MOROSINI, Michele
MOROSINI (Moresini), Michele (Michiel). – Nacque a Venezia il 2 giugno 1611 da Pietro, della prestigiosa casa ‘moresina degli sguardolini’, e da Maria Morosini di Gabriele.
Rimasto orfano di madre a nove anni, ricevette una formazione umanistica e mostrò precocemente una spiccata predilezione per gli studi storici e filosofici, terminati i quali, iniziò, come consuetudine radicata per un giovane patrizio, una fase di addestramento nelle magistrature minori veneziane con l’ambizione di ottenere un incarico diplomatico di prestigio. L’opportunità si presentò quando, a seguito della rinuncia di Alvise Mocenigo, venne incaricato di sostenere l’ambasciata ordinaria in Francia. Ricevuta la Commissione ducale il 31 marzo 1648 (che lo forniva di un donativo per le spese di 2000 ducati e di 400 come compenso personale), giunse a Parigi alla fine di maggio.
Nei 52 mesi di permanenza esercitò le sue funzioni nel pieno di drammatici avvenimenti politici di una nazione prostrata dall’impegno bellico e sconvolta dalle Fronde parlamentari e nobiliari. Come il suo predecessore Giambattista Nani, fu costretto a calibrare prudentemente la propria attività su diversi piani, la cui cornice principale rimaneva tuttavia la guerra scoppiata nel luglio 1645 tra il turco e la Repubblica veneziana per il possesso dell’isola di Candia. La necessità di arruolare mercenari e marinai e di reperire risorse rendeva la Francia, insieme con la Spagna, alcuni Elettori imperiali e le Provincie Unite, un importante e potenzialmente favorevole interlocutore. Ben presto Morosini verificò di persona l’intreccio di ambiguità che rendevano disperata, come del resto negli anni precedenti, la richiesta veneziana di ottenere consistenti aiuti dalla Corona francese e l’opacità di un quadro di relazioni caratterizzato sovente dalla diffidenza e dai sospetti di una politica parallela di contatti segreti con la Porta. Senza un bailo a Costantinopoli dal giugno 1650, gli interessi ordinari veneziani venivano curati con superficialità dal rappresentante francese de La Haye e Morosini conobbe non pochi disagi e amarezze a corte nel raccomandare invano una maggiore attenzione al lavoro di ricucitura dei rapporti veneto-turchi per il ristabilimento di una rappresentanza diplomatica. Né tantomeno riuscì a porre rimedio alle spregiudicate scorrerie dei vascelli francesi contro le imbarcazioni venete. Specularmente, tenendo contatti serrati con Girolamo Basadonna suo omologo a Madrid, sorvegliò altresì ipotetici contatti tra spagnoli e turchi nel corso di tutto il 1649.
Morosini esercitò il massimo impegno nell’informazione, nella vigilanza e negli sforzi di concertazione per il rapido raggiungimento di una pace generale, politica e religiosa, i cui termini si stavano discutendo in Vestfalia e vedevano la Repubblica di San Marco protagonista con la mediazione di Alvise Contarini a Münster, mentre la fluida crisi interna francese costituiva un elemento decisivo per l’avanzamento delle trattative. Dalla sua serrata corrispondenza con Contarini, si può evincere a più riprese la convinzione che la crisi sociale ed economica di quegli anni potesse costituire uno strumento di significativa pressione diplomatica per arrivare a una conclusione rapida del trentennale conflitto europeo.
Si trovò poi a vivere la lunga fase della guerra civile francese, di cui fu testimone eccezionale per lucidità di analisi nell’interpretarne tempestivamente i significati sociali e politici: solo, senza il conforto di Nani partito nel luglio 1648, fu in grado di prevedere la rivolta parlamentare e le barricate del 27 e 28 agosto a seguito dell’arresto del popolarissimo consigliere del Parlamento parigino Pierre Broussel. In una serie di drammatici dispacci giudicò infatti l’insurrezione parlamentare, all’interno di uno scenario europeo dagli evidenti segni di indebolimento del potere monarchico e aristocratico, come effetto congiunto di una crisi sociale economica e istituzionale profonda, come sbandamento vertiginoso della formula del ministériat, come fallimento delle politiche fiscali e infine come manifestazione violenta di un diffuso sentimento xenofobo, soprattutto antitaliano e antimazzariniano. All’interno di questo quadro, si trovò a dover gestire nell’ottobre 1648 la richiesta esplicita di Mazzarino di ottenere l’ascrizione alla nobiltà veneziana, peraltro accordata dal Senato a larghissima maggioranza, per garantirsi una sede amica dove convogliare eventualmente le sue fortune personali. In cambio il cardinale aveva proposto un donativo personale e la concessione della licenza per effettuare una leva di 2000 fanti che non venne mai compiutamente realizzata. Bloccato a Parigi con gli altri ambasciatori, dopo la fuga dei reali e di Mazzarino del 6 gennaio 1649, Morosini seguì la corte iniziando una missione diplomatica itinerante e faticosa: infatti tra la primavera 1649 e il 1652 soggiornò a Chatou, Chantilly, Verberie, Compiègne, Amiens, Moret, Orléans, Chambord, Tours, Poitiers e Angoulême, Chartres e Saint-Germain. Per nulla persuaso della pace di Rueil del 30 marzo 1649, che sopiva temporaneamente il conflitto tra la regina Anna d’Austria, Mazzarino e i Parlamenti, segnalò per tempo al governo veneziano la formazione di un vasto fronte a loro ostile formato da membri di rilevanti casate nobiliari a cui si era aggregato, con tutto il suo peso politico e con chiare intenzioni leaderistiche, il principe di Condé (Louis II de Bourbon). Nel corso di tutto il 1650, riuscì a mantenere una discrezione e una riservatezza rispetto alle numerose sollecitazioni di schieramento soprattutto di fronte alle altalenanti vicende che caratterizzarono la seconda fase della Fronda nobiliare. Con grande senso tattico, di fatto senza poter contare sulle generiche e ripetitive indicazioni da Venezia, mantenne un profilo istituzionale nei confronti di una monarchia vacillante, che rimase il suo interlocutore primario a prescindere dalle alterne fortune e dagli allontanamenti dalla capitale di Mazzarino, con il quale tuttavia ebbe contatti segretissimi e costanti ritenendolo il vero motore della politica francese. Si districò pertanto con successo attraverso le effimere vittorie, le mutevoli fazioni, gli arresti eclatanti, le sorti incerte di personaggi di primo piano della corte francese; e soprattutto fu abile, nell’ottobre 1651, nel decidere in tutta rapidità, senza consultarsi con i Pregadi, di acconsentire alla riservatissima richiesta della stessa regina di poter utilizzare i canali diplomatici veneziani per garantire la comunicazione politica della Corona con il cardinale, all’epoca fuori dai confini della Francia. Una decisione al momento non gradita dal Senato veneziano, che però dovette di lì a poco ricredersi e riconoscere la lungimiranza di Morosini di fronte al ricongiungimento trionfale con la corte dello stesso Mazzarino nel gennaio 1652, alla vittoria delle armate reali a Étampes nel maggio dello stesso anno e al definitivo ristabilimento dell’autorità del primo ministro e di Anna d’Austria. Fu in questa occasione che egli si preoccupò di reiterare le richieste di fondi e di segnalare i rischi di disequilibrio italiano nel caso di un’occupazione spagnola della fortezza di Casale, senza cedere nel contempo alle lusinghe francesi di alleanze vantaggiose per resistere alla realizzazione della «monarchia d’Italia» agognata dagli Spagnoli. Mentre un appoggio riservato Morosini lo fornì, senza forse immaginare gli sconcertanti e molto prossimi sviluppi futuri del passaggio del duca di Mantova Carlo II Gonzaga sul fronte ispanico, alla proposta di consegnargli la stessa piazzaforte con l’impegno di resistere a eventuali colpi di mano spagnoli.
Alla fine del luglio 1652, fu sostituito da Giovanni Sagredo e il Senato gli ordinò di recarsi a Lubecca per esplorare le possibilità di una mediazione tra la Polonia e la Svezia. Per nulla entusiasta del nuovo incarico di ambasciatore straordinario, Morosini raggiunse la città anseatica in autunno, dopo un laborioso viaggio che lo aveva portato a Bruxelles, l’Aia e Amburgo dove tentò di collaborare con il suo governo per il reperimento di materiali e uomini da inviare a combattere nella guerra di Candia. Nel Congresso di Lubecca fu poco più che spettatore, ma si sforzò con la sua presenza di riaffermare la continuità dell’impegno di mediazione che quasi da un decennio aveva caratterizzato la politica internazionale della Repubblica. Incoraggiato dalle precedenti propensioni manifestate dai re polacchi Ladislao IV e Giovanni II Casimiro e dalla loro moglie Ludovica Maria Gonzaga-Nevers, e sotto la spinta delle pressioni francesi, si industriò nel verificare l’ipotesi che la Polonia, libera dalle ostilità con la Svezia, potesse stringere un’alleanza militare con Venezia e riprendere le ostilità con i turchi. Tuttavia, stanco e sfiduciato per la disattenzione sostanziale manifestatagli, nell’estate del 1653, abbandonato l’Impero, via Norimberga e Innsbruck, tornò a Venezia. Qui, nel 1660, fu eletto consigliere dogale e, l’anno successivo, riprendendo il ruolo diplomatico, fu incaricato insieme con Angelo Correr di compiere un’ambasciata straordinaria in Inghilterra presso il re Carlo II appena insediatosi sul trono nella fase di normalizzazione post-cromwelliana. Gli inviati rimasero a Londra dal 29 giugno all’11 agosto, giusto il tempo di donare al re due costosissime gondole da 3400 ducati da collocare nel parco di Saint James, di adempiere ai convenevoli di rito per l’intronazione e l’accordo matrimoniale con l’infanta di Braganza, ma soprattutto di constatare la debolezza politica a corte del giovane monarca, lo strapotere militare del generale George Monk, la precarietà della pacificazione del regno e la rilevanza delle divisioni confessionali e, infine, l’indisponibilità a fornire aiuti per alleviare la dispendiosa solitudine di Venezia nel suo sforzo militare.
Rientrato in patria, nel novembre 1662 venne nominato podestà di Padova, carica in cui rimase per 18 mesi.
Nella sua Relazione del 1° aprile 1664 fu solerte nell’indicare le difficoltà del suo ruolo e manifestò una certa passione nel prendere sul serio il suo compito. Segnalava come nei consigli cittadini (Monte e Città) le cariche fossero eccessivamente predeterminate, spesso senza merito, nei «consiglietti» dei maggiorenti, che esercitavano un illegittimo quanto totale controllo nell’assegnazione delle mansioni mortificando il governo veneziano. Questa «pestiffera radice» produceva guasti nella gestione finanziaria del Monte di pietà, rinsaldava ingiustificati privilegi ed esenzioni, perturbava il sistema creditizio a vantaggio di poche famiglie magnatizie pregiudicando l’economia generale della città. Così come non mancò di sottolineare le difficoltà di approvvigionamento di grano, che provocavano problemi di ordine pubblico e tumulti antipodestarili e antiveneziani in un periodo di grave carestia. Gran parte del suo impegno fu dedicato a cercare di superare la proverbiale lentezza della giustizia criminale e ad alleviare la condizione dei carcerati più poveri, cercando di contrastare la prassi di avidi «nodari» che scientemente lasciavano languire le cause affidandole ai propri giovani e inesperti coadiutori. Particolarmente vivace fu poi la sua raccomandazione a porre rimedio al «disordine» di un clero padovano, adiacente alle «conventicole» cittadine e da esse ispirato, che da solo avrebbe meritato un apposito magistrato per ribadire l’autorità della Dominante.
Rientrato a Venezia, ricoprì l’incarico di savio del Consiglio. Nel maggio 1671 come ultimo ruolo pubblico di rilievo, sostituendo Antonio Grimani, venne inviato ambasciatore a Roma presso Clemente X ottenendovi, a quanto sembra, un tardivo cavalierato. Tormentato dalla podagra, richiese a più riprese di essere richiamato e effettivamente fu sostituito da Piero Mocenigo nel maggio 1672, potendo così fare ritorno in laguna.
Dopo una lunga indefessa e onorata attività diplomatica in contesti non sempre semplici da vivere e decifrare, trascorse a Venezia i suoi ultimi e mesti anni, e vi morì l’8 settembre 1678, oscurato dall’astro dell’ingombrante fratello Francesco capitano dalla personalità debordante, vanitoso eroe «peloponnesiaco» e futuro doge.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, CollegioV, b. 43; Senato Secreta, Francia, ff. 107-114; Germania, f. 102b; Inghilterra, f. 52; Roma, f. 176; Commissioni 1647-1648, cc. 205-208v; Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Mss. It., cl. VII, 1926: Lettere di Principi, ministri ecc., ad Alvise Contarini, cc. 318-330; 1928: Lettere all’ambasciatore Alvise Contarini, cc. 324-354; G.B. Nani, Historia della Republica veneta, in Degl’Istorici venetiani i quali hanno scritto per pubblico decreto, IX, Venezia 1720, pp. 235, 275, 322; Dispacci di Angelo Correr e M. M. ambasciatori straordinari della Repubblica veneta a Carlo II re della Gran Bretagna l’anno 1661, a cura di A.F. Podreider, Venezia 1862; G. Berchet, Cromwell e la Repubblica veneta, Venezia 1864, pp. 11 s., 28 s., 101-118; Relazioni degli Stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneti, Relazioni di Roma, a cura di N. Barozzi - G. Berchet, s. 3., II, Venezia 1878, pp. 4, 373;G. Zulian, Le prime relazioni tra il card. Giulio Mazzarini e Venezia, in Nuovo Archivio veneto, n.s., XVII (1909), pp. 66, 129-132; XXI (1911), pp. 353-398 passim; F. Antonibon, Le relazioni a stampa di ambasciatori veneti, Padova 1939, pp. 57, 79; Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, I, Inghilterra, Torino 1965, pp. XXIX, 891-906; VI, Francia (1600-1656), ibid. 1965, pp. 1037-1088; Calendar of State Papers… Venice, XXXII (1659-1661), XXXIII (1661-1664), a cura di M.A. Allen - B. Hinds, Nendeln 1970 (reprint), ad ind.; Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, IV, Podestaria e Capitanato di Padova, a cura dell’Istituto di storia economica dell’Uni-versità di Trieste, Milano 1975, pp. LI, LIX, 389-394; S. Andretta, La diplomazia veneziana e la pace di Vestfalia (1643-1648), Roma 1978, pp. 5, 113-120; Id., La Repubblica inquieta. Venezia nel Seicento tra Italia ed Europa, Roma 2000, pp. 95-138 passim, 145; Id., Forme della comunicazione diplomatica in un contesto di crisi: gli ambasciatori veneziani durante la Fronda parlamentare a Parigi (1648-49), in Paroles de négociateurs. L’entretien dans la pratique diplomatique de la fin du Moyen Âge à la fin du XIXe siècle, a cura di S. Andretta - J.C. Waquet - C. Windler, Roma 2010, pp. 193-211.