STENO, Michele
STENO, Michele. – Nacque a Venezia intorno al 1331 dal matrimonio di Giovanni Steno con Lucia Lando. Prese forse il nome dell’avo: un Michele Steno visse nella prima metà del Trecento, e risulta già morto in data 20 ottobre 1347, quando la moglie Marchesina Marcello dispose dei suoi lasciti in un atto redatto a Modone.
Avviata a promettenti sviluppi nell’ambito del sistema politico veneziano del Trecento, la famiglia Steno (della parrocchia di S. Maria del Giglio) appartiene al novero delle casate che non riuscirono ad affermarsi stabilmente, in conseguenza del calo demografico verificatosi fra i secoli XIV-XV. Essa infatti si estinse all’inizio del Quattrocento, determinando un vuoto nella memoria storica del patriziato evidente dalla sua assenza in due dei quattro principali repertori genealogici.
Il padre di Steno era stato in effetti una figura di primo piano nel panorama politico veneziano della prima metà del secolo, ricoprendo incarichi di alto prestigio e morendo durante lo scontro navale con i genovesi nel 1352 al Bosforo. Oltre a Michele (per il quale manifesta una preferenza già nel testamento, 3 dicembre 1351), Giovanni Steno ebbe un altro figlio, Fantino (che testò nel 1358 lasciando il fratello erede universale qualora la moglie Maria non avesse avuto figli, e morì forse poco dopo) e tre figlie, Franceschina, Donata e Cristina (benedettina in S. Lorenzo).
Durante gli anni della giovinezza, Steno fu coinvolto nelle vicende connesse alla congiura di Marino Falier: fu infatti condannato dalla Quarantia il 20 novembre 1354, assieme ad altri compagni, per aver scritto nella sala del camino del doge «multa enormia verba loquentia in vituperium domini ducis et eius nepotis» (Appendici, in Lazzarini, 1963, doc. II, p. 259), e scontò un mese di detenzione nelle carceri di palazzo ducale. È ragionevole ritenere che sul gesto possano aver pesato storici dissapori familiari tra i Falier e gli Steno.
Al riguardo, fiorirono narrazioni leggendarie: Steno si sarebbe invaghito di una dama della dogaressa, se non della stessa moglie di Falier, Aluica Gradenigo. Redarguito dal doge per il suo comportamento poco dignitoso, Michele Steno avrebbe deturpato il seggio ducale con la nota espressione canzonatoria: «Marin Falier de la bela moier, altri la galde e lui la mantien». Tuttavia, la pena inferta al giovane non avrebbe soddisfatto abbastanza l’orgoglio ferito del vecchio doge, che da allora prese a covare vendetta contro gli altri membri del patriziato; da tale sentimento egli avrebbe tratto spunto per organizzare la sua congiura, poi sventata dal Consiglio dei dieci nell’aprile del 1355.
Nonostante le ragioni sottese al celebre episodio non siano a tutt’oggi chiare, oggi si tende a sottostimare l’influenza sui propositi di Falier degli «enormia verba» rivoltigli da Steno e dai suoi sodali, e a motivare tali progetti autoritari con il suo temperamento e con ragioni politiche generali, come il catastrofico andamento della guerra con Genova.
Nel decennio successivo Steno intraprese la carriera militare e politica, che si collocò su standard medio-alti. Nel 1365 fu nominato capitano della Riviera d’Istria, mentre nel giugno del 1369 superò la proba come patrono di una delle galee della muda di Romania. Al suo ritorno, a partire dal febbraio del 1370, fece pratica in uno dei più temuti consessi veneziani, il Consiglio dei dieci, mostrandosi determinato a scalare il cursus honorum: eletto caposestiere di San Marco il 13 febbraio, vi rinunciò per accettare circa tre mesi dopo l’elezione a capo dei Dieci (reiterata nell’ottobre del 1373) e, successivamente, a inquisitore del medesimo consiglio. Una strategia, questa, che egli attuò più volte nell’arco della sua carriera.
Fu però tra i protagonisti della disfatta veneziana a Pola, nel maggio del 1379, durante la ‘guerra di Chioggia’. Insieme con l’altro sopracomito dell’armata, Giovanni Trevisan, Steno probabilmente influì più del dovuto e dell’opportuno sulla fatale scelta del capitano generale da Mar, Vittore Pisani, di attaccare i genovesi al largo della città istriana, ciò che permise alla flotta nemica di penetrare nella laguna. Insieme a Pisani e Trevisan, Steno fu processato e condannato dagli avogadori di Comun, cavandosela peraltro con un anno di interdizione dalle pubbliche cariche, eccetto la partecipazione ai lavori consiliari.
Dal 1381 egli svolse con Paolo Marcello l’incarico di castellano di Modone e Corone, durante il quale sottoscrissero – grazie alla mediazione del vescovo di Corone – un importante trattato di amicizia con il vicino Principato di Acaia, ponendo fine a lunghe ostilità. Si trattò di un’azione diplomatica di estrema importanza, poiché destinata a divenire un modello di riferimento anche in occasione di ulteriori vertenze, come quella nuovamente insorta fra i due confinanti nel 1387. Nell’occasione Steno si dimostrò decisamente all’altezza del compito, sia perché seguì da vicino gli sviluppi di quell’area fino a poco prima di ascendere al dogado; sia perché successivamente fu lui a essere più volte consultato in quanto olim castellanus Coroni et Mothoni, e non il collega con cui aveva condiviso la carica.
Il 17 novembre 1384 venne chiamato a far parte della commissione istituita dal Senato per risolvere il deficit finanziario che affliggeva il bilancio comunale. Fece dunque esperienza in un altro comparto dell’attività di governo, e in un paio di mesi elaborò (con gli altri savi: Pietro Corner, Ludovico Loredan, Benedetto Soranzo e Domenico Bono) una serie di proposte, tutte approvate, di aumenti di tassazione e di riduzioni di personale, nonché di adozione di un più favorevole cambio monetario. Subito dopo (17 gennaio 1385) con Giovanni Gradenigo e Leonardo Dandolo ebbe l’incarico di stipulare (a Grado) un accordo con i castellani patriarchini e con Udine, per contenere l’espansionismo dei Carraresi in Friuli e la politica di appoggio ai padovani del patriarca di Aquileia.
Il cursus honorum di Steno proseguì senza scosse (podestà di Chioggia dal marzo del 1385, membro della zonta del Senato dal 29 settembre, bailo e capitano di Corfù a partire dal 29 luglio 1386), fino al riconoscimento più desiderato: l’elezione a procuratore di San Marco il 30 dicembre 1386. Inoltre, quasi mai rifiutò il mandato di savio del Consiglio, al quale ottemperò numerose volte dal 1384 al 1399; forse perché si trattava di una carica dai forti attributi risolutivi, cui Michele Steno doveva sentirsi particolarmente portato. Tra queste commissioni vanno menzionate quella sullo stato delle acque lagunari (autunno del 1391) e quella sull’Istria (settembre del 1392).
Negli anni Novanta fu poi particolarmente fitta la serie delle delegazioni diplomatiche, per le quali ormai si vedeva in Steno una notabilis persona in grado di garantire sicura efficacia alle trattative, come le ulteriori missioni presso il patriarca di Aquileia del 1392 lasciano chiaramente trapelare. In altri scacchieri territoriali, si contano almeno cinque ambascerie alla corte estense di Ferrara tra il 1393 e il 1396, giustificate dal timore della Repubblica nei confronti dell’impegno milanese e fiorentino in Romagna. Fu inviato anche in Ungheria, presso Sigismondo di Lussemburgo, il 13 marzo 1397.
Fu perciò naturale il coinvolgimento di Steno nelle delicatissime trattative con Gian Galeazzo Visconti, negli anni immediatamente successivi.
In quegli anni, l’espansione milanese allarmava Venezia e l’intero stivale italico. Nei suoi confronti la Serenissima «ostentava una cordialità inesistente» (Cessi, 1981, p. 346), e ogni intervento antivisconteo fu modulato con attenzione e criterio, al fine di non minare quell’equilibrio di fondo funzionale al monopolio dei traffici di Rialto.
Dalla primavera del 1398 alla primavera del 1400 Steno partecipò alle trattative con Visconti per la tregua, ricoprendo alla perfezione il ruolo di negoziatore non solo in rappresentanza della Repubblica, bensì di tutta la compagine che si era alleata contro il ‘tiranno’ (Firenze, Bologna, Padova, Ferrara, Mantova). Fu un successo innegabile e dalle ricadute immediate sulla carriera di Steno: la strada per il dogato, allora ricoperto da Antonio Venier da tempo malandato in salute, era spianata.
Difatti, i lavori del Maggior Consiglio per eleggere il successore si svolsero con rapidità: appena una settimana e nella tarda serata del 1° dicembre 1400 l’assemblea proclamò Steno Dei gratia dux Venetiarum. Straordinari furono i festeggiamenti che accolsero il nuovo doge, svolti all’insegna della massima magnificenza e del divertimento più spettacolare, al punto da suscitare l’ammirazione di un ambasciatore milanese in quei giorni in laguna.
I suoi tredici anni di dogado furono un periodo intenso, sconvolgente e positivo per la storia della Repubblica. Nei primi tempi in Adriatico l’attivismo politico di Ladislao II d’Angiò Durazzo, infatti, permise ai veneziani di riprendere il controllo su Corfù (1402) e sulla Dalmazia (1409), pagandoli in moneta sonante al re di Napoli.
Sul fronte italico, invece, la morte improvvisa di Gian Galeazzo Visconti (3 settembre 1402) provocò un pericoloso vuoto di potere nell’Italia centro-settentrionale, pronto a essere colmato dalle realtà fino ad allora sottomesse al dominio visconteo. Venezia si trovò costretta a intervenire per contrastare i sogni di gloria dei Carraresi nella Marca Trevigiana, fra gli attori più dinamici nell’area nord-orientale della penisola.
Ciò avvenne suo malgrado, ma non in modo troppo imprevedibile: già gli avvenimenti del XIV secolo avevano dimostrato come ingerenze più dirette negli ‘affari italiani’ fossero maggiormente preferibili (e risolutive) rispetto ai vecchi strumenti di coercizione economica e politica. D’altronde, la sicurezza dei collegamenti con i passi alpini e con i ricchi mercati veneti, lombardi e romagnoli, costituiva la premessa irrinunciabile al dominio della Serenissima nel Mediterraneo orientale.
Con il placet informale della duchessa Visconti, dunque, a partire dal 1404 il Senato inaugurò la serie di deditiones tese a regolare e vincolare i rapporti con i nuovi centri entrati a far parte del dominio veneziano: Vicenza, Verona, Rovigo, Feltre, Belluno e Bassano, per annoverare solo quelli maggiori. Venne inclusa anche Padova, sebbene dopo un assedio durato qualche mese nel 1405 e la fine nel sangue della dinastia carrarese.
Steno fu ovviamente coinvolto sul piano istituzionale, ma qualche volta i cronisti segnalano alcune sue prese di posizione personale. Ad esempio, ricevendo in udienza Francesco Novello da Carrara ormai prigioniero e in veste di penitente, Steno avrebbe detto sprezzantemente «Vui haverete quella mercede che haverete meritado» (G. Dolfin, Cronicha dela nobil cità de Venetia et dela sua provintia et destretto, a cura di A. Caracciolo Aricò, II, 2009, p. 136).
A capo di un dominium esteso e temuto dagli altri Stati italiani, che di fatto inaugurò una lunghissima stagione di guerre durata fino al terzo decennio del XVI secolo, il doge morì il 26 dicembre 1413 poco più che ottantenne e a causa degli acciacchi dovuti all’età avanzata.
Nel 1362 si era sposato con Marina Gallina, sua unica moglie, e non ebbe figli.
Fu titolare di un patrimonio solidissimo (ampia disponibilità di liquidi, proprietà immobiliari, titoli di prestito) e amò la vita sfarzosa, come prova lo straordinario numero di oggetti pregiati e ricercati da lui posseduti. Lo si ricava dal testamento (redatto il 23 luglio 1412), nel quale tutelò quanto più possibile il benessere della dogaressa e previde decine di lasciti a enti ecclesiastici, istituti di beneficenza e al personale che lo assisteva in quanto doge (socii, camerieri, il ballottino Pietro, notai della Cancelleria). Nel complesso il testamento tradisce una certa sua consapevolezza di essere l’ultimo della sua stirpe, ma anche l’ultimo portavoce di un’epoca ormai alle spalle; e al riguardo, è anche eloquente l’assenza di esponenti del patriziato oltre ai fidecommissari. La vedova di Steno a seguito della morte del marito si ritirò in compagnia delle monache di S. Andrea della Zirada, spirando circa un decennio dopo. Erede della quota maggiore delle sue sostanze (e di 1000 ducati) fu l’unico parente nominato nel testamento, il nipote Fantino Pizzamano (così come una nipote, Polissena Navagero, fu erede della moglie).
Steno fu sepolto nella chiesa di S. Marina a Venezia, all’interno di una preziosa arca marmorea che aveva lui stesso commissionato; i funerali, invece, si svolsero presso la basilica dei Ss. Giovanni e Paolo, dove nel 1811 fu trasferito il suo monumento funebre.
Rispetto ad altri patrizi della sua generazione, Michele Steno dimostrò di possedere il carattere, la tempra e l’intuito politico per accompagnare (e sostenere personalmente) l’espansione territoriale del comune Veneciarum. Non a caso le modifiche apportate alla promissione ducale del suo successore, Tommaso Mocenigo, tesero a minare ulteriormente l’interventismo del doge favorendo l’azione di controllo degli avogadori di Comun, con i quali, non a caso, egli si era a volte scontrato in consiglio. Vissuto per gran parte della sua vita nel XIV secolo, egli riuscì a farsi ricordare quale emblema della nuova stagione quattrocentesca.
La sua memoria non fu dimenticata. Il 28 giugno 1512 il Senato deliberò di celebrare la riconquista di Padova del 1509 con l’annuale andata dogale alla chiesa di S. Marina, in onore della santa nel cui giorno la città era stata recuperata. Al di là delle ragioni di culto, però, la scelta del luogo cadeva anche sotto gli auspici dell’uomo che lì riposava e sotto il cui dogado tutto o quasi, per ciò che concerne la Terraferma, aveva avuto inizio.
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