SINDONA, Michele
– Nacque l’8 maggio 1920 a Patti (Messina), figlio primogenito di Antonino e di Maria Castelnuovo, in una famiglia di modeste condizioni.
Si laureò in giurisprudenza a Messina nel 1942. Sposò il 4 settembre 1944 Caterina Cilio, da cui avrebbe avuto tre figli: Maria Elisa, Nino e Marco.
Nell’estate del 1946 emigrò a Milano, dove pochi anni dopo aprì un proprio studio legale. Si fece rapidamente un nome per la maestria con cui forniva preziose consulenze fiscali a molti manager dell’industria italiana e, in particolare, alla dinamica borghesia lombarda che si lanciava allora nel ‘miracolo economico’.
Nel 1960 diventò un banchiere, poiché acquisì il controllo della Banca privata finanziaria, un piccolo istituto milanese; le due quote di minoranza furono acquistate dalla Hambros (di Londra), importante banca di respiro internazionale, e dalla Continental Illinois (di Chicago), una delle maggiori banche degli Stati Uniti.
Nei primi anni Sessanta le imprese elettriche ricevettero cospicui indennizzi da parte dello Stato – corrisposti a seguito della nazionalizzazione del settore – e si trovarono così a disporre di un’ampia massa di denaro da impiegare: Sindona offrì sbocchi speculativi a questi capitali, manipolando il mercato, sfruttando l’inadeguatezza delle norme che regolavano i mercati finanziari, le società per azioni e i movimenti di capitali con l’estero. Le sue speculazioni in Borsa fecero sensazione. Forte di un solido rapporto con l’Istituto per le opere religiose (la banca del Vaticano), nel 1968 acquistò da Giangiacomo Feltrinelli la quota di controllo dell’istituto finanziario di quella famiglia, la Banca unione. Nello stesso anno acquisì, sempre dalla banca vaticana, la Generale immobiliare, la maggiore impresa italiana del settore. Era ormai diventato il referente finanziario del Vaticano e un potenziale leader della finanza cattolica italiana.
Con il determinante (ma segreto) appoggio della Hambros, interessata a penetrare nel chiuso mercato finanziario italiano, nel 1971 Sindona tentò di scalare la Bastogi, una finanziaria governata da un sindacato in cui sedeva il gotha dell’alta finanza italiana. L’impresa fallì, ma fece nondimeno scalpore, non solo per la spregiudicatezza con cui venne condotta (il prezzo offerto superava di oltre il 50% quello di mercato), ma anche per lo strumento a cui Sindona fece ricorso, mai utilizzato fino ad allora in Italia: l’offerta pubblica di acquisto (OPA), che assicurava un pari trattamento a tutti i soci, contrariamente a quanto spesso avveniva in Italia, dove le operazioni significative venivano concordate a danno dei piccoli azionisti. Per rastrellare risorse, Sindona utilizzò anche – ma questo emerse solo successivamente – una sua tecnica incentrata sui depositi fiduciari, con cui violava le norme che regolavano l’attività bancaria, utilizzando proprie società finanziarie residenti all’estero. All’epoca vi fu chi vide in Sindona l’homus novus in lotta contro i fossilizzati equilibri di potere della finanza e contro Eugenio Cefis – fino al 1971 presidente dell’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), poi di Montedison, e massimo esponente della rampante borghesia di Stato – la cui aggressiva strategia di espansione passava anch’essa dal controllo della Bastogi. Il governatore della Banca d’Italia Guido Carli, che temeva gli obiettivi di dominio del banchiere siciliano, contribuì in maniera decisiva al fallimento della scalata.
Abbandonato dalla Hambros, Sindona cercò il rilancio negli Stati Uniti, dove veniva apprezzato come dinamico e innovativo trader internazionale. Rilevò quindi la Franklin national bank (di New York), la ventesima banca statunitense, con tutta probabilità impiegando allo scopo anche i fondi dei clienti delle sue banche italiane.
Dopo la sospensione della convertibilità del dollaro in oro – annunciata nell’agosto del 1971 dal presidente degli Stati Uniti Richard Nixon – iniziò su scala globale una lunga e acuta fase instabilità finanziaria. Sindona si dedicò più di altri – soprattutto tramite la Franklin – a rischiose scommesse sull’andamento dei cambi, non più ancorati a una parità fissa rispetto al dollaro. I rovesci subiti in queste speculazioni lo costrinsero presto a reperire ulteriori fondi per ripianare le perdite. Ideò quindi un complicato progetto che faceva perno sull’aumento di capitale di una sua società finanziaria, la Finambro (in cui avrebbe incorporato l’Immobiliare) e che gli avrebbe consentito di raccogliere denaro fresco per 120 miliardi di lire senza cedere il controllo della società. Il progetto doveva essere approvato dal Comitato interministeriale del credito e risparmio, presieduto dal ministro del Tesoro Ugo La Malfa (segretario nazionale del Partito repubblicano italiano, PRI), che contrastava i disegni di Sindona, in sintonia con Carli e con Enrico Cuccia, amministratore delegato di Mediobanca (e come tale ‘regista’ degli equilibri all’interno dell’alta finanza italiana). Nonostante le pressioni subite, con vari pretesti La Malfa riuscì a rinviare continuamente la convocazione del Comitato, nel fondato timore che in quella sede si sarebbe trovato in minoranza. Sindona, alla ricerca di robusti appoggi politici dopo la sconfitta subita nella battaglia per la Bastogi, aveva infatti sviluppato stretti rapporti con la Democrazia cristiana (DC), che aveva iniziato a finanziare regolarmente con somme cospicue. La sconfitta subita dalla DC nel maggio del 1974, in occasione del referendum abrogativo del divorzio, fece definitivamente naufragare il progetto Finambro. Proprio in quei giorni iniziò negli Stati Uniti l’agonia del ‘sistema Sindona’: esso aveva assunto un’estensione smisurata, dai confini e dalla natura allora in larga misura ignoti. Comprendeva oltre un centinaio di imprese, finanziarie e non, operanti in undici Paesi e connesse strettamente fra loro, spesso tramite impenetrabili catene di holding costituite nei paradisi fiscali.
A New York le difficoltà crescenti della Franklin erano ormai venute alla luce. In un momento di forte turbolenza finanziaria, la crisi disordinata di una banca di rilevanza sistemica come questa rischiava di compromettere la stabilità del sistema bancario, sia negli Stati Uniti sia nei mercati interbancari internazionali. La Federal reserve (la banca centrale degli Stati Uniti) fronteggiò la crisi fungendo per diversi mesi da prestatore di ultima istanza, per importi complessivamente senza precedenti nella storia di quel Paese. In ottobre la Franklin fu dichiarata fallita e venne venduta all’asta. La crisi costò poco al contribuente statunitense, circa 16 miliardi di lire ai cambi dell’epoca.
Negli stessi mesi si consumò in Italia la crisi delle due maggiori banche di Sindona legate alla Franklin, la Privata finanziaria e l’Unione, dalla fine di luglio fuse nella Banca privata italiana. Questa era di dimensioni – anche in termini relativi – assai meno rilevanti della Franklin, ma aveva una forte esposizione verso l’estero e, quindi, era potenzialmente in grado di innescare – soprattutto in caso di fallimento disordinato – una pericolosa crisi di fiducia che avrebbe investito l’Italia in una fase di acuta instabilità economica e politica. Per scongiurarla, Carli puntò sul Banco di Roma quale istituto subentrante a quello di Sindona, previa garanzia di copertura delle perdite emergenti, come il Banco richiedeva. Rafforzava questa scelta anche la sua convergenza con i piani di un banchiere influente di area cattolica come il direttore generale del Banco Ferdinando Ventriglia, che era interessato ad acquisire ciò che sarebbe rimasto della banca sindoniana e che si profilava come il più accreditato candidato alla successione dello stesso Carli come governatore della Banca d’Italia. Durante quell’estate filtrarono indiscrezioni sulle irregolarità riscontrate nelle banche di Sindona dagli ispettori inviati dalla Banca d’Italia, sui finanziamenti elargiti alla DC, sull’esistenza di una lista segreta di clienti illustri (la cosiddetta lista dei cinquecento), i cui depositi in istituti svizzeri – costituiti in violazione delle norme valutarie – erano stati già rimborsati.
Gli sforzi di Carli e di Ventriglia tuttavia fallirono, anche per l’opposizione dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), che controllava il Banco di Roma. Il 24 settembre venne deliberata la liquidazione coatta amministrativa della Banca privata italiana; il 27 l’avvocato Giorgio Ambrosoli fu nominato dalla Banca d’Italia commissario liquidatore. Per rimborsare i creditori, in quello stesso giorno il ministero del Tesoro emanò un decreto che fissava le condizioni alle quali la Banca d’Italia avrebbe potuto discrezionalmente concedere fondi alle aziende di credito intervenute in favore delle banche poste in liquidazione coatta (il cosiddetto decreto Sindona); in quel caso specifico, il costo a carico dell’erario risultò alla fine pari a 127 miliardi di lire.
A quel decreto si sarebbe ricorso in altri casi fino agli anni Novanta, prima che entrasse in contrasto con il divieto di finanziamento dello Stato da parte delle banche centrali, disposto dall’art. 123 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, come modificato dal Trattato di Lisbona del 2007.
Gli avvenimenti del 1974 segnarono uno spartiacque nella storia di Sindona. In Italia fu colpito da mandato di cattura per il dissesto della Privata; a New York, dove si era rifugiato, fu avviato un procedimento giudiziario a suo carico per il fallimento della Franklin. Per salvarsi si appoggiò su una costellazione straordinaria di poteri, legali e illegali, i cui punti di riferimento furono essenzialmente tre: il leader democristiano Giulio Andreotti, a lungo presidente del Consiglio nel periodo in cui il banchiere era latitante a New York; Licio Gelli, il capo della loggia massonica segreta P2, e la fazione di Cosa nostra che faceva capo a Stefano Bontate. Tramite Andreotti e la P2, Sindona esercitò forti pressioni sui vertici della Banca d’Italia per indurli ad approvare i suoi piani di salvataggio, volti a revocare la messa in liquidazione, a sistemare le pendenze delle banche con i denari pubblici e ad alleggerire di conseguenza la propria posizione penale. L’indisponibilità della Banca d’Italia fu una delle cause che condussero nel marzo del 1979 due magistrati ad accusare il governatore Paolo Baffi e il vicedirettore generale Mario Sarcinelli (che fu arrestato) di favoreggiamento e interessi privati in atti di ufficio, imputazioni da cui furono in seguito pienamente assolti. La vastissima rete della P2 (di cui faceva parte anche Roberto Calvi, capo del Banco ambrosiano e socio di Sindona in numerosi affari) fu utilizzata anche per premere sulla magistratura statunitense. In nove dichiarazioni giurate rese da Gelli e da altri ‘piduisti’ si affermava la necessità che si respingesse la richiesta di estradizione avanzata dalle autorità italiane, in realtà condizionate dal Partito comunista, che avrebbe perseguitato il banchiere per il suo anticomunismo.
Sindona si rivolse poi alla mafia per intimidire ripetutamente sia Cuccia – da cui pretendeva un appoggio ai suoi piani di salvataggio – sia il commissario Ambrosoli, che stava dipanando la struttura occulta del sistema Sindona e che si rifiutava di cedere al banchiere. Per questo Sindona lo fece assassinare da un sicario di Cosa nostra nel luglio del 1979. Nella stessa estate, il banchiere escogitò un rocambolesco finto rapimento a opera di una fantomatica organizzazione rivoluzionaria, volto a costringere i suoi antichi sodali ad appoggiare i suoi piani, pena la minaccia di compromettenti rivelazioni sulle loro malefatte passate. Trascorse l’estate a Palermo nascosto dai mafiosi e dai piduisti, facendosi anche sparare a una gamba per rendere più verosimile il supposto sequestro.
In ottobre la polizia scoprì le connivenze mafiose; Sindona ricomparve improvvisamente a New York. La sua versione dei fatti non resse alle evidenze accumulate dall’FBI (Federal Bureau of Investigation). In febbraio gli fu revocata la libertà provvisoria; in maggio fu condannato a 25 anni per bancarotta fraudolenta. Estradato in Italia nel settembre del 1984, all’inizio del 1985 subì una condanna a 15 anni per il dissesto della Privata. Un anno dopo gli fu inflitto l’ergastolo per l’omicidio di Ambrosoli. Il 22 marzo 1986, due giorni dopo la sentenza, si suicidò con il cianuro nel carcere di Voghera, simulando un omicidio.
Fonti e Bibl.: E. Scalfari - G. Turani, Razza padrona: storia della borghesia di Stato e del capitalismo italiano, 1962-1974, Milano 1974, pp. 278-295; N. Tosches, Power on Earth: M. S.’s explosive story, London-New York 1986 (trad. it. Il mistero Sindona: le memorie e le rivelazioni di M. S., 1986); C. Stajano, Un eroe borghese: il caso dell’avvocato Giorgio Ambrosoli assassinato dalla mafia politica, Torino 1991, passim; G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Roma-Bari 1993, pp. 319-337; G. Simoni - G. Turone, Il caffè di Sindona: un finanziere d’avventura tra politica, Vaticano e mafia, Milano 2009; G. La Malfa, Cuccia e il segreto di Mediobanca, Milano 2014, pp. 126-150; M. Magnani, Sindona: biografia degli anni Settanta, Torino 2016.