ODASI, Michele (Tifi). – Appartenente agli Odasi originari di Martinengo, cittadina del Bergamasco, nacque da Bartolomeo, di un ramo della famiglia che dovette trasferirsi a Padova intorno alla metà del XV secolo, e da Sara «filia quondam ser Joannis de Camarano» (come si legge nel testamento di Odasi)
Non è dato sapere se sia nato a Padova. Ebbe tre fratelli: Antonio, Francesco e Ludovico, umanista al servizio della corte di Urbino.
Nei documenti è quasi sempre ricordato con il nome Tifi, appellativo classicheggiante di gusto umanistico che rinvia al nocchiero degli Argonauti; Odasi stesso si firmò Tifi in una lettera del 15 ottobre 1477, con la quale raccomandò ad Alessandro Strozzi il cugino Cristoforo, dottore in medicina e rettore dell’Università degli artisti dello Studio padovano dal maggio 1469 al maggio 1470. Il soprannome Tifi divenne poi distintivo del ramo padovano della famiglia, forse a partire dal 1509, anno di morte del fratello Ludovico, quando gli Odasi di Padova sembrano separarsi nettamente da quelli del ramo urbinate.
La lettera allo Strozzi è importante anche perché dimostra la familiarità di Odasi con il poeta Nicolò Lelio Cosmico, attestata, con malizia, anche da un epigramma Ad Typhim di anonimo autore, che si legge in un codice della Biblioteca nazionale Marciana di Venezia (Lat. XII.210), centrato sull’accusa di sodomia più volte mossa contro Cosmico e qui estesa anche a Odasi. Forse proprio all’influsso di Cosmico si devono le pochissime liriche in volgare composte da Odasi, conservate in altri codici della Marciana. Fra queste rime, di scarsissimo rilievo letterario, merita menzione un artificioso sonetto, Cinquanta cinque cento et un et A, trascritto dalla mano dell’autore nel ms. Marciano Ital. IX.107, c. 16r, cui Odasi fa seguire una breve prosa di commento per chiarire, tra l'altro, che l’incipit allude al nome della sua «amorosa», Lucia, in base alla relazione tra lettere e cifre romane («Cinquanta idest l, Cinque idest uno u, Cento idest uno c, et Un idest uno i, et A, le quale lettere composte insieme fanno il nome idest fanno Lucia»). A parte ciò, tuttavia, queste liriche dicono assai poco, pur documentando l’appartenenza di Odasi a un circolo di poeti padovani che, come Cosmico, coltivavano una lirica in gran parte modellata sul modello petrarchesco, con mezzi stilistici e linguistici non sempre all’altezza del compito.
Dal testamento di Odasi, redatto nella sua casa sita «Paduae in contrata Burgi Novi Patriarchatus» il 14 ottobre 1492, si ricava che egli ricoprì in città la carica di collaterale, anche se il fratello Ludovico, in una lettera a Francesco II Gonzaga del 26 gennaio 1493 (ora all’Archivio di Stato di Mantova, Arch. Gonzaga, b. 1591, c. 453), afferma che fu per «molti anni vicecollaterale di Padoa», il che si accorda in parte con la notizia, non direttamente documentata ma sempre riferita dagli studiosi, che sia stato per qualche tempo il bargello di Padova. Al di là dei suoi incarichi pubblici, va sottolineato il rapporto di Odasi con lo Studio patavino, cui rinviano alcuni dei personaggi coinvolti nella Macaronea, il suo poemetto in esametri macaronici che instaura, per così dire, i canoni del genere. Ambiente e personaggi si riferiscono a uno dei diversi circoli parauniversitari padovani, quello della spezieria della Luna d’oro. Il racconto si serve di una lingua che scaturisce dall’innesto del dialetto nel latino, una mescidanza i cui effetti parodici grotteschi potevano essere apprezzati pienamente solo da un pubblico di lettori educato al latino classico.
A differenza della più o meno coeva Tosontea – poemetto macaronico attribuito a un non meglio identificato Corado, al quale Ivano Paccagnella è propenso ad attribuire anche un terzo campione di poemetto prefolenghiano, il Nobile Vigonce Opus – la Macaronea assume toni diversi dalla tradizionale satira universitaria, soprattutto per l’insistenza sull’osceno e sul grottesco nei ritratti dei personaggi che occupano gran parte del testo, costituito, nella versione incompiuta che ci è giunta, da 700 versi. L’incipit presenta il testo come il frutto di una collaborazione fra Odasi e due altri autori («Est auctor Tiphis, Leonicus atque Parenzus»): l'uno da identificare con Domizio Parenzo, l'altro con il più noto Nicolò Leonico Tomeo, studente a Padova nei primi anni Ottanta (conseguì la laurea in artibus nel 1485). L’apporto dei due amici, di fatto, dovette essere pressoché ininfluente.
Da ciò che ci è stato trasmesso, e in particolare dal proemio, veniamo a sapere che il poemetto si incentrava sulla beffa ordita da tre sodali appartenenti alla macaronea secta ai danni di un certo Tomeo, da identificare con lo speziale del duomo. Proprietario di una casa assai malridotta, che non riesce ad affittare perché invasa dagli spiriti, Tomeo si rivolge al Cusinus (da identificare con il cugino di Tifi, Giampietro di Comino degli Odasi, speziale alla Luna d’oro in piazza delle Erbe), celebre anche come negromante. Il Cusinus accetta di aiutarlo anche perché attirato dall’offerta di una succulenta oca. Si fanno allora i preparativi per il rituale di liberazione della casa dagli spiriti e nel contempo viene preparata l’oca con tanto di ripieno. Alla cerimonia partecipano anche gli altri membri della macaronea secta, ognuno dei quali s’incarica di portare qualcosa per arricchire la cena. Ma Tifi si è accordato con il medico Bertipaglia e con il pittore Canciano per giocare ai compagni un brutto tiro: mentre il negromante sta iniziando il rito sotto lo sguardo del resto del gruppo, all’improvviso sbuca Bertipaglia travestito da diavolo cornuto. Presi dal panico, tutti cercano di fuggire, ma vengono bloccati e arrestati dagli sbirri, avvertiti da Tifi, e proprio agli sbirri finiscono poi l’oca e tutte le altre portate della cena che doveva concludere il rito negromantico.
Il racconto, in realtà, non entra nel vivo dell’azione, perché si interrompe bruscamente ancora nella fase di preparazione dell’oca, coi rimproveri di Cusinus per la lentezza con cui si sta procedendo. Ma ciò che fu pubblicato poco dopo la morte dell’autore bastò comunque a Teofilo Folengo per eleggere Tifi «a suo ideale maestro nell’arte macaronica» (Bernardi Perini, 2001, p.330) in ragione della trasgressività sia sul piano linguistico sia su quello dei contenuti, cioè i due livelli che programmaticamente Tifi indica nel proemio: «Aspicies, lector, Prisciani vulnera mille / gramaticamque novam quam nos docuere putane / et versus quos nos fecimus post cena cantando» (vv. 39-41). Non solo Folengo, ma anche altri autori di aree diverse d’Italia videro in Tifi e nei poeti macaronici gravitanti intorno all’Università di Padova un modello da imitare, come nel caso dei Virgiliana di Evangelista Fossa, delle poesie di Bassano Mantovano e dell'astigiano Giovan Giorgio Alione, della Macharonea medicinalis del medico Gian Giacomo Bertolotti o di un’altra Macharonea del perugino Vincenzo Baglioni.
Il sostanziale rispetto della grammatica e della metrica latina è corroso dall’ibridazione col dialetto e il linguaggio macaronico risulta non «una semplice mescidanza superficiale ma il risultato di un contatto e di un’interferenza bilingui» (Paccagnella, 1979, p. 85). D’altra parte è un linguaggio che trova nella rappresentazione dell’osceno, nell’oltranza licenziosa e nell’elemento scatologico i suoi momenti più riusciti, a segnalare la natura ludica e ideologicamente disimpegnata di questo esercizio poetico, da ricondurre più a intenti goliardicamente dissacranti che a una vera e propria trasgressione polemica del classicismo umanistico.
La data della morte di Odasi non è nota, ma si deve situare sul finire del 1492, come si ricava dalla ricordata lettera del 26 gennaio 1493 con cui il fratello Ludovico chiedeva al marchese di Mantova Francesco II Gonzaga di intercedere presso le autorità veneziane a favore dell'altro fratello Antonio, che ambiva alla carica di vicecollaterale a lungo ricoperta dal fratello Tifi, morto «in questi mesi proximi».
Nel testamento Tifi ordinò di essere deposto nella chiesa di S. Paolo presso il ponte Molino, dove, secondo le sue volontà, nel 1494 fu fatta costruire dai fratelli Ludovico e Antonio una cappella per ospitare la sua salma e quella del fratello Francesco, nel frattempo deceduto.
Il primo biografo di Odasi, Bernardino Scardeone riteneva che la princeps della Macaronea, un’edizioncina di pochi fogli apparsa senza note tipografiche, risalisse a un periodo immediatamente successivo alla morte improvvisa dell’autore, il che spiegherebbe, a suo avviso, la brusca interruzione del testo. Il moderno editore del poemetto, Paccagnella (1979), anticipa la prima stampa (di cui si conserva un solo esemplare alla Biblioteca Palatina di Parma) agli anni attorno al 1490. Quanto alla composizione dell’opera, il terminus post quem andrebbe collocato, secondo Paccagnella (p. 39), nel 1484, senza peraltro poter stabilire una datazione più precisa. Irrisolta resta ancora la questione della precedenza fra la composizione della Tosontea e della Macaronea. Non v’è dubbio che tra le due opere lo scarto temporale è assai limitato; è però significativo, come ha notato Paccagnella (p. 41), che Corado sia l’unico poeta macaronico a non nominare Tifi e a non citare la Macaronea. È tuttavia a Odasi che va senza alcun dubbio riconosciuta la palma del protomacaronico di maggior influenza sull’evoluzione successiva del genere.
Fonti e Bibl.: B. Scardeone, De antiquitate urbis Patavii et claris civibus Patavinis libri tres, Basileae 1560, pp. 238 s.; V. Rossi, Di un poeta maccheronico e di alcune sue rime italiane, in Giornale storico della letteratura italiana, XI (1888), pp. 6-13, 31-40; Id., recens. a G. Zannoni, I precursori di Merlin Cocai, Città di Castello 1888, ibid., XII (1888), pp. 425-434; Id., Chi fu Tifi Odasi?, ibid., XXXII (1892), pp. 262-265; B.C. Cestaro, Rimatori padovani del sec. XV, in L’Ateneo Veneto, XXXVII (1914), 2, pp. 5-9; J. Hodgkin, Bibliography of Tifi Odassi’s Macharonea, in La Bibliofilia, XXVI (1924), pp. 4-56; G. Fabris, Chi fu il primo poeta macaronico? (Risposta al sig. J. Hogdkin [sic]), in Giornale storico della letteratura italiana, XCIII (1929), pp. 210-218; Id., Padova culla delle muse maccheroniche, in Padova, s. 1, VII (1933), pp. 11-26; U. Paolo, Edizioni di poeti maccheronici, in Convivium, X (1938), pp. 439-454; I. Paccagnella, La mediazione di Tifi nell’evoluzione di Corado dalla ‘Tosontea’ al ‘Nobile Vigonze Opus’, in Atti dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, Classe di scienze morale, lettere ed arti, CXXXI (1972-73), pp. 741-777; Id., Le macaronee padovane. Tradizione e lingua, Padova 1979, passim; Id., Le macaronee a Padova prima di Folengo: problemi editoriali e di lingua, in Cultura letteraria e tradizione popolare, in Teofilo Folengo, Atti del Convegno di Mantova, 15-17 ottobre 1977, a cura di E. Bonora - M. Chiesa, Milano 1979, pp. 268-290; G. Padoan, Alcune considerazioni sulla “scuola” maccheronica padovana, ibid., pp. 291-303; I. Paccagnella, Origini padovane del macaronico: Corado e Tifi, in Storia della cultura veneta, a cura di G. Arnaldi - M. Pastore Stocchi, III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, 1, Vicenza 1980, pp. 413-429; Id., Il fasto delle lingue. Plurilinguismo letterario nel Cinquecento, Roma 1984, ad ind.; M. Zaggia, Prove per un commento alla “Macaronea” di Tifi Odasi, in Rivista di letteratura italiana, VII (1989), pp. 405-430; R. Signorini, L’anno di morte di «Tifi» Odasi (1492), in Giornale storico della letteratura italiana, CLXXV (1998), pp. 265-267; G. Bernardi Perini, Macaronica verba. Il divenire di una trasgressione linguistica nel seno dell’Umanesimo, in Integrazione, mescolanza, rifiuto: incontri di popoli, lingue e culture in Europa dall’antichità all’umanesimo. Atti del Convegno internazionale, Cividale del Friuli 21-23 settembre 2000, a cura di G. Urso, Roma 2001, pp. 327-336; I. Paccagnella, «Ad mundum tantum propter magnare creatus». Dal «venter vorax» al «mal de la loa», da Tifi Odasi a Ruzante, in L’italiano a tavola. Linguistic and literary traditions, a cura di A.L. Lepschky - A. Tosi, Perugia 2010, pp. 31-42.