle sue truppe (ma Johnston, I, p. 304, gli riconosce soltanto "enough tactics to manoeuvre a brigade"; ed esperti francesi, contemporanei e storici, lo accuseranno di gravi errori nella campagna del 1815), è più che probabile che altre motivazioni avessero contribuito alla sua ascesa lontano dai campi di battaglia. Alcuni storici francesi le individuano nell'atteggiamento antifrancese del C. e nei servigi ch'egli rese a Murat in tal senso, soprattutto quando, comandante della piazza di Napoli, aveva ai suoi ordini una forza di polizia autonoma (cfr. per es. Weil, 1902, III, pp. 174, 423).La documentazione attualmente nota è insufficiente ad avvalorare un'ipotesi che purtuttavia sembra confermata dalla linea di condotta del C. dal 1813in poi.
Pervenuto al vertice della gerarchia militare, parte integrante del nuovo ceto dominante (barone del Regno sin dalla prima infornata del gennaio 1811, commendatore dell'Ordine delle Due Sicilie, provvisto di una solida fortuna cui non poco avevano contribuito i solidi appetiti borghesi per beni fondiari e non), il C. sembra aver percepito tra i primi la necessità di sgombrare il campo degli elementi stranieri che impedivano alla nuova élite militare e burocratica "nazionale" quel ruolo egemonico che ormai si sentiva in grado di esercitare.
Finché ebbe modo di svolgere un ruolo di primo piano sulla scena napoletana il C. perseguì con tutti i mezzi queste mire egemoniche di potere, quasi del tutto indifferente al più ampio quadro politico-istituzionale in cui queste avrebbero potuto realizzarsi. Successivamente egli verrà accusato di aver anteposto la propria carriera alle esigenze della causa comune, qualunque questa fosse ("eunuchi politici" sarà la definizione del gen. G. Pepe, Memorie, Lugano 1847, p. 356).In effetti però il C. non volle mai disgiungere l'avanzamento personale dal problema dell'avanzamento generale e consolidamento della élite militare napoletana - pur riservando a se stesso il primo posto -, probabilmente perché conscio della loro inscindibilità.
Così nel corso della campagna murattiana del '14 il C. partecipò, nel ruolo preminente cui aveva diritto, alla congiura costituzionalista dei generali, presiedendo sia la riunione che decise l'invio del Filangieri presso il generale britannico lord Bentinck con la richiesta di 50.000 sterline (due mesi di soldo per l'esercito) per poter marciare su Napoli e imporvi la costituzione, sia le riunioni che decisero le varie misure di pressione sullo stesso Murat per indurlo, o costringerlo, a concedere la costituzione. Ma quando il re offrì avanzamenti e decorazioni ad alcuni generali (il C. in primo luogo), e promise di esautorare i francesi ancora al suo servizio, il C. si ritenne soddisfatto.Nella campagna del '14 il C. svolse un ruolo di primissimo piano a livello militare e politico. Nella fase preliminare, precedente allo sganciamento dall'Impero francese e al trattato con l'Austria che doveva assicurare al Murat il trono di Napoli - politica che ebbe il caloroso consenso del C. -, questi con la sua divisione "occupava" Roma, eccetto il Castel Sant'Angelo ove s'era ritirato il gen. Miollis, sin dalla fine del novembre 1813, assumendone anche il comando; procedette successivamente per Pesaro e Rimini, senza incontrare resistenza da parte degli alleati francesi pur dubbiosi degli intenti di Murat. Su ordine del re intanto intavolava trattative ufficiali col generale austriaco Nugent; cercava, senza troppa convinzione ed invano, di dissuadere il rientrante pontefice Pio VII dal proseguire il suo viaggio oltre Reggio e, dopo la battaglia tra Italici ed Austriaci sul Mincio, intavolava segrete trattative col gen. C. Zucchi (tentando anche di convincere il generale italico a passare al campo murattiano, secondo quanto questi narra nelle sue Memorie, a cura di N. Bianchi, Milano-Torino 1861, pp. 72-81). Nella fase più propriamente bellica, successiva alla ratifica austriaca del trattato, le truppe del C., insieme con gli Austriaci del Nugent, sotto il comando di Murat, sconfiggevano il 7 marzo 1814 a Ponte San Maurizio i numericamente inferiori Italici, e occupavano Reggio. Dopo un altro periodo di stasi, il 13 aprile Murat, il C. e Nugent sconfiggevano nell'ultima battaglia di quella campagna i numericamente soverchiati Franco-italiani, forzando il passaggio del fiume Taro a Borgo San Donnino e costringendo il nemico a ripiegare su Piacenza. A conclusione di questa campagna che aggiunse allori alla fama del C., questi venne nominato il 10 maggio comandante militare - e civile fino al marzo 1815 - dei dipartimenti marchigiani occupati dalle truppe napoletane (Tronto, Musone e Metauro), dei quali lo stesso C. auspicava fortemente l'annessione al Regno. In tale carica attuò una politica consona con questo fine, cercando di guadagnare al Murat le simpatie delle popolazioni, tra l'altro riducendo le tasse. Questa politica sembra avesse dato risultati positivi, benché la presenza, nei dipartimenti marchigiani, di 18.000 soldati napoletani suscitasse non poco scontento.
Prima di intraprendere la guerra contro l'Austria, nel 1815, Murat convocò il C. a Napoli: scarse e contraddittorie le fonti circa il suo atteggiamento in questo cruciale momento. Comunque anche in questa campagna, alla cui preparazione propagandistica egli diede un valido contributo, svolse un ruolo di primo piano. La notte del 28-29 marzo occupò Rimini; da questa città Murat il giorno successivo emanò il suo famoso appello agli Italiani, mentre il C. occupava Cesena, e il 4 aprile forzava il passaggio del Panaro presso Spilamberto e avanzava su Modena. Fallito il tentativo del gen. D'Ambrosio sul Po (Occhiobello) e iniziata, solo pochi giorni dopo l'intrapresa offensiva contro un nemico non ancora assestato, la marcia retrograda del deluso esercito napoletano pressato dagli Austriaci nel frattempo riorganizzatisi e rafforzatisi, anche la divisione Carrascosa, costretta a evacuare Carpi il 10 aprile dopo strenua resistenza del Pepe, retrocedette verso il litorale passando per Modena e Bologna. Infine la divisione Carrascosa si ritirò seguendo il litorale, più volte impegnata dagli Austriaci (dai quali ben due volte il C. si faceva sprprendere, a Cesenatico e a Pesaro, il 24 e il 28 aprile). Dal 1º maggio il C., dopo aver dovuto cedere Senigallia, riuscì nel compito di sbarrare la via di Iesi al Neipperg per impedirgli di congiungersi con il grosso delle forze austriache al comando del gen. Bianchi. Nel frattempo Murat perdeva la battaglia (e la guerra) a Tolentino (3 maggio), e la divisione Carrascosa raggiunse lo sconfitto esercito a Civitanova il 4 maggio. Forse fu errore del Murat privarsi di una divisione quale quella del C. al momento decisivo. Comunque non pochi furono gli errori dello stesso C. in questa campagna: la facilità con cui si faceva sorprendere da incursioni nemiche in città e il mancato invio di rinforzi decisivi a reparti della sua divisione ingaggiati in battaglia. In un esercito in disgregazione la divisione Carrascosa, che nella ritirata ne formava la retroguardia, era l'unica a mantenere, relativamente, compattezza e disciplina, e ancora il 15 maggio si batté bene a Castel di Sangro. Il 18 maggio lo sconfitto re nominava il C. comandante in capo dell'esercito, e lo incaricava delle trattative di pace. La convenzione di Casalanza del 20 maggio, che accoglieva le richieste di Murat in favore dei suoi sudditi e aggiungeva ulteriori garanzie volute dagli stessi vincitori, assicurava l'impunità a tutti i regnicoli, garantiva il debito pubblico e i beni dello Stato venduti, ecc., e soprattutto garantiva ai militari il mantenimento di gradi, onori e pensioni. Singolarmente non conteneva alcuna provvisione per l'infelice re (Metternich aveva previsto una ragguardevole pensione): i plenipotenziari napoletani, il C. e il Colletta, se ne erano dimenticati.
Nel successivo quinquennio il C. - allora ispettore generale di fanteria - pur sentendo acutamente la discriminazione che, anche nel rispetto formale della convenzione di Casalanza, colpiva i generali murattiani esclusi dai comandi più elevati riservati a stranieri e "siciliani" (coloro che avevano seguito il re in Sicilia), si tenne lontano dalle cospirazioni carbonare. Scoppiata la rivolta di Monteforte il C. venne investito dal re il 2 luglio 1820 dell'alterego e del comando interino della divisione di Avellino. Benché sin dal 3 luglio disponesse di forze superiori, il C. "stuck as resolutely to his pen as his sword did to its scabbard" (Johnston, II, p. 82). Infatti, mentre riusciva a preservare la compattezza della sua truppa, anche ricorrendo a ridicoli stratagemmi, il C. evitò accuratamente qualsiasi contatto o scontro con le forze costituzionali, limitandosi a "controllarne" i movimenti da lontano.
Il suo atteggiamento non è decifrabile con sicurezza: forse temeva che a contatto delle forze costituzionali anche le sue truppe avrebbero disertato; comunque preferì la più facile via delle trattative. Il C. sostenne sempre che, allorché il re aveva concesso la costituzione, egli aveva già concluso con successo le trattative con gli insorti, i cui leaders avevano accettato di deporre le armi ed espatriare in cambio di passaporti e denaro che il capitano generale Nugent stava appunto portando in loco. Forse egli sperava che, debellata in tal modo la ribellione (ma la sua versione è tuttora assai dubbia), il re avrebbe concesso qualche riforma e, soprattutto, avrebbe deposto la sua diffidenza nei confronti dei generali murattiani, dopo questa prova di fedeltà. Donde il profluvio di lettere che sin dallo inizio della sua missione si era abbattuto sul Nugent e sul re; ben conoscendo la codardia e la infingardaggine di Ferdinando I, allora, e fino alla fine del nonimestre costituzionale, prima e costante preoccupazione del C. fu di ottenere in ogni caso un ordine préalable, o perlomeno il consenso, del re, sia pur tramite terzi, comunque documentabile.
Dopo la concessione, il 6 luglio 1820, della costituzione di Spagna, il C. venne nominato lo stesso giorno capitano generale e membro della giunta provvisoria. La corte, le forze reazionarie e soprattutto i diplomatici stranieri (e probabilmente anche i militari più moderati) imposero poi il 9 luglio la sua nomina, invisa ai carbonari, a ministro della Guerra (e interinalmente anche della Marina, fino al 4 agosto), tra l'altro quale garanzia che essi esigevano dell'incolumità e sicurezza della famiglia reale. Il 14 ottobre, nel vivo dei contrasti che costantemente lo opposero a Guglielmo Pepe ed alle forze costituzionali, il C. si ritirò in campagna, ritornando al ministero soltanto dietro "ordine di S.M.", comunicatogli dal marchese Ruffo (cfr. Mémoires, pp. 199 s.). Nel periodo in cui resse il ministero (fino al 10 dicembre) il C., resistendo a tutte le pressioni fino al limite di rottura, ostacolò con ogni mezzo la politica di rafforzamento e riarmamento del Pepe e del Parlamento e, più genericamente, qualsiasi politica attiva. Sconfitto poi a livello legislativo, il C. cercava di vanificare le decisioni adottate in qualunque modo, lecito od illecito.
Così, per es., quando i congedati richiamati affluirono entusiasticamente a Napoli il C., che a questa legge si era opposto, cercò di demoralizzarli rifiutando loro cibo, uniformi e persino alloggi; vanificò i tentativi di acquistare armi all'estero, ecc. La sua condotta politica non è comunque riconducibile nell'ambito della politica moderata dei ministeriali ché, dietro a un'adesione apparente - alle volte fors'anche reale, come nel caso del tentato colpo di Stato ministeriale del 6 dicembre -, il C. perseguiva una politica molto più reazionaria, concordata per quanto possibile con gli ambienti più retrivi della corte. Conformemente egli affidò i più importanti comandi militari in Napoli a uomini di provata fede assolutista (Tassoni, al Castel Sant'Elmo "togliendone destramente Deconcili"; il fratello Raffaele, al Castel dell'Ovo; il gen. V. Escarnard) e salvò dallo scioglimento la reazionaria guardia reale (riuscendo perfino, con l'aiuto del re, a purgarla di elementi indesiderabili), mentre allontanava dalla capitale il gen. Rossaroll e reggimenti fedeli alla costituzione (per un corretto inquadramento di queste misure, e della sua attività anticarbonara, cfr. lettera del C. al gen. Frilli, in Arch. di Stato di Napoli, Arch. Borbone, b. 272, cc. 410-413, maggio 1821).Queste misure trovano riscontro, anche se abilmente collocate in un contesto politico assai vago e sfumato, nei Mémoires dello stesso Carrascosa. Non così invece un segretissimo tentativo operato dal marchese di Circello e dai ministri britannico e russo di imporre manu militari l'uscita dal Regno di Ferdinando I, affidandone al C. l'esecuzione materiale. Questo complotto è documentato da tre lettere del Circello al re datate dal 2 al 5 dic. 1820 ("Segreto, signore, e poi segreto, e più segreto…": ibid., b. 212, cc. 746-750r). Ferdinando I aveva ricevuto segretamente comunicazione dell'invito, rivoltogli dalle potenze riunite nel congresso di Troppau, di recarsi personalmente alla seconda sessione dello stesso a Lubiana, appositamente con 5 giorni di anticipo sui corrieri ufficiali, che giunsero a Napoli il 5 dicembre. In questo lasso di tempo i due succitati diplomatici e Circello tentarono di assicurare la partenza del re senza l'assenso del Parlamento e senza compromessi con i moderati, mediante un colpo di forza affidato al Carrascosa.
Il Circello esortava il re a "non esitare un momento di chiamarsi Carascosa, per sentire quali mezzi intende impiegare" per proteggerlo "sul camino che dovrà fare fino ai confini", e minacciava, anche a nome dei due diplomatici, "ben dispiacevoli conseguenze" in caso contrario. Quella del 5 dicembre è l'ultima lettera, per cui non sappiamo se, saltato il primo abboccamento per l'assenza del C. e le esitazioni del re, ebbe luogo il secondo, previsto per quel giorno immediatamente prima della visita dei due diplomatici. Evidentemente il re, la cui pusillanimità era proverbiale, e che inoltre diffidava del proprio esercito in genere e sommamente dei murattiani (benché "plusieurs lui avaient montré veritable attachement": Mémoires, p. 237), riuscì ad evitare questa impossibile prova di coraggio.
Ferdinando accolse immediatamente lo invito rivoltogli poi dai diplomatici delle tre potenze, e dichiarò nullo perché compiuto sotto costrizione qualsiasi altro suo atto: poté pertanto dare il proprio consenso a quel colpo di Stato cui diede avvio appunto il messaggio realministeriale che annunziava al Parlamento (8 dic.) la sua partenza incostituzionale, sospendendo contemporaneamente costituzione e Parlamento e formulando vaghe promesse politiche nelle quali il C. intravedeva "tout ce qui peut, à peu près, assurer les franchises d'un peuple".
è probabile che il C., che a differenza degli altri ministeriali e dello stesso Francesco duca di Calabria ("più profondo segreto con S.A.R." aveva raccomandato il Circello) aveva qualche sentore delle vere intenzioni del re e delle potenze, subdorasse sin da allora l'inganno dei diplomatici ch'egli adombrerà come ipotesi nei suoi Mémoires.Seppur con fini diversi, tutti recitarono il copione della inesistente promessa francese di mediazione: i diplomatici per far uscire il re dal Regno, i ministeriali per mutare in senso moderato costituzione e politica.
Il C., attivissimo, sembrava deciso ad effettuare il suo "neuf thermidor" per "renverser les anarchistes" (cfr. Mémoires, pp. 234-37, 240). Egli contava soprattutto su un reggimento in Castel Novo e sulla guardia reale; aveva inoltre predisposto vistose opere di difesa intorno al palazzo reale e nel cortile, con otto cannoni. Ma tutto questo apparato - già insicuro perché poggiava in primo luogo sulle forze più reazionarie che diffidavano dei murattiani - fu reso inutile dal grande dispiegamento di forze carbonare affluite la sera del 7 dicembre dalle province, e il giorno successivo il C., vista la mala parata - oppure anche perché abbandonato dalla guardia reale o per ordine del sovrano - rinunziò all'impresa.
Mentre il re "accettava" le condizioni del Parlamento e successivamente si imbarcava su nave britannica, il C. fu coinvolto nella caduta dei ministri responsabili dell'incostituzionale messaggio regio. Pochi giorni dopo (12-15 dicembre) l'apposita commissione parlamentare che doveva decidere circa l'eventuale incriminazione dei ministri lo dichiarò "fuori accusa": troppo delicata la situazione interna ed estera e difficili gli equilibri tra carboneria e ministeriali e soprattutto nello stesso esercito.
Il C. si ritirò in campagna, donde ritornò solo il 12 febbr. 1821 per assumere, su ordine espresso del duca di Calabria ora reggente del Regno, il comando del Iº corpo (quattro divisioni: circa 17-18.000 uomini, 1.400 cavalli, 36 cannoni, inoltre 7.000 tra militi e legionari) che tra Garigliano e Volturno doveva opporsi all'esercito austriaco che si avvicinava. Inviso ai carbonari e ai costituzionali in genere, il C. era l'esponente più autorevole dell'alta ufficialità moderata e conservatrice murattiana, che in effetti si raccolse tutta intorno a lui, desiderosa soltanto di porre fine all'esperimento costituzionale salvando allo stesso tempo onore e carriera. E questo fu quanto il C. cercò di fare, promettendo agli ufficiali - se lo avessero seguito - ancora il 15 marzo "de ne point les exposer, et de sauver leur honneur et leurs interèts" (Mémoires, p. 373).
Un'attenta lettura della lettera al re dei generali riuniti a Mignano (6 marzo 1821: prima della sconfitta del Pepe e dei suoi ufficiali "traditori"), e di quella successiva, esplicativa dello stesso C. al ministro britannico A'Court (13 marzo: ambedue in Moscati, Regno, II, pp. 46 s. nota, la prima in francese, la seconda in italiano), rivela compiutamente la linea adottata. I generali del Iº corpo - dimentichi forse delle loro origini - "se tenant toujours dans la ligne de l'obéissance passive qui est le premier des devoirs pour des militaires honnêtes" hanno accettato passivamente, pur "en gémissant", per dovere, la "soi-disante constitution" (in realtà "anarchie masquée") promulgata dal re, com'anche poi, "essendoci assicurati con li nostri occhi delle intenzioni" del re "in una sua lettera autografa, siamo corsi ad opporci ad una aggressione straniera". Circolano ora proclami del re che contraddicono questi ordini; l'esercito è pronto a ristabilire l'ordine (questa volta con sincero entusiasmo), purtuttavia occorre che il C. sia posto in grado di "conoscere le vere ed ultime intenzioni di S.M., sicuro che… il nostro Re vorrebbe salvare l'onore della sua armata di linea". Ché, se gli Austriaci non si arrestano ove sono, l'esercito sarebbe disonorato: "Questo è il solo sacrificio che non possiamo fare". Questa condizione, che il C. ben sapeva inaccettabile per il re e per gli Austriaci, era proponibile solo fin tanto che l'esercito rimaneva "intatto".
In effetti perciò, mentre gli Austriaci, rassicurati sin dall'inizio sulle reali intenzioni dei generali del Iº corpo, dirigevano il grosso delle loro forze contro il Pepe (lo sconfiggeranno il 7 marzo a Rieti), il C. veniva artatamente provocando lo sbandamento dello esercito. I militi e legionari fedeli, armati (pochi) e disarmati, vennero relegati a Santa Maria Capua Vetere; mentre fu stipulato quello ch'egli definirà una "etrange convention" con la guardia reale, autorizzata a concentrarsi in un sol luogo e a non battersi contro gli Austriaci (infatti il 18 marzo passerà al nemico a Montecassino). Mentre non venivano apprestate le difese né mantenuti i collegamenti col IIº corpo, veniva data ampia diffusione ai proclami regi che ordinavano di accogliere gli Austriaci come liberatori, e la diserzione organizzata e imposta dall'alto raggiungeva vette di perfezione incredibili; dopo averne dato allarmata comunicazione al Parlamento, il C. provvide poi a bloccare direttamente a Napoli i militi e i volontari che anche dopo la sconfitta del Pepe affluivano numerosi, invitandoli a disertare - se questa era la loro intenzione - immediatamente, senza darsi "l'incomodo" di recarsi al campo (10 marzo; cfr. Mémoires, pp.332 s.). Quella stessa "carboneria" accusata di tutti i mali nell'esercito era infine null'altro che una pseudocarboneria di agents provocateurs creata dall'alto per compiere opera di sobillazione, com'era già stato fatto, dal C. ed altri, nella città di Napoli (cfr. ibid., p. 128).
Le vicende del Iº corpo, ritiratosi dopo la sconfitta del Pepe dietro il Volturno, si conclusero con una capitolazione ugualmente emblematica. Incaricato dal reggente di salvare il salvabile nelle trattative con gli Austriaci, il C. diede invece istruzioni al D'Ambrosio di perdere tempo in modo da poter ricevere le istruzioni del re, ossia degli Austriaci stessi.
La storia ricorderà, sulla scia della amara delusione dei coevi ammiratori del regime costituzionale napoletano, l'ignominiosa fuga dei Napoletani, dimenticando spesso le più gravi e sostanziali responsabilità di uomini come il C., pur ben note a molti tra coloro che vissero quelle ultime vicende del nonimestre costituzionale (cfr. Memorie del duca di Gallo [M. Mastrulli], a cura di B. Maresca, Napoli 1886, p. 237: "i primi generali, … si concertarono di operare in modo che le loro truppe si sbandassero da sé medesime"; e Beiträge zur Geschichte der Revolution in Naepel…, a cura di G. Hagnauer, in Historische Zeitschrift, XXII[1869], pp. 30 ss., 40 ss., 53 s., vivido resoconto dell'ufficiale volontario tedesco Stahl, che propose al reggente di far fucilare il C. come traditore).
Il C., il quale sicuramente aveva ricevuto qualche assicurazione circa la sorte sua e dei suoi collaboratori, di certo dal gen. Koller, tornò a Napoli confidando nel fatto che il re aveva "une si parfaite connaissance" della "regolarité de ma conduite", com'egli scrisse allo stesso Ferdinando il 15 maggio (Mémoires, p. 456).Da parte governativa tutto fu messo in opera per far fuggire il C. che invece era deciso ad affrontare il processo con tutto l'enorme dossier, inparte anche trafugato, estremamente compromettente per il re, e che la polizia invano cercò nelle sue case di Napoli e Capodimonte. Infine un farsesco tentativo d'arresto, compiuto dopo che era stata accertata la sua assenza, lo convinse a imbarcarsi per Malta il 19 maggio 1821. Ma le continue angherie del governo napoletano lo indussero ad allontanarsi vieppiù; partì per Londra il 1º luglio 1822 (vi giunse il 25 settembre). Qui sfidò a duello, il 5 febbr. 1823, Guglielmo Pepe per quanto aveva scritto sul suo ruolo nelle ultime vicende (ma al C. che affermava che "giammai però avrei cospirato contro" la costituzione spagnola non "analoga" al Regno, "perché il cospirare non rientra ne' miei principj" il Pepe ricordava che già nel '14 avevano cospirato insieme: cfr. Moscati, Pepe, I, p. 288). Il duello svoltosi in due luoghi e tempi diversi (20 e 28 febbraio) venne vinto al primissimo sangue dal Pepe, che tra le proteste del Santarosa suo secondo e del C. non volle continuare.
Anche il C. volle fornire la propria versione degli avvenimenti, pubblicando a Londra nel 1823 i suoi Mémoires historiques, politiques et militaires, sur la révolution du Royaume de Naples, en 1820 et 1821,et sur les causes qui l'ont amenée; accompagnés de pièces justificatives, la plupart inédites, successivamente tradotti anche in tedesco (Stuttgart 1824). Ad una attenta lettura questi risultano più rivelatori e veritieri nell'esposizione dei fatti di quanto le false premesse farebbero supporre, pur tra sfumature ed equilibrismi necessari contemporaneamente a giustificarlo presso i costituzionalisti moderati (una Charte alquanto annacquata) e a dimostrare la sua assoluta fedeltà al re.
Condannato a morte in contumacia nel processo per i fatti di Monteforte il 24 genn. 1823 (cfr. Atto di accusa a carico degli assenti…, Napoli 1823, e Decisioni della Gran Corte Speciale di Napoli… nella causa… di Monteforte, ibid. 1823), in cui era stato l'unico a osare una difesa, ridotta al solo avv. La Cecilia che balbettò poche parole, il C. perseguì con incredibile tenacia il miraggio di un nuovo processo che riabilitasse lui e l'alta ufficialità murattiana.
Finalmente, dopo la morte di re Ferdinando I, la sua richiesta "di essere giudicato contraddittoriamente e di persona" dinanzi a un "tribunale imparziale" venne accolta nel '26, e il C. concordò il suo rientro a Napoli, arresto e processo, con la legazione a Parigi. Si recò a tal uopo a Malta, ma all'ultimo momento, spaventato da decreti che compromettevano la sua situazione emanati ad hoc da ministri che ne temevano le rivelazioni, decise di non rimpatriare (cfr. supplica e memoriale in data 28 nov. 1831, Arch. Borbone 919, cc.334-394; anche bb. 7173 cc. 631-35 e 713, cc. 283 s., disposizioni per l'arresto in data 26 ag. 1826). Più che altro, il governo sembrava interessato ai documenti in suo possesso, che il C. rifiutava di specificare.
Continuò a vivere a Londra, frequentando, a quanto pare, il circolo rossettiano (secondo E. R. Vincent, G. Rossetti in England, Oxford 1936, p. 67, fu amico di Gabriele Rossetti e padrino di battesimo di William Michael). Non poté però fruire dell'amnistia concessa nel 1832 a causa del suo matrimonio con una protestante, Elisabeth Walker (aveva sposato in prime nozze Giovanna Du Puis). Rientrò a Napoli nel '48, e venne reintegrato nel suo grado e nominato alla Camera dei pari (24 giugno). Qualche rara voce volle allora opporre il suo nome a quello di G. Pepe per il comando del corpo di spedizione in Alta Italia, e sembrò farsa.
Il C. morì il 10 maggio 1852 a Napoli.
Il fratello Raffaele(nato il 29 dic. 1779 e morto il 23apr. 1866), spesso confuso con il C. di cui seguì le orme nella carriera militare, si distinse poi per la fedeltà alla dinastia, specie il giorno del 15 maggio 1848, che lo vide sempre al fianco del re: seguì, il 16, la nomina a ministro dei Lavori pubblici, poi alla Camera dei pari, e un'onorificenza. Nell'agonia del Regno, ebbe anche ad assumere, il 7 sett. 1859, la presidenza del Consiglio dei ministri; si oppose fino all'ultimo nel '60, nel Consiglio di Stato, a qualsiasi concessione di riforma.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Napoli, Archivio Borbone (cfr. Arch. di Stato di Napoli, Archivio Borbone, Inventario sommario, I, a cura di J. Mazzoleni, Roma 1961, ad Indicem per i molti docc., soprattutto lettere e memor. dello stesso C.);cfr. inoltre Atti del Parlam. delle Due Sicilie 1820-1821, a cura di A.Alberti, Bologna 1926-31, ad Ind., e R. Moscati, Il Regno delle Due Sicilie e l'Austria. Docum. dal marzo 1821 al nov. 1830, II, Napoli 1937, ad Indicem.Del tutto inadeguata l'unica biogr., P.Schierini, Uno dei dimenticati. Il gen. M. C., Roma 1912. Alla scarsità delle fonti relative al periodo precedente il 1814 (il C., il cuinome troppo spesso viene tuttora erroneamente scritto Carascosa, è spesso confuso con omonimi di grado inferiore) suppliscela dovizia di fonti per il periodo successivo. Qui si segnalano solo alcune delle più importanti, tutte corredate di ricchissime bibliografie: Memorie di un generale della Repubblica e dell'Impero, Francesco Pignatelli principe di Strongoli, a cura di N. Cortese, Bari 1927, I, pp. CXXXV-CXLIII, CCXLI n. 1; II, ad Indicem; La condanna e l'esilio di P. Colletta, a cura di N. Cortese, Roma 1938, pp. IX, XII n. 1, XX-XXXI e adIndicem;R. Moscati, Guglielmo Pepe, I, Roma 1938, pp. XXVIII, LXXV-CI passim e ad Indicem (cuisi rinvia anche per la bibliogr. di tutti gli scritti essenziali del Pepe); L. Blanch, Scritti storici, I, Il Regno di Napoli dal 1801 al 1806 e la campagna del Murat nel 1815, a cura di B. Croce, Bari 1945, ad Indicem;P.Colletta, Storia del Reame di Napoli, a cura di N. Cortese, II-III, Napoli 1957, ad Indicem (III, pp.352 ss.: biogr. del C.). Per le polemiche suscitate dai Mémoires del C., oltre quelle del Pepe (la prima pubblicata a Parigi nel '23, Deux mots de réponse…, cfr. Moscati, cit.), vedi, dall'altra sponda, Risposta del gen.[V.] Nunziante all'ex generale Carascosa…, Napoli 1824. Per i giudizi positivi dei suoi superiori francesi cfr. Mémoires du Géneral [A.] Bigarré, Paris 1893, pp. 207, 220 s., e [L.] Gouvion Saint-Cyr, Journal des opérations de l'armée de Catalogne, Paris 1821, pp.122, 125. Cfr. inoltre M. H. Weil, Le prince Eugène et Murat, 1813-1814…, Paris 1902, ad Indices, e Joachim Murat roi de Naples. La dernière année de règne, Paris 1909, ad Indices;R. M. Johnston, The Napoleonic Empire in Southern Italy and the Rise of the Secret Societies, London 1904, ad Indicem;J. Rambaud, Naples sous Joseph Bonaparte, 1806-1808, Paris 1911, pp.285 s.; V. Castaldo, Un siciliano governatore delle Marche (M.C.), in Arch. stor. per la Sicilia Orient., XXVIII (1932), pp. 122-44; P. Pieri, Storia milit. del Risorgimento, Torino 1962, ad Indicem;S.Mastellone, Il generale C.: un notabile in esilio, in Studi in mem. di N. Cortese, Roma 1976, pp. 311-21 (l'interpretazione politico-ideologica del C. nei Mémoires ricalca quella del Blanch; in effetti lo stesso C. aveva chiesto al Blanch di scrivere la "storia verace" degli ultimi avvenimenti: cfr. lettera del 22 marzo 1821 in Museo centr. d. Risorgimento, b. 546, f. 33 [1]).