FABRIS, Michele (detto Ongaro)
Figlio di Valentino, nacque nel 1644 circa a Bratislava (Pozsony), allora capitale dell'Ungheria.
Dalla terra d'origine gli derivò il soprannome di Ongaro (o Ungaro, come egli stesso talora si firmava). Le uniche, scarne notizie relative alla paternità, al luogo di nascita, ai suoi anni giovanili e al suo arrivo a Venezia si ricavano dalle testirnonianze (reperite da Nacamulli, 1985) allegate alla richiesta di stato libero dei F. presso la Curia patriarcale di Venezia, rilasciate in data 25 marzo 1672 da due pittori e da un artigiano del legno, rispettivamente Giorgio Stochamer di Monaco, allora abitante a S. Sainuele con Pietro Liberi, Sigismondo Benzenhauser di Bratislava, Nicolaj Bremfless di Jena. I due pittori avevano conosciuto il F. giovinetto, nel 1656 circa, trovandosi con lui alla corte arcivescovile di Bratislava, dove il F. praticava la scultura al seguito di un maestro.
Nel 1662 circa, con il Benzenhauser, il F. partì per un viaggio di studio che aveva per meta l'Italia e da Vienna, dove l'amico si fermò per qualche tempo, giunse a Venezia. Si stabilì nella città, dapprima presso Bremfless a S. Giovanni Novo, poi a S. Canciano (dove Sposò il 7 apr. 1672 Zanetta Laghi [o Loghi]), a S. Stefano e a S. Giovanni Crisostomo. In quest'ultima parrocchia, secondo la notizia fornita dal Bremfless, il F. aveva lavorato con lo scultore sassone Melchior Barthel (Nacamulli, 1985).
Non conosciamo il nome dello scultore che in patria era stato il primo maestro del F. e altri dati sul suo tirocinio, per cui rimane nell'ombra il periodo formativo dell'artista. Per quel che riguarda invece la ricostruzione dei suoi inizi veneziani, costituisce un'indicazione importante il nome del Barthel, con il quale il F. rimase probabilmente fino al ritorno di costui a Dresda (avvenuto poco prima del 25 marzo 1672, secondo la citata testimonianza del Brenifless) come fa pensare il fatto che nel 1672 il F. figura iscritto alla fraglia in qualità di maestro, ma senza bottega propria.
Al fianco del Barthel, il F. risulta, infatti, attivo, tra il 1665 e il 1669, nel Monumento del doge Giovanni Pesaro ai Frari, per il quale scolpì i due draghi sorreggenti l'urna del doge.
La notizia dell'intervento del F. è fornita da un contemporaneo, Cristoforo Ivanovich, segretario di Leonardo Pesaro, che aveva fatto erigere il monumento (cfr. Rossi, 1990). Il fatto di essere collaboratore del Barthel poté costituire il veicolo di tale incarico, presumibilmente agevolato anche da B. Longhena, ideatore del Monumento Pesaro, che il F. dovrebbe aver incontrato sin dal suo arrivo a Venezia (Nacamulli, 1985). Anche la sua formazione fu probabilmente determinante per l'incarico ricevuto: i due draghi, infatti, fra le prime opere realizzate a Venezia, rivelano (a differenza delle successive a tutt'oggi note) una chiara adesione al "realismo fantastico" di ascendenza nordica.
Il 19 ott. 1670 il F. è nominato, insieme a Giusto Le Court, perito di parte di Baldassare Longhena in una causa tra quest'ultimo e i tolentini (Archivio di Stato di Venezia, Convento di S. Nicola da Tolentino, b. 28, c. 13v). Del resto, quasi tutti i lavori veneziani del F. sono legati al cantieri longheniani e, come ai Frari, fece parte dell'équipe dei fedeli collaboratori dell'architetto. Lavorò, infatti, presumibilmente già dalla fine degli anni Sessanta, per la chiesa della Salute, come informa il Temanza (1738), che ivi ricorda, genericamente, "molte opere" del F., in particolare "sopra gli altari".
Quali, delle piccole sculture allegoriche che decorano la base dei pilastri degli altari, gli spettino rimane problema tuttora aperto. Tuttavia, tra quelle che la critica gli ha attribuito, l'Intelletto e la Salubrità dell'aria (altari dello Spirito Santo e dell'Annunciazione) rivelano una convincente consonanza stilistica con alcune statue della longheniana cappella Vendramin di S. Pietro di Castello, nella decorazione della quale il F., sempre secondo il Temanza, sarebbe stato impegnato. Una certa rudezza e incisività - ricollegabile ancora alla sua matrice nordica - avvertibili nell'Intelletto cedono il posto nella Salubrità dell'aria a modi più sciolti che nelle sculture della cappella Vendramin, forse di poco successive, e presentano un accento più elegante, un respiro monumentale, tipologie inequivocabilmente di stampo lecourtiano (si vedano l'Eloquenza e la Religione cristiana). L'altorilievo della stessa cappella con Paolo V che impone il cappello cardinalizio a Francesco Vendramin, firmato "Miclial Ungaro F.", rimane un caso isolato all'interno della produzione dello scultore per l'accentuato intento narrativo e per il vivace realismo di derivazione nordica. Il Goi (1987, p. 119) ha avanzato l'ipotesi che il F. conoscesse i "monumenti papali della romana S. Maria Maggiore". Ma alcune somiglianze compositive e qualche inflessione stilistica non sono sufficienti per ipotizzare un viaggio a Roma, che, in base alle vicende biografiche note, non può comunque ritenersi compiuto, come pensava il Temanza (1738), prima di giungere a Venezia, ma, se mai, poco dopo il 1672 (Nacamulli, 1985).
A partire dal 1674 la posizione di notorietà acquisita e consolidata dal F. in ambiente veneziano trovò ulteriore riconoscimento nella partecipazione dell'artista ai lavori per la decorazione scultorea di alcuni altari della basilica di S. Giustina di Padova, a fianco degli scultori più in vista del tempo, attivi anche a Venezia.
Il suo intervento venne richiesto per sculture degli altari del Santissimo, di S. Daniele, dei Ss. Innocenti, di S. Giuliano e di S. Scolastica, di S. Massimo (contratti, rispettivamente, del 29 giugno 1674; 14 nov. 1675; 1º marzo 1679; 26 genn. 1680 e del 14 febbr. 1681; cfr. Sartori, 1970). A ancora la componente lecourtiana a costituire il tratto caratterizzante delle opere padovane. Si pensi ai Putti dell'altare del Santissimo, all'Angelo di sinistra che sostiene l'arca dell'altare dei Ss. Innocenti, al S. Pietro eseguito per lo stesso altare (ora su quello di S. Arnaldo), al S. Massimo dell'altare omonimo.
La componente lecourtiana persiste altresi nelle contemporanee sculture veneziane. Il Cristo crocifisso dell'altare della cappella del capitolo della chiesa di S. Clemente in Isola (1675-1676; cfr. Davide M. da Portogruaro, 1934), che segna uno dei momenti più intensi del linguaggio del F., si direbbe nasca sul filo diretto della suggestione del Crocifisso scolpito qualche anno prima dal Le Court, per l'altare del Crocifisso dei Frari (1672), e anche il S. Giovanni e la Vergine, commissionati il 30 nov. 1680 (ibid.) per la stessa cappella, riflettono la medesima ascendenza.
La tendenza, che si manifesta in particolare nella produzione tarda, ad accentuare l'enfasi e il patetico di derivazione lecourtiana rende lo stile del F. molto simile a quello di E. Merengo, come rivela soprattutto il S. Giovanni evangelista della chiesa di S. Nicolò di Lido (Venezia), per il quale in data 25 ott. 1680 sottoscrisse il contratto insieme con Giovanni Comin e Merengo, a loro volta incaricati dell'esecuzione di altri due evangelisti, rispettivamente S. Marco e S. Matteo (Arch. di Stato di Venezia, S. Nicolò del Lido, b. 4, processo n. 5). Nelle ultime sculture ricordate (di S. Clemente in Isola e del Lido) si nota non soltanto l'affinata capacità del F. di conferire alle immagini una forte carica espressiva, ma anche una resa plastica che ottiene effetti di una più marcata dialettica chiaroscurale nel giuoco dei ridondanti panneggi. D'altro canto nella Temperanza, collocata alla sommità del pozzo (opera di Baldassare Longhena) del chiostro dell'ospedale di S. Lazzaro dei Mendicanti, pagatagli nel 1679 (Davide M. da Portogruaro, 1933), il F. dà prova di felicità inventiva e di acquisita capacità di articolare con disinvolta eleganza la figura nello spazio.
Il catalogo dell'intera produzione del F. (cfr. a questo proposito Nacamulli, 1985), ancora gravato da incertezze attributive, si presenta tuttora passibile di integrazioni e precisazioni, mentre appaiono definite le qualità stilistiche che ne connotano la fisionomia e gli slanci più originali.
Il F. morì a Venezia l'8 luglio 1684 nella parrocchia di S. Giovanni decollato, dove risulta residente già dal 1675 (23 luglio; cfr. Davide M. da Portogruaro, 1934).
Nella stessa parrocchia era morta la moglie Zanetta, il 31 maggio 1678, dopo aver dato alla luce, il 20 maggio precedente, il figlio Zuanne Bernardino, battezzato il 4 giugno dello stesso anno (cfr. Nacamulli, 1985). Il Temanza (1738) ricorda quest'ultimo insieme con un altro figlio, Michele, ed aggiunge che, ancora viventi al suo tempo (1738), erano l'uno pittore e l'altro libraio.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Convento di S. Nicola da Tolentino, b. 28, c. 13v; Ibid., S. Nicolò del Lido, b. 4, processo n. 5; T. Temanza, Zibaldon [1738], a cura di N. Ivanoff, Venezia-Roma 1963, pp. 62 ss.; Davide M. da Portogruaro, Un'opera ignorata di B. Longhena, in Riv. di Venezia, XII (1933), pp. 28 s.; Id., L'isola di S. Clemente, II, ibid., XIII (1934), pp. 523-526; N. Ivanoff, Monsù Giusto ed altri collaboratori del Longhena, in Arte veneta, II (1948), p. 116; C. Semenzato, La scultura veneta del Seicento e del Settecento, Venezia 1966, pp. 24 s., 88 s.; N. Ivanoff, Sculture e pitture dal Quattrocento al Settecento, in La basilica di S. Giustina. Arte e storia, Castelfranco Veneto 1970, pp. 291, 296; A. Sartori, Regesto di S. Giustina, ibid., pp. 456 ss.; A. Niero, Episodi della scultura barocca del Seicento veneziano: lo scalone del seminario patriarcale, in Ateneo veneto, XV (1977), pp. 19, 24; Id., Chiesa di S. Maria della Salute, Venezia 1979, pp. 14 s., 23; Id., in Venezia e la peste 1348-1797 (catal.), Venezia 1979, pp. 278 s.; C. Semenzato, in I benedettini a Padova e nel territorio padovano attraverso i secoli (catal.), Padova 1980, pp. 425 ss., 430; F. Nacamulli, Michael F. Ongaro, in Arte veneta, XXXIX (1985), pp. 87-100; P. Goi, Dispersione e recupero delle opere plastiche e dell'arredo monumentale, in Opere d'arte di Venezia in Friuli (catal.), a cura di G. Ganzer, Udine 1987, pp. 119, 121, 143, 146; P. Rossi, I "Marmi loquaci" del monumento Pesaro ai Frari, in Venezia arti, IV (1990), p. 90.