DELLA TORRE, Michele
Nacque a Udine nel 1511 da Luigi di Niccolò dei conti di Valsassina e signori di Villalta, famiglia di antica nobiltà discendente dai signori di Milano del XIII secolo, e da Taddea di Girolamo Strassoldo. Nello stesso anno della sua nascita, il padre fu ucciso nel corso della strage del giovedì grasso. Per un privilegio di Carlo V del 1533 ebbe il titolo comitale, dignità cavalleresca, e facoltà di creare notai e giudici ordinari e di legittimare figli illegittimi.
Si recò giovanissimo alla corte romana, dove grazie ai suoi titoli e ai suoi meriti si guadagnò la stima di Paolo III, che lo fece referendario di entrambe le Segnature. Il 30 luglio 1543 divenne cameriere e scalco segreto del pontefice e nel 1547 vescovo di Ceneda (l'attuale Vittorio Veneto), della quale ebbe anche la signoria. Fu quindi scelto quale nunzio per la Francia (dove il padre aveva combattuto per Carlo VIII).
La sua nunziatura presentò diversi problemi: fu la prima nunziatura francese nella quale furono delimitati compiti, retribuzione e seguito dei nunzio, la cui posizione in Francia non era stata regolata dal concordato di Boulogne del 1516, quando la nunziatura non era ancora una istituzione fissa. Il D. non fu un negoziatore politico, ma semmai un informatore, che doveva anche negoziare questioni di minore importanza; in compenso poté trattare, al contrario dei suoi successori, dello stato della Chiesa francese.
In realtà il D. aveva le mani legate e doveva praticamente rendere conto delle sue azioni al cardinale di Guisa, che proprio in quell'anno si era recato a Roma nel quadro dell'alleanza fra i Farnese e i reali di Francìa sancita per il momento dal fidanzamento di Orazio Famese e Diana di Francia, figlia naturale di Enrico II. Il D. doveva continuamente chiedere consiglio al Guisa, ritenuto a Roma una sorta di primate della Chiesa francese. Al D. non rimase che interessarsi del possibile invio di prelati francesi in Italia per la riapertura del concilio, cercare notizie sulla situazione inglese e scozzese, tentare di impedire gli abusi nelle nomine vescovili e nelle concessioni di abbazie. Riuscì a farsi benvolere a corte, ma la sua influenza rimase praticamente nulla e, quando il pontefice volle intensificare i rapporti con la casa dì Francia, inviò il D. a trattare direttamente con il Guisa. Sappiamo poco dell'ultimo periodo della nunziatura: le lettere del D. sono andate distrutte in un incendio.Alla morte di Paolo III il D. rimase ancora in Francia per un breve tempo; fu infine richiamato il 19 ag. 1550. Tornato in Italia risiedette per un anno a Udine, dove divenne decano dei capitolo della cattedrale, prima di spostarsi a Trento, dove assisté al concilio dal'l'11 ott. 1551 al 22 apr. 1552.
Nel frattempo il D. compì, secondo alcune fonti, un nuovo viaggio in Francia per ottenere al generale dei domenicani, Francesco Romeo, il permesso di visitare quel regno. Tornò infine a Roma, dove continuava a godere dell'appoggio papale: tanto è vero che, nel 1551, Giulio III aveva ordinato ai vescovi veneti e ai nunzi apostolici di non intromettersi nell'amministrazione di Ceneda e negli anni successivi gli "rivalidò" anche quelle grazie a quegli -indulti che erano stati revocati agli altri prelati. A Roma fu scelto quale prefetto dei Palazzi pontifici e quindi nominato vicedelegato di Perugia, dove si trasferì dal 15 sett. 1553 al 31 maggio 1555. Di nuovo a Roma, fu eletto maggiordomo di Paolo IV, ma si sa ben poco della sua attività negli anni successivi.
Nel 1561 era di nuovo a Trento: anche delle sue attività tridentine conosciamo ben poco, ma abbiamo un singolare documento del suo pensiero e delle sue amicizie in quel periodo. Nel 1579 Paolo Paruta raccolse un "ragionamento tridentino": una cena seguita da dotta discussione, cui parteciparono il D., alcuni ambasciatori veneti, Giovanni Grimani, patriarca di Aquileia, e il suo futuro successore Daniele Barbaro, Filippo Mocenigo arcivescovo di Cipro, Domenico Boloni vescovo di Torcello, il legato apostolico Agostino Valerio e alcuni nobili veneti, fra i quali Francesco Molino, che avrebbe raccontato l'episodio al Paruta. Essendo frutto di seconda mano e soprattutto scritto molti anni dopo, il "ragionamento" del Paruta non deve essere preso alla lettera, ma può dare un'idea di come il D. era considerato. Nel corso della cena il D. avrebbe parlato poco evitando inutili sfoggi umanistici (non abbiamo per altro notizia dei suoi studi e dei suoi interessi culturali, a parte due madrigali a Federico Zuccari di non sicura attribuzione). Durante la discussione sul corso della vita umana avrebbe affermato che la vita delle corti è noiosa, perché l'"uomo civile" (cioè l'uomo con responsabilità pubbliche) vive in una continua schiavitù rìnfocolata dall'ambìzìone, non sapendo che la felicità non è di questa terra. Compito dell'uomo magnanimo -è controllare le proprie passioni e disprezzare i beni della fortuna, perché l'onore conferito dagli uomini è nullo e l'essere ritenuti nobili è vanità, mentre il vero rimedio ai mali della vita è la morte, davanti alla quale il ricco e il povero sono eguali. Soltanto "la virtù porta sempre seco il suo vero premio": la vera libertà è assecondare i doni divini mantenendosi "poveri" di desideri. Questo ritratto, tratteggiato dal Paruta, troverebbe conferma in alcuni giudizi dei contemporanei: il D. sarebbe stato un uomo "savio" e forse "santo", purtroppo non versato nell'arte della diplomazia: di qui le sue difficoltà.
Il 7 apr. 1566 il D. fu nuovamente inviato in Francia da Pio V: anche di questa sua seconda nunziatura non si sa molto: le sue lettere sono andate perdute e di quelle speditegli soltanto cinque si sono salvate.
Il D. doveva convincere Carlo IX della necessità di aiutare il Papato nella difesa degli interessi della Chiesa cattolica e soprattutto della necessità morale di obbligare i sudditi all'osservanza della vera fede. Doveva inoltre indurre la monarchia e la Chiesa francese all'osservanza dei decreti tridentini: controllare il reclutamento del clero, spingere il re a conformarsi alle regole del concilio per la distribuzione dei benefici, spingere i vescovi a risiedere nelle loro diocesi. Il D. conobbe le sue istruzioni il giorno prima di partire, quando erano già state annunciate al re di Francia tramite il suo ambasciatore. L'accoglienza francese fu molto fredda nonostante numerose lettere di raccomandazione. L'unica richiesta immediatamente accettata fu quella relativa all'obbligo di residenza per i vescovi.
Il D. dovette inoltre affrontare lo scandalo del cardinale Odet de Chátillon, deposto per eresia, che continuava a portare la porpora nonostante avesse contratto matrimonio: il nunzio non riuscì ad avere immediata soddisfazione, anche perche '1 cardinale era parente dei Montmorency. Alla fine del 1566 vi furono gravi tensioni fra la Francia e la Spagna e Carlo IX assoldò 6.000 svizzeri: il D. approvò questa mossa e fu richiamato all'ordine dal papa, che desiderava invece la nascita di una grande lega cattolica basata sull'alleanza francospagnola.
Nel frattempo il papa temeva che i rapporti fra gli ugonotti e Caterina de' Medici si andassero stringendo e invitava il D. ad intervenire, ma il D. non riuscì neanche a procurarsi le informazioni richieste, anche perché si era inimicato i Famese e Guisa. Il 12 ag. 1568 fu infine richiamato.
Probabilmente il D. cadde in uno stato di sernidisgrazia per il suo fallimento: se, negli anni precedenti la sua nunziatura, era stato considerato fra i possibili futuri cardinali, dal 1571 al 1583 si dovette ritirare in una specie di esilio nella sua diocesi, dove sino allora non aveva mai messo piede. Questo ritiro a Ceneda fu anche motivato dalla difficile situazione di quella signoria contesa al Papato da Venezia a partire dal 1569. Nella diocesi il D. dette impulso alle riforme tridentine, curò vari problemi urbanistici, pacificò gli animi dei cittadini, sistemò la cattedrale. La sua condotta gli valse numerosi apprezzamenti e nel 1583 fu infine fatto cardinale da Gregorio XIII: stranamente fu cardinale prete senza alcun titolo.
La nomina cardinalizia fu occasione di grandi festeggiamenti a Ceneda, Udine e Venezia: il D. ricevette le congratulazioni di messi di Enrico III di Francia, di Stefano Báthory, re di Polonia e della Repubblica veneta, che gli riconobbe infine 30.000 fiorini depositati dai suoi antenati nelle Casse dei monti di Venezia. Le sue amicizie, la fama della sua severa amministrazione di Ceneda e della sua "santità" gli valsero anche diversi voti al conclave nel quale fu eletto Sisto V: è tuttavia in discussione se egli abbia partecipato di persona a questo conclave.
Morì il 21 febbr. 1586 a Ceneda (ma secondo alcuni a Roma, dove si sarebbe attardato dopo il conclave).
Fonti e Bibl.: P. Paruta, Della perfettione della vita politica, Venetia 1579, passim; F. Zuccari, Scritti d'arte, a cura di D. Heikamp, Firenze 1961, p. 8; Corresp. des nonces en France. Dandino, D. et Trivultio (1546-1551), a cura di J. Lestocquoy, Rome-Paris 1962, ad Ind.; Nunziature di Venezia, V-VI, a cura di F. Gaeta, VIII-IX, a cura di A. Stella, Roma 1963-1972, ad Indices; V. Botteon, Un documento prezioso riguardo alle origini del vescovado di Ceneda, Conegliano 1907, pp. 181 s.; Ch. Kirschauer, La politique de S. Pie V en France (1566-1572), Paris 1922, ad Indicem; L. von Pastor, Storia dei papi, VIII, Roma 1924, pp. 337-46; J. Lestocquoy, La nonciature apost. et l'Eglise de France de 1535 à 1610, in Revue d'histoire de l'Eglise de France, LIV (1968), pp. 315-24; G. Moroni, Diz. di erudizione storico-ecclesiastica, LXXVII, pp. 301 s.; H. Biaudet, Les nonciatures apostoliques permanentes jusqu'en 1648, Helsinki 1910, p. 286; C. Eubel, Hierarchia catholica..., III, Monasterii 1923, pp. 47, 162.