MICHELE de Cuneo
MICHELE de Cuneo. – Nacque a Savona poco prima del marzo 1448 da Corrado e da Mariola (forse Scarella) in un’importante e ricca famiglia di uomini d’affari della città, proveniente con ogni probabilità dalla vicina Cunio (non Cuneo), ma già presente in città nel Trecento.
La famiglia, composta di armatori e capitani marittimi, imprenditori, uomini politici e diplomatici, grandi proprietari immobiliari impegnati anche in attività creditizie, conduceva le sue galee in tutta l’area mediterranea e oltre. Il nonno di M., a sua volta di nome Michele, era draperius, viaggiò nel Mediterraneo e fu ambasciatore a Milano e a Genova; oltre alle due figlie Mattea e Bartolomea, ebbe Corrado, Agostino, Francesco, Giacomo, Giovanni, tutti impegnati nelle stesse attività paterne e con cariche importanti nel Comune di Savona. A quel tempo i matrimoni dei membri della famiglia avvenivano all’interno dell’aristocrazia mercantile, soprattutto locale, secondo una prassi secolare che riconduce alle ferree regole dell’ambito aziendale-familiare, tipico dei Liguri in ogni parte del mondo. Ciò ne legava quindi interessi e destini a quelli di potenti clan, tra i quali quelli dei Della Rovere e dei Centurione, famiglie importanti anche nella vicenda colombiana. Nel 1471 Corrado entrò a far parte del Consiglio degli anziani. Tra 1446 e 1482, con sue e altrui navi, navigava da Chio al Maghreb, dai principali porti della penisola iberica alle Fiandre e all’Inghilterra. Proprietario di palazzi, botteghe e terreni in varie parti di Savona e nei dintorni, nell’agosto 1474 vendette case e terre in Valcada di Legino a Domenico Colombo, padre di Cristoforo, lanaiolo e taverniere, trasferitosi con la famiglia a Savona già nel marzo 1470. Morì nel 1483. Oltre a M. ebbe Sebastiano, Clara e Giacomina.
Decine di documenti negli archivi savonesi trattano di M., di cui si conoscono il nome della moglie, Orietta Bernissone, e l’esistenza di figli naturali. Nel 1471 M. costruì una nave in società; nel 1473 fu emancipato dal padre; inserito nella rete familiare allargata, sovente al comando di navi,
appare sempre immerso in traffici, che spaziano dal panno allo zucchero, al grano, ai fili d’oro, ma era attivo anche nel credito e negli investimenti immobiliari in case, terre, «volte» e mulini in Val Bormida. Nel 1485 vendette una casa a due soci, di cui uno era il tessitore Manfrino Pancaldo, padre di Leone, compagno di F. Magellano. Nel 1489 divenne publicus extimator civitatis et communis Saone.
I de Cuneo rappresentavano gli imprenditori-protettori di riferimento di gruppi artigianali; non è dunque un caso che, pur risiedendo sempre a Savona, M. se ne allontanasse in alcuni periodi, come capitò appunto tra il 29 marzo 1493 e il 1495. Come è noto, Cristoforo Colombo tornò dal primo viaggio nel marzo 1493 e ripartì, insieme con M., da Cadice il 25 settembre. Il fatto non stupisce. Tra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento, Genovesi e Savonesi contavano molto sul piano internazionale. Erano magnati, potenti cardinali e papi.
Il secondo viaggio di Colombo iniziò a Cadice il 25 sett. 1493. Questa volta non si trattava solo di una nao e di due caravelle. La flotta era composta di 17 vascelli; non compaiono più soltanto i nomi di Colombo e di Francesco Pinelli a garantire gli interessi genovesi, e l’ammiraglio aveva portato con sé un certo numero di conterranei tra i quali, appunto, Michele de Cuneo. Il 15 ott. 1495 M. decise finalmente di accontentare Gerolamo Aimari (e non Annari come finora detto), che il 26 settembre gli aveva chiesto notizie su un suo recente viaggio, dal quale era tornato nella primavera. I due dovevano incontrarsi, ma l’incontro poi non avvenne. Ancorché avesse lasciato tutti i suoi appunti a Nizza, il 15 ottobre M. si mise a scrivere. Il 28 la sua relazione era conclusa. Nasce così la lettera-relazione che, riportata nel «Manoscritto Nero» (ms. 4075) della Biblioteca dell’Istituto di scienze dell’Università di Bologna – e scoperta nel 1885 da Olindo Guerrini (alias Lorenzo Stecchetti) – è a tutt’oggi considerata una delle più importanti testimonianze relative alla vicenda colombiana.
Aimari, buon amico di Bartolomeo Colombo, il fratello che accompagnò Cristoforo in tutte le sue vicende, non era il solo a volerne sapere di più. Un comprensibile interesse agitava l’Europa da quando C. Colombo era tornato dal primo viaggio che, a sentir lui, lo aveva condotto fino al più lontano Oriente per una rotta occidentale. Anche se il «diario» di quel viaggio era ormai secretato negli archivi della Corona castigliana, l’ammiraglio – uomo attento alla comunicazione e all’immagine – aveva anticipato la diffusione dei risultati fondamentali, sicché c’era fermento tra diplomatici e uomini d’affari, che, a loro volta, dettero vita a un’intensa campagna di informazione. Non era più il solo Portogallo a inseguire il progetto che, da due secoli, grazie alla feconda collaborazione tra Genovesi e Portoghesi, aveva condotto Bartolomeu Dias oltre il Capo Tormentoso, ribattezzato Capo di Buona Speranza. L’azzardo colombiano che, sostenuto dalla Corona castigliana, scuoteva gli assetti politici, ampliava e scompigliava tutti i giochi, faceva parte di una storia di lunga durata, in cui Genovesi e Liguri avevano preceduto l’altra gente del Mediterraneo, mettendo a profitto risorse umane e competenze, e operando decise scelte di mercato «occidentali» da collegare in un’ampia rete operativa con l’area levantina. È evidente che C. Colombo poteva operare senza Genova, ma non senza Genovesi e Liguri; non senza la loro protezione e i loro capitali, soprattutto nell’area iberica. La Spagna pullulava di Genovesi e Liguri; e c’era qualcosa di vero in ciò che i francescani scrivevano dalla Hispaniola al futuro cardinale (1507) Francisco Ximénes Cisneros, affermando che C. Colombo e i suoi si comportavano «come faraoni»: in verità la rete genovese e ligure era assai estesa.
Spirito acuto e scanzonato, M. osservava il mondo senza paura, sicché sapeva illustrare perfettamente le difficoltà incontrate nel corso di un viaggio in zone sconosciute. Era un osservatore attento, che non faceva mistero di quello che pensava, né di quello che faceva e vedeva fare, descrivendo tutto con ricchezza di particolari. Per esempio nel racconto dei travagli subiti dai 500 uomini che accompagnarono Colombo nella spedizione al Cibao (dall’ammiraglio ostinatamente identificato con il Cipango) scrive che tutti erano «non troppo bene in ordine de panni. E nel ditto viaggio tra l’andare, il stare e il ritornare, stetimo iorni 29 cum pessimi tempi e mal mangiare e pegio bevere» anche se «per la cupidità del ditto oro tutti stavamo forti e gagliardi». E succede lo stesso quando, giunti a «uno arcipelago de mare bianco» toccarono finalmente terra e «presimo refrescamento del quale molto bisognavamo, perché eravamo stati giorni XII a gotto [bicchiere] uno de aqua, solum cum di quel pane della rape anteditte» cioè la manioca, di cui parla diffusamente in precedenza. «Mentre durava, la compagna [la cambusa] cum chiodi era chiavata, per comportarli pane che era poco, del quale poco inanti per le fortune se ne era bagnato cantara circa XV le quali butassimo in mare; pur alcune volte, quando ne davano, non era che oncie VIII [poco più di 200 gr] il dì per omo, e se non fusse stata la grande quantità de li pesci, a mal porto eravimo gionti».
Fedele amico di Colombo, scherza apertamente sulle debolezze amorose dell’ammiraglio, che, appena arrivato alla Gomera, si esibì in una serie di «triumfi e tiri di bombarde e lanzafochi […] a cagione de la signora del ditto loco, de la quale fu alias il nostro armirante tinto de amore». Sottolinea anche la sua ben nota prudenza; per esempio quando, onde evitare smentite sul previsto ritrovamento del Catai decise che l’abate di Lucena, «omo scientissimo e richissimo», che lo contestava apertamente, non tornasse in Spagna con lui perché se «domandato di parere de la maestà del Re, non causasse cum la sua risposta che ditto Re non abbandonasse la intrapresa». Per questo fece giurare ai suoi uomini che Cuba era terraferma («alla quale pretesa la più parte de nui altri se acordavamo»). Però M. preferisce non scrivere delle eventuali, spaventose punizioni previste.
Peggiorava di giorno in giorno il rapporto dell’ammiraglio con gli Spagnoli e fu lui stesso a scriverne ai re. Pure M., quando parla di loro, prende le distanze affermando che i loro sogni di grandezza sono eccessivi e che tutte le occasioni sono buone per prevaricare o tradire. È vero che dall’altra parte – frati compresi – ci si lamentava dell’avidità dei Genovesi. Colombo diceva che gli Spagnoli credevano che l’oro spuntasse sugli alberi e M. rincalzava: «mentre Spagna sarà Spagna, non mancheranno traditori». Dominava la crudeltà: scoperti in mercimoni segreti con gli Indios, i colpevoli erano frustati, e puniti con il taglio delle orecchie e del naso. In questa remota plaga era venuto meno il tradizionale buon rapporto tra Genovesi e Castigliani: quando ci si ritrovava invischiati in vicende di questo genere, il tono cambiava ed emergevano ostilità «nazionali» pesanti, anche se il fronte si ricomponeva negli scontri con gli indigeni. Infine per nulla pietose, per non dire indifferenti, sono le parole di M. nel raccontare il rinvenimento dei cadaveri degli uomini lasciati al fortino della Navidad nel primo viaggio e ritrovati senza occhi; o le espressioni adoperate a proposito dei 200 uomini, non ancora rientrati da un’esplorazione e forse uccisi e mangiati dai cannibali.
M., proveniente da una società di mercanti di schiavi, lui stesso lo è come Colombo. In effetti, se si analizzano le sue parole, il senso è chiaro. Anche per la cultura europea del tempo come per molte altre, lo schiavo non è una persona, ma una cosa, una merce come un’altra. In questo senso gli Europei appaiono agli indigeni come i tanto deprecati cannibali che, sia pure per usi rituali, si cibano di loro. Dunque se Colombo gli regala una bella schiava e questa non vuole subire la sua violenza, M. la frusta finché non è soddisfatto dal suo comportamento, tale che «nel facto parea amaestrata a la scola de bagasse». Gli Indios, già tormentati dai cannibali, di cui M. descrive ampiamente abitudini e sistemi, sono obbligati a fughe disperate; le madri abbandonano i piccoli, i cacicchi prigionieri si mordono disperatamente le caviglie per sciogliere i lacci che li trattengono. Delle migliaia di schiavi presi, moltissimi, per esplicita affermazione di M., si ammalano e molti muoiono durante il viaggio di ritorno.
Comunque l’oro non si trova o se ne trova poco e questo peggiora la situazione, anche se sono tornate dalla Spagna quattro caravelle con cibo, medicine e altri sostegni. Si scoprono invece altre isole. M. colma di preziosi dettagli il racconto del suo viaggio, nel corso del quale, se non si trova l’oro, s’incontrano però sempre nuove terre. Traspare a questo punto dalla lettera la profondità del suo legame con Colombo; parole che sono, come ha sottolineato giustamente Heers, una delle prove decisive dell’origine genovese dell’ammiraglio.
Infatti C. Colombo, che preferiva fare affidamento solo sui parenti, soprattutto sull’«adelantado» Bartolomeo, il suo alter ego, fece una sola eccezione. Quando M. avvistò per primo un capo con un bel porto, l’ammiraglio «pose nome el cavo de San Michele Saonese per mio rispetto, e così notò nel suo libro». Comparve poi «un’isola bellissima sopra uno cavo non troppo longinqua, la quale etiam io fui il primo a discoprire, la quale gira leghe XXV in circa, et etiam per mio amore a ella el signor armirante pose nome la Bella Saonese, e me ne fece uno presente; e sotto li modi e forme convenienti, di ella presi la possessione, come faceva el ditto signor armirante de le altre in persona de la maestà del re: videlicet io per virtù de istrumento di notario publico. Sopra la ditta isola eradicai erba e tagliai arbori e piantai la croce e ancor le forche, e a nome di Dio la batizai per nome la Bella Saonese. E bene si può chiamar bella, perché li sono suso casali XXXVII cum anime ad minus XXX mila; e tutto questo nottò etiam nel suo libro il ditto signor armirante». Dunque M. è la sola persona alla quale Colombo cede una «signoria» coloniale. Un catalano, un corso o un provenzale, sostiene Heers con chiara allusione ad altre presunte origini dell’ammiraglio, mai avrebbe battezzato «Saona» quell’isola. D’altra parte M. lo ricambia di uguale amicizia. Scrive infatti: «ma una cosa voglio io ben sapiate, che al mio poco vedere, poi che Genoa è Genoa, non è nato uno homo tanto magnanimo et acuto del facto del navicare como il dicto signor armirante, per ciò che navicando, solum a vedere una nuvola o una stella di nocte, iudicava quello dovea sequire, et se essere dovea mal tempo, lui proprio comandava et staxeva al temone, et poi che la fortuna era passata, lui alzava le velle, et li altri dormiano».
Si giunge ora alla parte sostanziale della lettera, degna di ben altra attenzione di quella dedicata a una semplice relazione di viaggio. La collocazione seriale di cui finora ha fatto parte non ne ha favorito una lettura utile a considerarla per ciò che veramente è. Si tratta infatti di un testo da porre nell’ambito prestigioso delle «pratiche di mercatura», settore di cui fa parte per forma e per contenuto.
In quest’ambito la lettera-relazione di M. spicca per la tipologia e la qualità delle notizie, messe a sistema in una fruttuosa combinazione tra ciò che si sa del Vecchio Mondo e ciò che si viene a conoscere del Nuovo. Infatti, il testo della lettera è complesso. M. non si limita a stendere un elenco di piante e animali o a descrivere località e genti. Ci mette qualcosa di più. Per chi vede le cose dal punto di vista di M. o del suo interlocutore – vale a dire non solo attraverso la lente dei comportamenti legati alla conquista – ma in funzione del mercato (vero scopo del suo viaggio), la colonizzazione assume una sfumatura peculiare. Il sistema dei Liguri, infatti, è ben diverso – se non altro negli scopi – da quello castigliano; il modo di considerare le cose di M. è affine a quello di Colombo, attento soprattutto a preservarsi un monopolio nell’ambito dei traffici. Nel comportamento dei due liguri si rilegge l’antica formula genovese, mista di guerra e commercio, nell’ambito della quale l’insediamento diretto, costoso e difficile da salvaguardare, viene assunto solo quando sia strettamente necessario. M. sfodera toni orgogliosi quando parla della sua isola, ma di fatto dedica a questa faccenda poche righe, dimostrandosi assai più interessato al rendimento concreto delle «scoperte» poiché guarda alla nuova realtà con gli occhi di chi sa come riconoscerne i valori in ambito mercantile e sa anche come memorizzarli. Si tratta di un sistema di scrittura ben rappresentato in tutte culture mercantili: nell’araba, nella cinese e, in ambito mediterraneo, in area veneziana e fiorentina. La stesura delle notizie segue, infatti, uno schema abbastanza regolare. La tela di fondo è costituita dal viaggio, del quale si indicano l’itinerario o gli itinerari, le località di qualche interesse incontrate, i mercati o i porti, con le relative distanze e difficoltà; si sottolineano le peculiarità del paesaggio e dell’ambiente, l’esistenza di acque e tutti i dati utili a chiunque si interessi al movimento commerciale più che alla colonizzazione e all’emigrazione.
Alle notizie di carattere ambientale segue la parte più succosa del testo, dove tutto ciò che è descritto nella lunga e ricca sezione centrale appare inserito in un ampio panorama valutativo. Delle piante incontrate si segnala innanzitutto la fruibilità merceologica in ambito alimentare, farmaceutico o artigianale. M. proviene da una famiglia di larga esperienza e opera facilmente gli opportuni raffronti con i prodotti del Vecchio Mondo.
L’esame è condotto in profondità. Non si tratta solo di catalogare i prodotti locali – sui quali molto si è scritto – segnalandone le caratteristiche e cercando di ribattezzarli con nomi familiari. Colombo ha introdotto in questa nuova realtà animali e sementi. Il prezzemolo cresce bene; e così anche il melone d’aprile, i cocomeri, le zucche e i rafani. Rendono poco invece cipolle, porri, lattuga, insalata, frumento, ceci e fave. Galline, cani e gatti hanno prolificato abbondantemente, mentre un andamento più lento ha la crescita del numero di bovini, equini e ovini. M. completa le sue informazioni aggiungendo anche un lungo elenco di varietà ornitologiche e marine (settore nel quale rivela una notevolissima competenza).
Aggiunge infine una descrizione delle gente incontrata: individui di piccola statura, glabri e di pelle ulivigna «a modo de quelli de Canaria»; gente che ha testa piatta e volto «atartarato». Si diffonde a lungo a descriverne la vita e gli usi alimentari: secondo lui si nutrono perfino di bestie «velenose», di cani e di serpenti (le iguane), che tengono legati come «gatti maimoni» cioè come scimmie e «quando incapano ne li grosissimi, sonno mangiati da loro». Cannibali e indiani, benché vivano lontani gli uni dagli altri in aree vastissime, parlano tutti una stessa lingua; ma i cannibali mangiano gli altri «como noi li capreti, e dicono che la carne del garzone è assai migliore di quella de la femina». Usano pietre taglienti come coltelli, con cui fanno canoe e armi che usano insieme con «archi molto grossi, de facione de archi inglesi». Tutto è costruito con erbe e legni fortissimi, ornato da piume «de ale de pappagalli». Descrive anche i locali usi religiosi, precisando che ha visto belle statue «che parevano la Pietà». Le abitudini sessuali sono libere. La gente, che non sa nulla di Dio e del diavolo, va in giro nuda; «non sono gilosi e al parer mio sono freda gente, non troppo libidinosi, la qual cosa forse li procede perché mangiano male». Hanno vita breve e probabilmente non superano i cinquant’anni.
Un hidalgo o un physicus come il dottor D.A. Chanca, medico della flotta di Colombo che raccoglie notizie sullo stesso viaggio (1493-94), non potrebbero fornire gli stessi dati. Di fatto la lettera-relazione di M. rivela che, in un quadro complessivamente dominato dalle costanti ombre del «benedetto oro», si aggira un uomo d’affari curioso e capace; un uomo che ha forgiato la sua cultura alla maniera mercantile, imparando bene a leggere, scrivere e a far di conto e completando il suo tirocinio in diverse esperienze legate all’ambito genovese, al quale ha aggiunto l’apprendistato di chi, girando qua e là per il mondo conosciuto, ha compulsato attentamente i manuali a disposizione per conoscere, almeno approssimativamente, le diverse realtà. Testi non genovesi, dato che il sistema informativo locale è legato soprattutto alla cultura familiare, ma certamente veneziani o toscani. Colombo conosce e cita il «Devisement dou monde» ovvero Il Milione; ne nutre le sue ossessioni e postilla accuratamente la copia inviatagli dal corrispondente inglese John Day. Forse anche M. lo ha sottomano, oppure ha con sé qualche «pratica» fiorentina o veneziana o altro ancora.
Si è detto finora che, gelosi del loro sistema e delle loro conoscenze, i Genovesi non hanno mai prodotto nulla di somigliante a una «pratica di mercatura». La lettera di M. smonta questa teoria, offrendoci al tempo stesso due certezze: Colombo è genovese; i poco loquaci Liguri scrivono solo se si trovano di fronte a vere novità. Infatti il marinaio Colombo e l’uomo d’affari M. memorizzano ciò che incontrano, ma lo fanno restando fedeli all’abituale riservatezza di un sistema antico, che privilegia sempre e comunque il «privato», soprattutto in presenza di informazioni «uniche».
M. morì prima del 1503, probabilmente a Savona.
La lettera di M. è stata esaminata e pubblicata ripetutamente e, in ultimo, da G. Airaldi - L. Formisano, La scoperta nelle relazioni sincrone degli Italiani, Roma 1996, pp. 169- 200.
Fonti e Bibl.: J. Gil - C. Varela, Cartas de particulares a Colón y relaciones coetáneas, Madrid 1994, pp. 237-239; J. Heers, Cristoforo Colombo, Milano 1983, ad ind.; G. Airaldi, La «Bella Saonese», in Studi in memoria di Teofilo Ossian De Negri, II, Genova 1986, pp. 81-84; Id., La violenza della storia e l’immagine del mondo, in L’età dei Della Rovere, II, Savona 1989, pp. 137-146; A. Nuñez Jiménez, M. da C. nel Nuovo Mondo, a cura di G. Rebora, Savona 1994, pp. 145-156; G. Milazzo, M. da C. e l’isola di Saona, Savona 1995 (con nuova documentazione d’archivio); L’isola regalata. Cronache caraibiche antiche e moderne, Milano 2002; Id., Dall’Eurasia al Nuovo Mondo. Una storia italiana (sec. XI-sec. XVI), Genova 2007, pp. 117-133.
G. Airaldi