TEDESCO, Michele
– Nacque da Giacomo e da Anna Racioppi il 24 agosto 1834 a Moliterno in provincia di Potenza (Archivio storico dell’Accademia di belle arti di Napoli, da ora in poi ASABAN, serie Alunni, sottoserie Fascicoli personali, n. 320, Atto di nascita, n. 163, c. 1).
Dopo l’abbandono della famiglia da parte del padre, fu affidato allo zio materno, l’abate Antonio Racioppi, nel vicino villaggio di Spinoso, un centro fortemente antiborbonico. Appassionato pedagogista di idee liberali, che coltivava rapporti con intellettuali e cospiratori politici napoletani, Racioppi diede al giovane la prima formazione culturale e l’educazione politica conducendolo a Napoli, assieme al cugino Giacomo Racioppi, futuro senatore del Regno, storico ed economista. Nei primi anni Cinquanta frequentò il Real Istituto di belle arti (ASABAN, serie Alunni, sottoserie Fascicoli personali, n. 320), grazie a un sussidio conferitogli dalla Provincia di Potenza. Nel 1853 ottenne un premio nella Scuola di disegno e un encomio da parte del professore Gabriele Smargiassi nello studio della pittura di paesaggio. Due anni dopo, nel 1855, come allievo della Scuola di disegno, diretta da Giuseppe Mancinelli, partecipò alla Biennale Borbonica con il Gladiatore, e nel 1859, all’ultima mostra borbonica, con due figure tratte da due novelle di Tommaso Grossi, Ildegonda Gualderani e Il paggio Folchetto, quest’ultimo acquistato dal re Francesco II di Borbone nel 1860 (Napoli, Palazzo Reale; Napoli, in Vincenzo Marinelli, 2015).
Terminati gli studi, sul finire del 1860 si arruolò nella guardia nazionale e seguì Giuseppe Garibaldi in Toscana, approdando a Firenze dove, grazie al pittore napoletano Giuseppe Abbati, entrò in contatto con i primi macchiaioli fiorentini, gli artisti del caffè Michelangelo. A Firenze sposò una donna scozzese, dalla quale presto dovette dividersi poiché il matrimonio di religioni miste fu ritenuto nullo (Di Giacomo, [1915], p. 8).
Da Firenze, dove è documentato stabilmente dal 26 novembre 1861 (Valente, 2012b, p. 16), continuava ad avere rapporti con i circoli artistici di Napoli, partecipando alle mostre della Società promotrice di belle arti e ai dibattiti in sede critica, soprattutto con gli esponenti della nuova pittura di macchia della Scuola di Resina (in particolar modo Marco De Gregorio, presente anch’egli in alcune mostre della Promotrice fiorentina). Alla I Promotrice di Napoli del 1862 espose il dipinto Una lettura, identificato con un olio su tela centinata già pubblicato con il titolo L’attesa (Ottocento, 2014; Valente, in Vincenzo Marinelli, 2015, p. 110).
Si tratta di una composizione di tipo stilnovistico molto in voga all’epoca, sostenuta e alimentata dalla presenza della colonia dei preraffaelliti inglesi a Firenze: una fanciulla sospende la lettura per abbandonarsi al vagheggiamento suggeritole dal piccolo libro che ha tra le mani.
In questo stesso periodo, sull’onda dell’entusiasmo patriottico che cresceva intorno alla figura di Dante, anche Tedesco eseguì diversi dipinti dedicati al poeta, mutuando l’iconografia dalla Vita nuova piuttosto che dalla Commedia, secondo scelte precise operate ancora una volta dai preraffaelliti, principalmente da Dante Gabriel Rossetti. Nel 1862 espose all’Accademia di Brera a Milano la tela La giovinezza di Dante Alighieri, cui avrebbe fatto seguito il dipinto Gli amici d’infanzia di Dante che cantano le sue canzoni, presentato nel 1864 alla III Promotrice di Napoli, riproposto molto probabilmente con il titolo Gli amici di Dante Alighieri giovinetto alla XXIII Promotrice di Torino del 1864 e ancora a quella di Firenze del 1867. Nel 1865, in occasione della mostra organizzata dalla Società promotrice fiorentina per le celebrazioni dantesche, espose il dipinto Un libro chiuso.
A Torino, alla Promotrice del 1866 presentò un quadro impegnativo dal titolo Le prime ispirazioni artistiche di frate Giovanni Angelico da Fiesole, poi inciso nell’album-ricordo della mostra (Album della Pubblica Esposizione del 1866, compilato da Luigi Rocca, Torino 1866), e recentemente emerso in una collezione privata di Monaco di Baviera (Valente, 2018, p. 182). A parte l’immediato rimando a La Madonna di Cimabue portata per le strade di Firenze di Frederic Leighton, della metà degli anni Cinquanta, tenuta al tempo in grande considerazione, da cui provengono le gamme cromatiche vivide, un ulteriore plausibile riferimento sarebbe al Gustave Courbet dei Funerali a Ornans del 1849 (Parigi, Musée d’Orsay), sia per l’impianto compositivo, sia nella disposizione del paesaggio nel fondo demarcato dalla linea dell’orizzonte, che riflette non soltanto la visione diretta della natura, ma anche l’uso della fotografia e dell’appunto grafico. Comparvero diversi articoli intorno a Courbet sul Gazzettino delle arti del disegno, pubblicato a Firenze da Diego Martelli, mentre di Tedesco, instancabile disegnatore, sono stati rintracciati e pubblicati diciotto taccuini (Valente, 2012b), oggi di proprietà della Casa-Museo Domenico Aiello di Moliterno, che hanno permesso di comprendere il suo modo di procedere. Sono appunti veloci di paesi visti in lontananza, di catene di monti tracciate in punta di matita, di figure, di studi storici compiuti sui libri, di trascrizioni di passi. Tre fogli di un taccuino del 1866-67 (MTt.11/1866-67) mostrano una veduta di Rignano sull’Arno con il profilo della pieve di S. Leolino (cc. 6r, 7v-8r; Valente 2012b, pp. 129 s.), poi rielaborata nel dipinto Partenza (Gita in barca) del 1867 di collezione privata, presentato alla Promotrice di Genova del 1867 con il titolo Una gita a Rovezzano sull’Arno (Valente, in Michele Tedesco, 2012, pp. 78 s.), e forse riproposto alla Promotrice di Firenze del 1875 come Passeggiata in Arno.
Dal 1860 al 1874 Tedesco fu dunque attivo nel movimento macchiaiolo, tra i primi frequentatori della tenuta di Diego Martelli a Castiglioncello, luogo di confronti e di dibattiti. Qui, nell’agosto del 1861 trascorse un primo soggiorno con Abbati e Signorini (Durbé, in I Macchiaioli, 1976, p. 27), cui è riferibile il piccolo olio Castiglioncello (Oziosi e laboriosi) di collezione privata (Baboni, 1994, p. 74), mentre la veduta A Volterra (Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, legato Martelli) conferma da una parte la stretta unione dei membri del gruppo e dall’altra la piena adesione di Tedesco alla teoria della macchia elaborata da Adriano Cecioni. Se, infatti, il processo pittorico macchiaiolo si concretizzava nel «modo di rendere le impressioni» ricevute dal vero «col mezzo di macchie di colori, di chiari e di scuri, come per esempio una sola macchia di colore per la faccia, un’altra per i capelli, un’altra […] per la pezzuola, un’altra per la giacchetta o vestito [...] e così per il terreno e per il cielo», rimpicciolendo le dimensioni delle figure all’altezza di 15 centimetri, quella «che assume il vero quando si guarda a una certa distanza» (A. Cecioni, Scritti e ricordi, a cura di G. Uzielli, Firenze 1905, p. 302), le prime opere fiorentine di Tedesco appaiono perfettamente allineate a queste teorie.
Con gli artisti toscani Tedesco partecipò anche all’esperienza della Scuola di Piagentina, che lo avrebbe condotto a opere come Una ricreazione alle Cascine di Firenze del 1863 (Bologna, Pinacoteca nazionale), precedente di qualche anno i dipinti di Silvestro Lega, e I viaggiatori aerei del 1865 (Torino, Galleria d’arte moderna), composizioni di forte sapore rinascimentale, basate sul misurato equilibrio tra figure e spazio, e dal pregnante valore prospettico.
Con Odoardo Borrani e soprattutto con Lega condivise l’intimo realismo delle scene familiari, giocato secondo la regola di Piagentina: basta confrontare i dipinti La morte del cardellino di Tedesco, del 1869 circa (Moliterno, Casa-Museo Domenico Aiello; Valente, in Vincenzo Marinelli, 2015, pp. 122 s.), e La lezione del 1880-81 di Lega (collezione privata; Matteucci, 1987, II, pp. 150 s.).
Pubblicato la prima volta nel 2015 (Valente, in Vincenzo Marinelli, 2015, pp. 120 s.), il dipinto La lettera (collezione privata) mostra la convinta applicazione del ton gris e dell’uso dello ‘specchio nero’, accorgimenti tecnici importati dalla Francia all’interno del gruppo dei macchiaioli grazie a Saverio Altamura e utilizzati anche da Borrani e da Lega alla metà degli anni Sessanta. Il valore cromatico fortemente abbassato di tono mediante l’inserimento di pennellate grigie stese omogeneamente nelle grandi macchie di colore, che conformano vesti, oggetti, volti, avrebbe condotto infine Tedesco a ‘spegnere’ le tonalità nei dipinti dei primi anni Ottanta, come La tempesta, esposta alla IV Mostra nazionale di Torino ed acquisita recentemente agli studi (Valente, 2018, p. 190).
Se il nerbo della sperimentazione con i macchiaioli fu la pittura di verità e di macchia, con La morte del poeta Anacreonte, presentata alla Mostra nazionale di Parma nel 1870 e all’Esposizione universale di Vienna nel 1873, Tedesco trasferì la precedente esperienza in una composizione d’invenzione di sapore neogreco, che ebbe grande successo in entrambe le occasioni.
All’inizio degli anni Settanta il pittore compì molti viaggi come critico inviato all’Esposizione universale di Vienna del 1873, scrivendone poi su Il Giornale artistico, diretto da Enrico Cecioni, fratello di Adriano. Questi viaggi furono l’occasione per conoscere i pittori austriaci e tedeschi legati all’Accademia, come il «sensuale ed ubriacante» Hans Mackart (M. T[edesco], Augsburg, 11 maggio 1873, in Il Giornale artistico, I (1873), 6, p. 45), o quelli proiettati verso istanze simboliste, come Franz von Lenbach, Arnold Böcklin e Anselm Feuerbach. Con quest’ultimo sono evidenti molte affinità se compariamo opere come Una ragazza nella propria camera (Milano, Città Metropolitana), esposta alla II Mostra nazionale di Milano del 1872, e Dopo una visita (collezione privata; Valente, in Michele Tedesco, 2012, pp. 88 s.) con le due versioni dell’Ifigenia di Feuerbach, rispettivamente quella seduta di Stoccarda (Staatsgalerie) e quella in piedi di Düsseldorf (Kunstmuseum), viste di certo nello studio romano del pittore tedesco. Con La morte del poeta Anacreonte e con Una ragazza nella propria camera, Tedesco si lasciava alle spalle la fase più propriamente macchiaiola, raggiungendo esiti di composizione forbita e misurata e un linguaggio colto e raffinato aperto alle influenze dei pittori inglesi e tedeschi. Anche la dimensione dei dipinti era mutata, passando dalle piccole tavolette macchiaiole al grande formato suggeritogli dalle imponenti tele ammirate in Germania. La dolce sensualità della fanciulla del dipinto appena citato avrebbe poi trovato riscontro in un’opera dal titolo Le fuggitive, esposta alla XXXIII Mostra della Società di belle arti di Torino nel 1874 (Valente, in Vincenzo Marinelli, 2015, p. 112; Ead., 2018, p. 185), già identificata con una tela intitolata in passato Cari colombi (Valente, in Michele Tedesco, 2012, pp. 86 s.). Nella stessa figura si deve riconoscere, inoltre, la giovane moglie dell’artista, la pittrice tedesca Julia Hoffmann (Würzburg, 1843-Monaco, 1936), incontrata a Firenze nel 1871, nel salotto letterario di Ludmilla Assing, e sposata a Portici nel 1873, avendo Telemaco Signorini come testimone di nozze.
Alla metà degli anni Settanta la ripresa dal vero, oggetto esclusivo della sperimentazione macchiaiola, era ormai superata. Alla mostra di Brera del 1876 e poi alla nazionale di Napoli del 1877 Tedesco espose Un figlio naturale, con cui affrontava particolari temi ispirati al realismo sociale (un figlio nato fuori dal matrimonio, che la giovane madre è costretta ad allattare di nascosto; Valente, 2018, p. 191). Sarebbero seguiti Il testamento, presentato alla Mostra nazionale di Roma del 1883, alla Promotrice di Napoli del 1884, a Brera nel 1891 e, infine, alla Mostra nazionale di Palermo del 1891-92, dove fu premiato con la medaglia d’argento; L’ultimo oltraggio, del 1902; Lo sfratto, del 1910. Grazie anche allo zio abate e alla sua vasta biblioteca, e grazie ai circoli intellettuali frequentati a Napoli, dove nel frattempo era rientrato, stabilendosi definitivamente a Portici nel 1877, Tedesco giunse a formulare una pittura basata su brani di realismo con particolare attenzione alle situazioni di degrado morale o di malessere sociale, verso cui assunse un indubbio atteggiamento di disapprovazione (si ricorda che era stato abbandonato dal padre, che era cresciuto lontano dalla madre, che aveva amato e sposato due volte una donna straniera). L’impegno di tale pittura lo indusse a studiare come conformare l’immagine rappresentata ai tipi umani indagati: un’attenzione antropologica tale che lo portò a redigere un testo dal titolo La penetrazione del carattere e il senso della vita contemporanea nel contenuto dell’opera d’arte, un manoscritto datato 1901-02, finora ritenuto perduto, ma rinvenuto di recente (Valente, 2018).
Oltre a La tempesta, nel 1880 Tedesco espose alla Mostra nazionale di Torino La madre spartana e nel 1881 presentò all’Esposizione nazionale di Milano Una famiglia (Valente, 2018, p. 187). Già dal primo dipinto si notò un mutamento stilistico. La composizione si era fatta più larga e il tono luminoso si era abbassato, assumendo, come scrisse la critica, «il colore del caffè col latte» (L. Chirtani, Esposizione nazionale di Torino. Scuola napoletana, in L’Illustrazione italiana, VII (1880), 36, p. 158), sebbene in altre opere, come La moglie del banchiere (Valente, 2017), le tonalità continuassero a mantenere una certa freschezza e i cieli assumessero una colorazione perlacea. Se la radice dell’abbassamento luminoso era ancora da rintracciare nell’uso del ton gris, è anche vero che questo nuovo colore, i modelli compositivi e la memoria dell’antico nelle composizioni a partire da quelle esposte a Torino nel 1880 erano i segnali di nuove frequentazioni. Oltre a guardare ai Deutsch-Römer (soprattutto nelle due versioni della Tempesta, in collezione privata e a Napoli, Città Metropolitana), Michele e Julia condivisero infatti il filone estetizzante anglosassone di epoca vittoriana, in particolare con i pittori Lawrence Alma-Tadema e Leighton, rapporti che si sarebbero rinsaldati nel 1888 quando Tedesco fu a Londra all’Esposizione italiana. In quest’occasione, per la quale ricoprì anche un ruolo organizzativo come membro di riferimento delle due commissioni selezionatrici di pittura (Fine art Committee e Sub-Fine art Committee), egli espose un dipinto di eccezionali dimensioni, già presentato alla Mostra nazionale di Venezia (1887) e all’Esposizione nazionale di Bologna (1888): Invasione di una scuola pitagorica in Sibari, registrato nelle altre mostre con il titolo Filelleni della Magna Grecia, oggi alla Guildhall Art Gallery - City of London (Valente, in Michele Tedesco, 2012, pp. 55 s.).
Soprattutto nell’ultimo ventennio del secolo, Tedesco recuperò sempre più spesso il mito per eseguire opere che possono essere ascritte a un rigenerato filone neogreco, peculiare del gusto simbolista proveniente essenzialmente dalla Mitteleuropa, come nel Giudizio di Paride del 1896 (Napoli, Galleria dell’Accademia di belle arti) o in La resurrezione di Adone del 1900 (Di Giacomo, [1915], tav. n.n.), opere che palesano una straordinaria comunione con i coevi dipinti di Alma-Tadema (A reading from Homer del 1885, Philadelphia Museum of art) o dello stesso Leighton.
Il disegno, di cui fece un uso squisitamente personale, divenne l’oggetto del suo insegnamento al Real Istituto di belle arti di Napoli, dove gli furono affidate la cattedra di disegno dalla statua, alla morte del collega Federico Maldarelli nel 1894, e dal 1896 quella di disegno di figura.
Tedesco si occupò con scrupolo del rapporto fra arte e artigianato, nel quale assunse posizioni moderne e radicali, sostenendo il valore artistico del prodotto manifatturiero. Auspicando che le arti applicate all’industria contemplassero i tre principali fattori del processo artistico-artigianale (stile, forma e soggetto originali), in contrasto con i coevi orientamenti che registravano una netta preferenza per la copia dall’antico o dal Rinascimento, nel 1881 si oppose alla proposta di un docente unico che ricoprisse sia il ruolo dell’artista sia quello dell’artigiano, avanzata dalla Scuola di incisione sul corallo di Torre del Greco, dove insegnava, e ratificata dal ministero della Pubblica Istruzione. A suo avviso era necessario affiancare all’artigiano un artista che indirizzasse gli allievi verso soluzioni innovative, che un solo docente-artigiano di certo non avrebbe garantito. Dalla querelle, sintetizzata in un suo scritto (A proposito della nomina di un professore cumulativo nella Scuola d’incisione sul corallo in Torre del Greco, Napoli 1882), pur sostenuto dai colleghi artisti e professori d’accademia, incluso Domenico Morelli, Tedesco uscì sconfitto, cosa che gli procurò la rimozione dal ruolo di insegnante.
Parallelamente all’attività di docente, egli proseguì la carriera d’artista, frequentando più assiduamente le mostre della Società promotrice di belle arti Salvator Rosa di Napoli, dove esponeva anche la moglie Julia, e quelle in sede nazionale e internazionale. Alla XXXIV Promotrice, organizzata nel 1911 per il cinquantesimo anniversario della fondazione della società, espose tre dipinti: nella prima sala Una giovane madre, nella seconda L’unico fratello e nella terza un’altra Giovane madre, quasi una trilogia che proseguiva l’itinerario sociologico degli anni precedenti.
Intorno al 1903 eseguì il dipinto celebrativo della Visita di Zanardelli in Basilicata, oggi nella sede della Provincia di Potenza. Giocato tra simbolismo e curiosità antropologica, il dipinto fu portato a compimento dopo una lunga trafila di Consigli provinciali, ma avviato il 3 ottobre 1902 quando, concluso il viaggio del ministro nella regione, gli si volle rendere omaggio con un’opera che ricordasse quell’esperienza. Inizialmente commissionato ad Andrea Petroni, dopo alterne vicende la richiesta passò a Tedesco, per poi essere affidata definitivamente a Petroni. Tedesco decise allora di eseguire in autonomia un’altra opera che volle donare alla Deputazione provinciale di Potenza come ricordo del viaggio di Zanardelli (da cui sarebbe scaturito il primo piano d’intervento straordinario dello Stato nelle regioni del Mezzogiorno), ma anche in segno di riconoscenza verso quell’istituzione che l’aveva sostenuto durante gli anni di studio a Napoli.
Nel 1908 Tedesco rendeva omaggio a Spinoso, il paese che gli aveva dato la prima formazione, consegnando la lunetta con la Sacra Famiglia con s. Rocco orante alla nuova cappella di S. Rocco, divenuta per i cittadini simbolo di ribellione contro i soprusi dei signorotti locali. Nella composizione, collocata sull’altare maggiore, in cui si riflette l’eco della pittura dorata dei pittori tedeschi, Michele si autorappresenta nel s. Giuseppe, mentre nel volto della Vergine si potrebbe riconoscere quello di Julia.
Nel 1912 il critico Alfonso Frangipane, ch’era stato suo allievo a Napoli nei primi anni del secolo, tracciava questo suo ritratto: «Dal bel volto […] per quegli occhi che mandavano fiamma di pensiero, sembrava che non solo l’amore, ma pure l’ammonimento schietto volesse manifestarsi, imporsi, solcare a fondo nella nostra anima» (Frangipane, 1936, p. 56).
Morì a Napoli il 3 febbraio 1917.
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