KERBAKER, Michele
Nacque a Torino il 10 sett. 1835. Con la morte precoce della madre e le seconde nozze del padre il ragazzo fu affidato a uno zio sacerdote; grazie a una borsa di studio del Collegio delle provincie riuscì poi a compiere gli studi presso l'Università di Torino e si laureò in lettere "con tutti gli onori" nel 1857, discutendo una tesi sulla cacciata dei Mori dalla Spagna. Ottenuto il primo incarico di insegnamento presso il seminario di Biella, proseguì per proprio conto lo studio degli autori classici greci e latini. Insegnò successivamente a Mondovì, Ivrea e Parma fino alla nomina a professore di lettere greche e latine nel liceo Principe Umberto (poi Umberto I) a Napoli.
Il soggiorno napoletano gli diede modo di ascoltare le lezioni universitarie di filologia comparata e di sanscrito tenute da G. Lignana e di integrare così, da autodidatta, lo studio della linguistica, del sanscrito, dell'iranico, dell'ebraico come pure delle principali lingue europee moderne. Dopo che, nel 1870, il Lignana fu chiamato a Roma, il K. fu nominato, su designazione di L. Settembrini e B. Spaventa, professore di storia comparata delle lingue classiche e neolatine e incaricato dell'insegnamento del sanscrito nell'ateneo partenopeo.
A Napoli, dove trascorrerà l'intera vita e dove dirigerà a lungo anche l'Istituto orientale, il K. sposò nel novembre del 1873 Assunta Bucci, donna colta, figlia di una pittrice, e traduttrice, fra l'altro, de La fiera della vanità di W. Thackeray e di altre importanti opere dall'inglese. La coppia ebbe sei figli, quattro maschi e due femmine.
Gli allievi del K., tra i quali studiosi che diverranno celebri, come F. Cimmino, C. Formichi e M. Vallauri (per menzionare solo gli indologi), ne ricordano l'insegnamento ispirato a metodi stabiliti con cura, l'ampiezza di orizzonti, e sottolineano unanimemente la generosità con cui accoglieva nella propria casa amici e studenti per "vivaci discussioni […] sciolte da ogni misura di tempo, intorno ai più varii argomenti di studio e di coltura" (Cimmino, p. 3). L'attività molto intensa, dedicata soprattutto agli studi di letteratura indiana, e il valore delle pubblicazioni sia scientifiche sia letterarie, dove si distinse come traduttore raffinato, valsero al K. la nomina a socio delle più prestigiose accademie del tempo; fra queste la Società reale di Napoli - R. Accademia di archeologia, lettere e belle arti (dal 1883, essendone poi segretario dal 1889 alla morte), la R. Accademia delle scienze di Torino (dal 1883), la R. Accademia dei Lincei di Roma (dal 1887), la R. Accademia Pontaniana di Napoli (dal 1888, ne sarà anche il vicepresidente e più volte il presidente nella classe di lettere e belle arti), la R. Accademia della Crusca di Firenze (1914). Negli Atti di queste e di altre istituzioni apparve la maggior parte dei suoi lavori.
Nel 1912 il Consiglio superiore della pubblica istruzione lo confermò all'unanimità nell'insegnamento universitario in deroga al raggiunto limite d'età; la sua salute era però già minata dai postumi di una grave polmonite contratta nell'inverno del 1911 e dalle crescenti difficoltà alla vista.
Il K. morì a Napoli il 20 sett. 1914, nella sua casa del Vomero, dove gli furono successivamente intitolate una via e una sala cinematografica.
Dopo una contesa con Napoli per ospitarne le spoglie, fu sepolto a Torino, nell'arcata degli uomini illustri del cimitero generale.
La produzione scientifica e letteraria del K., molto intensa e continua per diversi decenni, è rivolta in parte alla mitologia comparata e prevalentemente alle letterature antiche dell'India, anche se non mancano incursioni frequenti in campi assai lontani da questi. Gli studi storico-religiosi e mitologici, come quelli dedicati al confronto fra i due commoventi personaggi femminili di Sāvitrī e Alcesti (1875), a Hermes (1877), a Marsia (1888) e al Bacco indiano nelle sue attinenze col rito e col culto dionisiaco (1905), mostrano, insieme con le numerose recensioni, documentazione molto accurata e partecipazione attenta al dibattito scientifico in corso sul piano internazionale. Si situano però, quasi fatalmente data l'epoca, nella temperie generata dai metodi e dai lavori di A. Kuhn e soprattutto di F.M. Müller, molto popolari anche in Italia; le convinzioni che vi sottostanno - il mito come malattia del linguaggio, la possibilità di ricostruire in ogni aspetto la cultura degli Indoeuropei attraverso la comparazione linguistica, il carattere esclusivamente naturalistico della loro religione - saranno destinate dai primi due decenni del XX secolo a un radicale ridimensionamento.
Nell'ambito delle letterature antiche dell'India, gli interessi dello studioso e del letterato sono rivolti a temi bene individuabili, primo fra tutti la grande epica indiana tradizionale e in particolare il Mahābhārata ("Il grande poema dei Bhārata"). La sua attività si esplica soprattutto in una serie ininterrotta e scandita di traduzioni, spesso accompagnate da ampie introduzioni e commenti a carattere soprattutto letterario. Oltre alla Bhagavadgītā, il celebre "Canto del Beato" che inaugura la serie (1867), gli episodi scelti dal K. sembrano accomunati da una forte impronta narrativa: si tratta infatti delle celebri storie di Sāvitrī (1875, poi 1908), di Nala e Damayantī (Torino, 1878 e 1884), di Nahuṣa (1895), di Ṛśyaśṛṅga e Śantā, di Agastya e Lopamudrā (1901), di Astavakra (1901), del sacrificio dei serpenti che fa da cornice all'intera vicenda (pubblicata parzialmente nel 1901), dell'irruzione notturna di Aśvatthāman nel campo dei Pāṇḍava e della strage da lui compiuta (1902), della morte di Baka (1906). Oltre a questi episodi e ad altri minori apparsi autonomamente, il K. lasciò, in stato avanzatissimo di elaborazione, una vera e propria antologia del Mahābhārata, prefigurata nel Sommario del Mahābhārata, coordinato alla traduzione di luoghi scelti del poema del quale uscì peraltro solo il "Proemio" (Atti della R. Accademia di archeologia, lettere e belle arti di Napoli, XXIV [1904]), e che sarà pubblicata postuma: Il Mahābhārata tradotto in ottava rima nei suoi principali episodi…, a cura di C. Formichi - V. Pisani, Roma 1932-39 (voll. II-VI degli Scritti inediti pubblicati nella collezione "Varia" della R. Accademia d'Italia).
Come indica il titolo stesso dell'imponente raccolta (7424 strofe), il K. scelse per le sue versioni epiche l'ottava ariostesca, cioè il metro in uso per l'epica nella grande tradizione italiana; fine letterato e verseggiatore abile, si mantenne fin dove possibile aderente agli originali, composti quasi esclusivamente in śloka, quartine (tetrastici per l'esattezza) di ottonari eguali. Ogni ottava italiana corrisponde così senza eccezioni a due śloka del testo sanscrito. Grande apprezzamento per le versioni kerbakeriane fu espresso precocemente da G. Carducci (Fanfulla della Domenica, 1° genn. 1881) e ribadito molto più avanti da B. Croce (cfr. Traduttori, in La letteratura della nuova Italia, 2ª ed. riv., VI, Bari 1957, pp. 42-45). Interesse molto modesto il K. rivolse invece all'altro grande poema epico tradizionale indiano, il Rāmāyaṇa, del resto già tradotto integralmente in italiano da G. Gorresio, dedicandogli un solo lavoro (1876) con la versione dell'episodio della morte del re Daśaratha, padre del protagonista. All'attività della traduzione si accompagna talora quella della riflessione filologica: si segnala in quest'ambito l'importante introduzione a Leggende buddhistiche del Mahābhārata (Atti della R. Accademia Pontaniana, s. 2, XXX [1900], vol. V, memoria 2), in cui il K. esamina rispettivamente, propendendo per la seconda, le teorie di A. Holtzmann iunior e di J. Dahlmann riguardo alla formazione del Mahābhārata e di conseguenza all'inclusione di leggende buddhiste nell'immenso poema nazionale, di ispirazione ovviamente brahmanica.
Grande interesse il K. dedicò anche al Rigveda, la celebre raccolta di inni che segna l'esordio della letteratura indiana e costituisce il testo sacro originario della religione brahmanica e poi hindu. Secondo le finalità e le modalità di lavoro che lo distinguono, l'autore alterna saggi di indole generale e di esegesi (La poesia del Rigveda e Saggio d'inni vedici [1879], Varuṇa e gli Ādityāḥ. Saggio di esegesi vedica [1886], dedicato al dio sovrano e al gruppo di divinità di cui fa parte; e, ancora, Varuṇa genio del cielo sidereo. Saggio di esegesi vedica [1901]) a lavori che affrontano un tema, una divinità o gruppi di divinità specifici attraverso la raccolta, la traduzione e il commento dei testi relativi (Saggio d'inni vedici. Agni, Indra, i Maruti, Varuṇa [1880], Il culto dei morti nelle più antiche tradizioni arje [1880], I demoni dell'aria [1890], Saturno-Savitár e la Leggenda dell'Età dell'oro [1895], Il dio Agni nel Rig-Veda [1896]). Per dichiarazione stessa del K., sovente in queste opere il letterato e il divulgatore deliberatamente prevalgono sul filologo; lo scopo, infatti, di molti fra i lavori ricordati è restituire in italiano "i concetti originali del Rigveda relativi a ciascuna delle principali Deità dell'antichissimo Panteon indiano" (Saggio d'inni vedici…, cit., in Giorn. napoletano di filosofia e lettere, n.s., III [1880], marzo, p. 119): l'autore ricorre perciò anche all'elaborazione di inni "sincretici", che riuniscono i tratti di ciascun dio sparsi in più inni dell'originale e che evitano "tutti i passi più difficili ed oscuri […] o spiegati per via di mere congetture" (ibid.). Caratteristica costante del K. è, del resto, il privilegio accordato a un approccio storico-culturale e letterario inteso a mettere in luce, a seconda dei testi tradotti, in particolare le valenze etiche e i valori estetici; la trattazione è sempre molto bene argomentata, ma non si può non rilevare che la prospettiva rimane ancorata, quasi sempre, a concezioni occidentali, limite peraltro comune a quasi tutta la produzione scientifica indologica fino a oltre la metà del XX secolo. Anche nelle traduzioni vediche, in cui utilizza forme diverse, il K. mostra eccezionale perizia metrica e tensione continua al perfezionamento. Molte versioni inedite o revisionate fra quelle già edite saranno così pubblicate postume, fino alla recentissima raccolta di Inni vedici tradotti da Michele Kerbaker, editi a cura di G. Pugliese Carratelli (n. 1 di Poetica. Rivista internazionale di poesia, Napoli 2002).
Rispetto a questi due momenti - il Rigveda e la grande epica tradizionale - la produzione dedicata dal K. ad altri aspetti della letteratura indiana è molto meno ampia, ma certo indirizzata con grande intelligenza e concentrazione. Sul piano della letteratura teatrale, infatti, il K. si interessò a due opere di livello assoluto e di decisiva importanza nella storia di questa forma letteraria: la Mṛcchakaṭikā di Śūdraka (III sec. d.C.: Il carruccio di creta, tradotto parzialmente nel 1884 e ripubblicato poi completo come Il carretto di argilla, Arpino 1908), opera che si potrebbe definire mutatis mutandis "borghese" e che segna il passaggio alla fase più moderna del dramma indiano; la celebre Śakuntalā di Kālidāsa (IV-V sec. d.C.), già salutata da J.W. Goethe alle prime traduzioni occidentali come un capolavoro. L'ampio e documentatissimo Discorso esegetico del 1904 offre un'abbondante esemplificazione, ma la traduzione integrale, già da tempo pronta per la stampa, restò inedita alla morte del K., salvo un episodio in precedenza pubblicato da Cimmino nell'ambito di un suo studio del 1893. Pure continuo fu l'interesse per la gnomica, forma assai diffusa nella cultura indiana, che ama interrompere il filo narrativo dei testi, sia in versi sia in prosa, e ricavare dalla vicenda considerazioni generali sotto forma di proverbi o aforismi, spesso di notevole arguzia: anche in questo caso il K. dà prova di grande perizia metrica e di incontentabile lavoro di revisione, se si considera che le sentenze pubblicate (sovente per occasioni commemorative o festive) assommano a qualche decina, e quelle lasciate inedite a circa duemila. Marginale appare, infine, l'interesse dedicato dal K. alla letteratura classica d'arte, dove si segnala però la traduzione delle Avventure di Apahāravarman (1881), cioè di una delle sezioni del più famoso romanzo indiano antico, il Daśakumāracarita ("Le avventure dei dieci prìncipi") di Daṇḍin (VII sec. d.C.).
Tra le frequenti incursioni del K. in campi lontani dall'indologia e dalle religioni comparate sono da ricordare le traduzioni (alcune delle quali rimaste incompiute o inedite) delle Nuvole di Aristofane (Torino 1871), di episodi dell'epica persiana, di dodici liriche irlandesi di T. Moore, dedicate e donate alla fidanzata (1872), e soprattutto di diversi episodi della seconda parte del Faust di Goethe. Le commemorazioni di studiosi scomparsi e gli interventi sull'ordinamento degli studi sia universitari sia superiori attestano infine la sua partecipazione alla vita culturale e sociale contemporanea; mentre le poesie originali composte in più occasioni, come la dedizione ai discepoli, esprimono una vena genuina di affetti in un maestro dal carattere altrimenti rigoroso e schivo.
Fonti e Bibl.: C. Formichi, M. K. 1835-1914.Note biografiche…, Torino 1914; I. Pizzi, Commemorazione di M. K., in Atti della R. Acc. delle scienze di Torino, L (1914-15), pp. 189-194; A. Ballini, Cinquant'anni di studi indiani in Italia (1861-1911), in Riv. degli studi orientali, V (1915), 2, pp. 219-271; F. Cimmino, Commemorazione di M. K., in Atti della R. Acc. Pontaniana, XLVI (1916), pp. 1-13 (contiene l'indicazione di numerose altre commemorazioni); E. Pappacena, Per il secondo anniversario della morte di M. K.: bibliografia, Napoli 1916 (per i tipi dello Studio editoriale dell'Eco della cultura: a tutt'oggi il più esteso e preciso studio bibliografico sul K.); G. Porru, Studi d'indianistica in Italia dal 1911 al 1938, Firenze 1940, ad ind.; E. Pappacena, M. K., Bari 1958.