DOLFIN, Michele (Micheletto)
Nacque quasi certamente a Venezia in data non accertabile, probabilmente nel secondo decennio del 1300, dal patrizio Pietro del ramo di S. Giustina. Non sembra possibile definire chiaramente l'inizio della carriera politica del D., non solo per l'esistenza coeva di omonimi, uno dei quali abitante ai Ss. Apostoli, quanto per l'intrecciarsi di indicazioni contrastanti.
Il Cappellari Vivaro afferma che il D. "giovinetto" si era comportato con grande eroismo nel corso dell'assedio di Treviso nel 1356, combattendo in un corpo a corpo con un valoroso capitano ungherese e riportandone famosa vittoria, e che Giovanni Dolfin, appena eletto doge, gli aveva consegnato la città prima di rientrare a Venezia. Tali episodi - ripresi anche dai testi stampati nel nostro secolo - non sono confermati dalle cronache né dalla biografia del doge Giovanni Dolfin, ma non se ne può escludere drasticamente la veridicità.
Anche l'inizio documentato del cursus del D. sembrerebbe attagliarsi già ad un uomo fatto. Se al tempo della congiura di Marin Faliero (1355) il D. è membro del Consiglio dei dieci - il che presuppone, stando alle leggi di quel periodo, che egli avesse compiuto almeno i 30 anni - non lo si sarebbe potuto chiamare "giovanetto" soltanto un anno dopo. Intorno alla metà del secolo, quindi, le cariche devono essere attribuite al nome, piuttosto che all'individuo. Non si può infatti escludere l'ipotesi dell'esistenza di un omonimo, sempre del ramo di S. Giustina, di età più matura.
Non sembrerebbero infatti appartenere ad una stessa persona la nomina, nel 1350, di ambasciatore al papa per cercare una pacificazione con Genova e quella, a distanza di un anno, di ufficiale alle Beccarie. E forse un po' troppo veloce appare il passaggio di un medesimo individuo dalla Quarantia, nel 1353, a capo del Consiglio dei dieci nel 1355. Nel gennaio del 1362 un Michele Dolfin fu tra i testimoni del pagamento di 400 ducati che la Repubblica versò, a titolo di donativo, al conte di Wartstein e alle sue truppe tedesche, per i servigi resi rispettivamente come capitano e soldati di ventura al soldo di Venezia contro gli Ungheresi. La cerimonia fu ufficiale e solenne: il danaro venne contato dal notaio Nicolò da Camino sull'altare di S. Giacomo nella chiesa di S. Marco, alla presenza di cittadini e abitanti della città.
Nel 1362 e per i tre anni seguenti il D. venne eletto al Consiglio dei pregadi; tra 1365 e 1367 diventò membro della Quarantia. Fu nell'autunno del 1368 che egli rivelò la sua personalità bellicosa, che negli anni successivi dimostrò in forme assai più congrue. Nottetempo, m casa sua si era introdotto per una finestra Pietro Condulmer "cognoscendo carnaliter per virn quamdam Rubeani sclavain", come è detto nel linguaggio burocratico della Quarantia. Questo tribunale, nel caso specifico, era chiamato a giudicare non l'affronto, che seguiva altre vie giudiziarie, ma la reazione focosa del D., che "enormiter percussit" il fedifrago amico.
Nel luglio 1372 il D. fu membro della zonta del Consiglio dei dieci eletta allo scopo di aumentare il controllo in città, subito dopo l'immediata e cruenta esecuzione di alcuni agenti di Francesco da Carrara che avevano ucciso alcuni veneziani. A partire da questo periodo, gli incarichi politici cedono largo spazio alle imprese guerresche: alla metà dei dicembre del 1372, mentre gli Ungheresi si spingevano verso Padova, il D. comandò l'armata di "ganzaroli", due "galeote" provenienti da Candia, un buon numero di arcieri, e molte altre barche con un carico di balestrieri.
Con queste forze il D. si accinse alla conquista della "Torre del corame" presso l'attuale Oriago, giudicata quasi inespugnabile. L'impresa viene riportata dalle cronache con abbondanza di particolari: ciascuna "galeota" era munita di due alberi che sopravanzavano la torre; da questi alberi, con mangani e altri sistemi, si lanciavano proietti dall'alto. Il capitano della torre, riporta il Caroldo, "fu ferito da una alla de muro che fu ruinata dalli mangani" (c. 358v). Antonio Lovo, accorso da Padova con molti balestrieri in aiuto della torre, dovette rinunciare a dar man forte per la reazione vigorosa delle truppe veneziane. La notizia dell'impresa fu accolta a Venezia con gran dimostrazione di gioia. Poco dopo, lasciata la torre munita di opportuna difesa, il D. si cimentò nel tentativo, non altrettanto fortunato, di conquistare la "bastita della Lova" soggetta ai Padovani, partendo con 60 tra "ganzaroli", burchi e barche. Gli uomun di rinforzo, giunti da Venezia per mezzo di fuste e barche armate, smontati a terra ingaggiarono una battaglia contro la guardia della "bastita" comandata da Francesco da Lion. Lo scontro si rivelò aspro e sanguinoso per entrambe le parti. Qui il D. sembra essere stato fatto prigioniero, portato a Padova e custodito nella casa del parmigiano Rolando Piacentini, vicario del signore da Carrara.
Nella primavera del 1378 il D. venne eletto provveditore in Istria, insieme con Giovanni Memo il Grande e Donato Zen e nel settembre 1378 sopracomito (con Michele Steno, Pietro Gradenigo - capitano -, Marino Cappello e Zanin da Vidor) di una delle cinque nuove galee, armate in soli quindici giorni, che il 14 settembre, insieme con una sesta galea proveniente da Candia e guidata da Enrico Dandolo, partirono per congiungersi alla flotta antigenovese comandata da Vettor Pisani. Nel tragitto incrociarono tre galee genovesi che in precedenza avevano inferto seri danni a navigli veneziani, e le inseguirono fino a quando vennero raggiunti dal Pisani, con il quale navigarono poi verso Zara per salvaguardare la città dalle mire dei Genovesi. Giunti in Istria, conquistarono Sebenico e Traù. Dopo la tremenda rotta veneziana seguita alla battaglia delle Brioni del 6 (o 5) maggio 1379, il D. fu tra coloro che armarono le sei galee (con Franceschino dalle Boccole, Giovanni Barbo, Piero Querini, Nicolò Zen e Alvise Dandolo) partite il 10 giugno successivo per raggiungere la flotta comandata da Carlo Zen. Daniele Chinazzo riferisce che proprio a uno scrivano di queste sei galee si deve la cronaca di tutte le vicende occorse da Venezia sino a Tenedo.
Nello stesso anno risulta allibrato per 2.000 ducati - una cifra piuttosto modesta - un Michele Dolfin da S. Antonin, parrocchia assai vicina a S. Giustina. Anche in questo caso non ci sono elementi sufficienti a stabilire se si tratti di un omonimo.
Nel gennaio 1380 il D. fu a capo di una delle due galee (l'altra fu comandata da Giovanni Miani) poste da Carlo Zen alla guardia di Brondolo, mentre incombeva il pericolo di un imminente attacco nemico. La difesa dava buoni frutti: la galea del Miani riusci a dare l'allarme e consenti di avvertire iI Pisani. Il 30 luglio dello stesso anno parti da Venezia la grande armata di 47 galee di cui era capitano Vettor Pisani. Il D. fu uno degli armatori di queste navi che, oltre ai balestrieri, erano dotate di 15 uomini "armadi - riporta il Chinazzo - in fin su le ongie di pie de tute arme" (c. 142r). Già il 3 agosto giunse notizia a Venezia, tramite una lettera del Pisani alla Signoria, di un'altra impresa destinata ad accrescere la fama di cui il D. doveva già godere: egli e Perazzo Malipiero, appena giunti nel porto di Capodistria e approffittando della notte, si erano avvicinati con le loro due galee e, contando su buoni uomini, erano riusciti a guastare un ponte molto lungo che collegava la città alla Terraferma. Questa impresa rese possibile la riconquista di Capodistria. Furono fatti prigionieri 400 friulani con i loro capitani, Nicolò Spilimbergo e Nicolò Pampergino.
È del 1381 un episodio che indirettamente conseguiva queste imprese belliche. Un figlio del D., Pietro - è l'unica notizia sui legami familiari che si sia riusciti a rintracciare - venne nominato procuratore del padre nella causa che vedeva imputati i sei sopracomiti armati "ad guadagnam" nel 1379 e che allora avevano incamerato beni in seguito rimborsati al proprietario. La causa verteva sul calcolo delle diverse unità monetarie in base alle quali stabilire il definitivo risarcimento.
Nel giugno 1382 il D. fu uno dei 41 elettori del doge Michele Morosini. Del luglio del medesimo anno è l'attestazione della sentenza dei giudici del Forestier a favore di un uomo che era stato balestriere nella galea "ad vadagna" del Dolfin. Questi venne condannato a pagare all'avversario il saldo del periodo di poco più di un mese trascorso a bordo della galea prima che venisse aggregata all'armata. Dal 1383 al 1387 il D. partecipò alla vita politica cittadina come membro del Consiglio, o della zonta, dei pregadi. Nulla si sa circa la data di morte del D., del quale non ci è pervenuta alcuna volontà testamentaria, e sul quale le fonti, a partire dal 1388, mantengono il silenzio.
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