COLOMBO, Michele
Nacque il 5 apr. 1747 a Campo di Pietra, frazione di Salgareda (Treviso), da lacopo e da Francesca Carbonere. Educato inizialmente dal sacerdote del villaggio, gli si presentò presto l'occasione di avviarsi alla lettura dei classici italiani.
La sua preferenza andò subito ai prosatori e si vennero delineando in lui sin dai primi anni un deciso interesse per gli studi di lingua e una propensione per un modello di prosa semplice, non "numerosa", quale ritrovava appunto in Segneri, Salvini, Redi, Dati, Magalotti, e tra i moderni Zanotti, Manfredi e Gaspare Gozzi. A determinare la vocazione linguistica dovette contribuire moltissimo la frequentazione del compendio del vocabolario della Crusca di Apostolo Zeno, ma nel carattere delle sue scelte già si rifletteva l'indirizzo del moderno purismo: diffidente verso l'eloquenza del Boccaccio, ammiratore della spontaneità e grazia dei trecentisti, ma anche dell'arte dei cinquecentisti, apprezzava la disinvoltura dei contemporanei, purché a quei modelli si richiamassero.
Nel 1764, o forse un anno prima (egli stesso si contraddice nelle sue memorie), si avviò alla carriera ecclesiastica, entrando nel vicino seminario di Ceneda, dove seguì il regolare corso degli studi, finché fu ordinato sacerdote. Negli studi di retorica ebbe maestro l'abate Giannandrea. Caliari, un vicentino proveniente dal seminario di Padova, di cui conservò un grato ricordo per il metodo liberale da lui adottato, mentre avvertì insofferenza per la logica, la metafisica, soprattutto per l'aridità e l'inutilità, a suo parere, dell'argomentazione formale, e limitato interesse per la teologia. Nel seminario di Ceneda strinse un'affettuosa amicizia con Lorenzo Da Ponte, il quale ricorda nelle sue Memorie alcune gustose vicende di quella vita comune: al Da Ponte, stabilitosi a Nevi York, il C. inviava ancora, poco prima di morire, un sonetto sugli acciacchi della sua vecchiaia, rinnovando la consuetudine della loro giovinezza.
Dopo la vestizione e una breve dimora nella casa paterna, il C. iniziò la sua attività di precettore nella stessa Ceneda, presso il conte Folco Lioni, che gli affidò l'istruzione dei suoi cinque figli. Fu la necessità di far fronte a questo impegno che lo spinse a cimentarsi anche con le materie scientifiche e a contrarre una particolare passione per la geometria, l'algebra, la fisica, l'analisi, e in particolare per gli studi biologici, che coltivò attraverso l'osservazione microscopica. Dopo undici anni, intorno al 1779, passò nella casa del conte Pietro Caronelli, a Conegliano, per istruirne l'unico figlio, di sette anni: compito difficile, data rindole del discepolo, col quale egli applicò tutta la sua intelligenza pedagogica. Tuttavia, poiché con il passare degli anni l'allievo mostrava segni inequivocabili di pazzia, il C. si sentì costretto a fingere gravi motivi di salute per sottrarsi all'incarico, riuscendo ad allontanarsi prima che la tragedia sconvolgesse la famiglia del conte (il quale nel 1861 verrà ucciso dal giovane, finito poi in manicomio). A Conegliano il C. partecipò alle sedute dell'Accademia degli Aspiranti, come risulta da versi burleschi rimasti inediti in un volume autografo delle sue rime. In quella occasione usò lo pseudonimo di Agnol Piccione, che anche in seguito figura come l'autore di alcuni suoi scritti scherzosi. Nello stesso periodo si sviluppò la sua passione scientifica: nel 1786 fu stampata una sua lettera intorno ad alcune specie di animalini acquatici nel tomo V del Giornale per servire alla storia ragionata della medicina edito a Venezia, e l'esperienza del microscopio, fatta appunto durante tale ricerca, gli permetteva di avanzare alcune proposte per il miglioramento dello strumento, comunicate in tre lettere al p. Giambattista da San Martino, il quale pare ne tenesse poi conto nel suoi esperimenti.
Il C. continuò l'opera di precettore a Venezia presso Giovan Battista da Riva, che seguì anche nei tre anni in cui il geritiluomo risiedette a Padova, eletto podestà e capitano della Repubblica. E come a Venezia conobbe Carlo Gozzi, Angelo Dalmistro, Canova e soprattutto il celebre naturalista Lazzaro Spallanzani, col quale ebbe modo di discutere delle comuni esperienze scientifiche, così a Padova entrò in contatto col "Gabinetto di lettura", un club frequentato anche da Melchiorre Cesarotti. Ma godé soprattutto dell'amicizia con l'abate Pietrantonio Meneghelli, che fu poi professore di belle lettere a Vicenza. Doveva essere ancora a Venezia nel marzo 1796, quando entrò in Italia l'esercito francese: in quella occasione scrisse un sonetto alla burchiellesca, poi rifiutato. Nell'agosto fu chiamato a Parma per ammaestrare Giovanni Bonaventura Porta, col quale visse il resto della vita, seguendolo per oltre vent'anni nei suoi numerosi viaggi. L'affezione che portò al giovane gli farà rifiutare poi ogni altra offerta di lavoro.
Inizia nel 1798 l'epoca più proficua del C., sia per la molteplicità delle esperienze culturali sia per la produzione letteraria. Visitando Firenze conobbe il canonico Bandini, l'abate Fontani, Giovan Battista Baldelli, ed ebbe l'occasione di visitare l'Alfieri in seguito ad una curiosa circostanza che indusse eccezionalmente il poeta a riceverlo. Frequentò il conte D'Elci, possessore di una preziosa biblioteca di classici. Dopo aver visitato le città della Toscana, Camaldoli e gli altri celebri santuari, tornò col Porta a Parma per allontanarsene l'anno seguente (1799) alla volta di Brescia e Bergamo. Frattanto, mentre istruiva attraverso la diretta osservazione il discepolo, durante i viaggi arricchiva le sue collezioni di minerali e di stampe in rame di maestri moderni.
Nell'anno 1800 il C. col discepolo riprese la serie dei viaggi fermandosi a Milano, a Torino, e passando nella Francia meridionale, quindi in Spagna e di nuovo in Francia, a Parigi, nel 1801; vi si trovarono quando giunse Ludovico di Borbone, principe di Parma, nominato re d'Etruria. Tornarono quindi in Spagna, sostando a Lione, dove il C. s'incontrò ripetutamente in conversazioni letterarie con alcuni dotti, deputati per la Repubblica italiana, ivi convenuti per i Comizi, e a Marsiglia. Visitata Barcellona, patria del padre del Porta, e Madrid, tornarono a Barcellona nell'ottobre del 1802 e quindi a Parigi, dove si trattennero sei mesi. Partirono quindi alla volta dell'Inghilterra assieme al Baldelli, ma il C. non seguì i compagni, costretto a rimanere a Londra per le sofferenze che gli comportava il viaggio, e si affrettò a tornare in Francia quando Napoleone dichiarò guerra agli Inglesi e chiudeva i porti di Boulogne e Calais (1803). A Parigi ebbe la compagnia del conte Filippo Linati e si dilettò a frequentare le pubbliche vendite di cospicue librerie, accrescendo la sua non grande ma preziosa biblioteca. Tornato a Parma, dove il discepolo lo raggiunse, vi si tratterrà fino al 1816, con alcune brevi puntate nella sua terra nel 1807, a Venezia nel 1814.
Nel 1811 collaborò al Giornale del Taro, compilato dal Pezzana, con gustosi articoli burleschi per i quali si tentò di metterlo in cattiva luce presso il regime francese. A questi stessi anni risale le sua prima opera d'impegno teorico e didattico, dove si manifestò l'ormai lunga esperienza di lettore, di cultore della lingua e di educatore: il Catalogo di alcune opere attinenti alle scienze, alle arti ed ad altri bisogni dell'uomo, le quali quantunque non citate nel vocabolario, della Crusca, meritano per conto della lingua qualche considerazione siallinea nel senso della proposta montiana, pur senza alcun esplicito riferimento, individuando nella chiusura dei cultori della lingua entro gli stretti confini delle belle lettere la ragione della crisi di queste ultime abbandonate da parte di molti ingegni. In tre lezioni aggiunte al Catalogo indicava la chiarezza, la forza e la grazia quali doti essenziali di una "colta favella".
Il libro, pubblicato nel 1812 a Milano dalla tipografia Mussi, riscuoteva un largo consenso di pubblico e meriterà la corona nel concorso indetto dall'Accademia della Crusca nel 1817. Fra il 1812 e il 184 fu pubblicato a Parma (stamperia Blanchon) un Decameròn con note dei C., il quale si dedicherà ancora, negli ultimi anni della vita, ad annotare l'opera boccaccesca per un editore fiorentino, il Passigli.
Nel 1816, ancora col Porta, il C. si recò a visitare le province orientali e settentrionali del Veneto. Nel 1817 era di nuovo a Parma. Li lo raggiunse la nomina a socio onorario dell'ateneo di Treviso e a socio corrispondente della Crusca. In corrispondenza con A. Cesari, che lo incitava, si schermiva dall'intraprendere un lavoro di più ampio respiro, non sentendosi sufficientemente preparato. In quell'anno il Porta sposò Elena Bulgarini rimanendo vedovo dopo solo due anni; il C. lamentò la sventurata perdita in un elogio della Bulgarini, tracciando attraverso il profilo di lei un modello ideale di educazione femminile. Nel 1819 raggiunse a Roma il discepolo, il quale vi si era recato per trovare sollievo al dolore. Durante questo soggiomo romano il C. ebbe amico Guglielmo Manzi, bibliotecario della Barberina; questi aveva dedicato nel 1815 al C. il volgarizzamento del Convito di Luciano e ora, donandogli un prezioso volume, la traduzione del libro secondo dell'Eneide daparte di G.A. dell'Anguillara, gli offriva l'occasione di darne una nuova edizione con notizie sull'autore (Parma 1824). Terminata la lunga serie di viaggi fra il '19 e il '20, il C. rimase a Parma nella casa del Porta, godendo di una lunga vecchiaia in una discreta agiatezza, quantunque amareggiata da acciacchi.
In questi anni continuò a esercitare il suo estro di garbato stilista in argomenti leggeri, come la traduzione di un trattatello inglese sul gioco degli scacchi (Parma 1821), che ebbe una certa fortuna editoriale, e in scritti scherzosi come novelle arieggianti la maniera antica e i temi della narrativa tre-cinquecentesca; ma in una quantità di opuscoli discusse questioni letterarie, filologiche, recensì libri e raccolse notizie erudite. Sviluppò inoltre la sua teoria della lingua e soprattutto dell'educazione linguistica, ampliando e precisando le osservazioni contenute nelle prime, lezioni, e tenendo sempre fede ad un tipo di discorso piano, consapevolmente didattico, in cui la destinazione ai giovani viene garbatamente affettata.
La pubblicazione dei suoi numerosi interventi fu dovuta anche alla collaborazione di un editore parmense, Giuseppe Paganino, che nel 1824 iniziò la stampa degli scritti del, C., protrattasi fino al 1837 (anno in cui apparve il quinto volume), accogliendo quanto via via l'autore andava scrivendo.
Nella lezione Del modo di maggiormente arricchire la lingua senza guastarne la purità, pubblicata nel primo volume, il C. respingeva la norma di attenersi ai soli trecentisti, sostenendo la necessità di tener conto della modificazione avvenuta nel modo di pensare dei moderni, e del perfezionamento dovuto ai secoli successivi, e specialmente al Cinquecento.
Il riconoscimento della matrice fiorentina della lingua italiana si inseriva dunque in una visione dalla quale erano esclusi gli estremismi e alla quale rimase sostanzialmente fissata la teoria del Colombo. Successivamente, nel 1830 affrontava in un'altra lezione (pubblicata nel volume terzo, parte seconda, edito nel 1831), il tema della "proprietà" e tornava in un'altra "diceria" sul tema della "purezza" della lingua (scrivendone al Dalmistro nel dicembre del 1830, polemizzava contro la denominazione dispregiativa di "purismo" e rifletteva sul valore modesto delle sue lezioni).
Collaborò anche ad alcune edizioni di ciassici, come la Gerusalemme liberata, uscita a, Firenze nel 1824 con confronto criticodelle varianti di edizioni precedenti, e Le cento novelle antiche, che furono edite a Milano nel 1825 con una sua prefazione. L'interesse rivolto dal Colombo a quest'opera si inserisce nella sua ammirazione. per la semplicità antica della lingua italiana secondo le prospettive del purismo: in un esemplare dell'opera aggiungeva più tardi un acuto confronto tra il Boccaccio e il Novellino a proposito della novella del re di Cipro, dove viene ripreso il tema della ridondanza della prosa boccaccesca.
Al 1825 risale la lezione Sopra ciò che compete all'intelletto e alla immaginativa (pubblicata a Parma, per G. Paganino, con la data del 1824, ma la promessa porta la data del 7 apr. 1825) che ricalca i motivi critici settecenteschi quali l'entusiasmo come fondamento della fantasia del poeta e l'evidenza e la ragione quali suoi necessari freni. Ma il discorso mirava a inserirsi nel recente dibattito sulla mitologia e a dissolverlo ragionevolmente, mostrando come avesse pur un senso simbolico e metaforico la mitologia, di cui si proclamava l'inconsistenza, e ribadendo la distinzione tra le due sfere dell'intelletto e della fantasia.
L'atteggiamento schivo che il C. mantenne nei confronti della grossa polemica che agitava il mondo letterario si rivela in un bizzarro scritto del 1826, un "ghiribizzo" appunto, che polemizza ironicamente contro la repubblica dei letterati per le inutili e artificiose contese, attraverso una presunta relazione sulla fantomatica Repubblica dei Cadmiti attribuita ad Angelo Piccione. In una nota esplicativa dell'allegoria, il C., nelle vesti del figlio dei presunto autore, manifestava, sempre nella chiave burlesca da lui scelta, il risentimento per l'incontentabilità dei critici, e ironizzava sulla moderna narrativa francese mista di tragico e di patetico. La recensione apparsa nell'ottobre dello stesso anno sulla Biblioteca italiana, non negativa, ma critica nei confronti dei modo indiretto e ironico usato dallo scrittore, suggerì al C. di affrontare il discorso Intornoalle discordie letterarie d'oggidì, in una lezione (pubblicata a Parma nel 1827), che risolve il problema del- contrasto tra classici e romantici in termini di costume, condannando l'abuso delle polemiche letterarie, succedute ad un'antica presunta concordia costruttiva, che sarebbe finita con la generazione dei Boccalini, Bettinelli, Baretti, e l'estremismo generalmente perseguito dalle due scuole nell'imitazione come nel rifiuto dei classici: all'indicazione di esempi sommi di equilibrio, quali Metastasio e Parini, seguiva la critica del romanticismo, non per quello che esso innovava sul piano dei generi, ma per il sovvertimento del gusto e dei nativo carattere della letteratura italiana e per l'inopportunità di introdurre da noi un tipo di immaginativa propria dell'ambiente nordico. Più tardi, nel 1837, in una lettera a Domenico Olivieri, polemizzerà contro i moderni stampatori e contro la moda del romanzo storico, mentre sull'opera del Manzoni, in questo stesso anno, esprimerà un eccellente giudizio, premettendo una breve prefazione alla ristampa parmense del Fiaccadori.
Nel 1829 fu colto da una grave malattia che lo costrinse ad astenersi a lungo dal lavoro, ma nel 1830 proseguiva il discorso sulle doti di una colta favella con la trattazione della "proprietà." (Intorno al favellare e scrivere con proprietà), sviluppando la parte relativa all'uso dei vocaboli, alla costruzione verbale, alla collocazione delle parole; nel pubblicarla, nel 1830 a Parma, avvertiva di aver ripercorso, quantunque ad un più umile livello didattico, l'argomento di una lezione del 1821 di G. B. Niccolini, pubblicata nel 1829, ma che egli non aveva potuto leggere a causa di quella forzata inattività. La Biblioteca italiana (giugno 1830) accolse favorevolmente lo scritto del Colombo.
Morì à Parma nel.giugno del 1838, dopo essere stato già quasi in fin di vita nel novembre del 1835.
Fonti e Bibl.: Alcuni Ricordi del C., scritti nell'anno 1824, e quindi alcuni più ampi Cenni, scritti nei primi mesi del 1838 e rimasti manoscritti presso il Porta, furono utilizzati da A. Pezzana, il quale compose la voce per la Biografia di E. De Tipaldo (VI, Venezia 1838, pp. 97-118) e ne ampliò in parte il testo in Alquanti cenni intorno alla vita di M.C., Parma 1838, pp. 4-49, cui segue (pp. 51-60) un catalogo delle opere edite e inedite del Colombo. Ai Cenni sirifanno F. Maestri, Elogio di M. C., premesso alle Lettere raccolte dal Pezzana, Bologna 1851 (pp. XI-XXXVII; esso ricalca la biografia del Pezzana). Per le Memorie diL. Da Ponte (Nuova Jorca 1823) cfr. l'ed. a cura di G. Gambarin - F. Nicolini, Bari 1918, I, pp. 6-9, 261; II, pp. 68, 95, 124. Le lettere furono in gran parte raccolte dal Pezzana, cit. Parte di quelle dirette ad A. Dalmistro furono pubbl. da P.A. Paravia (con dedica al Pezzana), Torino 1839. Un'altra a D. Francesconi è inclusa fra le Lettere inedite d'illustri italiani, pubblicate da F. Federici, Padova 1838; altre sono fra Alcuni scritti inediti di M. Colombo, per cura di G. G. Mistrali, Parma 1851 (introdotti da una ristampa della biografia dei Pezzana). Degli inediti elencati dal Pezzana, oltre a quelli inclusi nell'opera testé citata, furono pubblicati Due casi inverisimili ma veri fra le Novellette dell'ab . M. Colombo, Livorno 1868, da una copia fatta sull'autografo dal Pezzana eposseduta da F. Zambrini. Cfr. inoltre: G. Mazzoni, L'Ottocento, Milano 1949, I, pp. 95, 111 s., 365, 653; G. Natali, Il Settecento, Milano 1950, 1, pp. 594; II, pp. 696, 761; e soprattutto M. Vitale, La questione della lingua, Palermo 1978, pp. 402 s., 516 ss., e ad Indicem.