VISMARA, Michele
Nacque a Monza il 9 maggio 1760. Compì qui i primi studi, dai nove anni proseguendoli poi sino al compimento nei seminari della diocesi di Milano. Entrò come sacerdote nella congregazione degli oblati. Sin da giovane molto versato negli studi, fu chiamato a insegnare nel seminario di Milano: lettore di filosofia, professore di eloquenza, maestro di lingua greca, ebraica e latina. La sua condizione cambiò radicalmente con l’arrivo di Napoleone a Milano nel 1796. Vismara si segnalò infatti subito tra i sostenitori delle idee democratiche. Così il 24 maggio, prima di lasciare la città, quest'ultimo lo prescelse tra i membri della Municipalità provvisoria nella sua seconda tornata di nomine, successiva a quella del 21 maggio. Era questo un segno anche della notorietà che circondava il suo nome in Milano. Avrebbe fatto poi parte dell’Amministrazione generale della Lombardia, che dal 29 agosto aveva preso il posto della Municipalità.
Col passaggio nel 1797 alla Repubblica Cisalpina avrebbe continuato ad assumere responsabilità politiche. Sarebbe infatti entrato a fare parte del Corpo legislativo nel Gran Consiglio, assemblea in cui si sarebbe distinto per la particolare attenzione rivolta alla materia religiosa, ma in genere per la moderazione e l’equilibrio dei suoi interventi, arricchiti da raffinata capacità oratoria.
Con la caduta della Cisalpina e l’arrivo a Milano delle truppe austro-russe a fine aprile 1799, Vismara non abbandonò subito la città. Pietro Custodi racconta nel suo diario che, avendo Vismara nel 1796 lasciato l’abito (pur non rinunciando all’appartenenza alla congregazione degli oblati), cercò invano di vedere formalizzata dalla curia la sua condizione di ex-prete, per veder meglio tutelata la sua persona a fronte di possibili azioni persecutorie contro gli esponenti del cessato regime. La curia, «che ora non ha più bisogno di lui», non gli aveva però fornito il sostegno richiesto, per cui Vismara aveva dovuto cercare altre protezioni, riuscendo a farsi raccomandare per un posto di segretario presso il vescovo di Alessandria, ove si era recato (Un diario inedito di Pietro Custodi, a cura di C.A. Vianello, Milano 1940, 6 dicembre 1799, p. 247). Ma il governo austriaco, che nella caccia ai partitanti democratici lo aveva ben individuato, aveva «costretto quel vescovo a consegnarlo» (ibidem, 2 gennaio 1800, p. 255).
Nel tentativo di salvarsi, Vismara aveva allora scritto una apologia difensiva, diretta a Filippo Visconti arcivescovo di Milano. In questo testo rivendicava di essere stato coinvolto nel 1796 nella Municipalità e poi nell’Amministrazione generale della Lombardia «con ordine improvviso delle autorità francesi», benché «non preceduto da alcuna opinione di giacobinismo» e «alieno per istituto e per indole dalle politiche cose», e in ogni caso «autorizzato dal formale assenso del superiore (il sig. prevosto generale in assenza di monsignor arcivescovo) da me formalmente volutosi consultare». Rivendicava il proprio ruolo nella difesa degli interessi religiosi in seno al Corpo legislativo, ove «i processi verbali attestano solennemente quale urto di passioni, di stravaganze, e di cabale io ho dovuto affrontare nella troppo famosa contestazione su la soppressione delle corporazioni ecclesiastiche [trovandomi nella condizione] di un ecclesiastico, che dovea parlar religione col linguaggio della politica, che dovea accordare qualche cosa per ottenere qualche altra, che dovea quasi accarezzare il nemico per non perder tutto» (Apologia …, 2 marzo 1800, in Bibliotèque Nationale de France, Paris, Manuscrits Italiens-Collection Custodi, 1566, fol. 49). E in effetti, come testimoniava Giuseppe Compagnoni a proposito della discussione sulle soppressioni ecclesiastiche nel Corpo legislativo, era stata creata una apposita commissione ed era stato «messo alla testa di tale commissione l’oblato Vismara, il quale […] o per antico affetto al clero, o per paura di compromettersi, trovò mezzo di tirare in lungo il rapporto e sopra moltissimi altri affari, a quella commissione in appresso spediti […] così che non se ne parlò più finché stette in piedi la Repubblica cisalpina» (G. Compagnoni, Memorie autobiografiche, Milano 1945, p. 205). Più esplicitamente Francesco Cusani scrive che «correva voce fosse spinto da’ suoi superiori e dall’arcivescovo ad entrare nella Municipalità per tutelare gli interessi del clero» (F. Cusani, Storia di Milano dall’origine a’ nostri giorni, Milano 1865, vol. IV, p. 370).
Anche in questo caso non ottenne protezione: fu imprigionato e successivamente, insieme a numerosi altri patrioti, deportato in Dalmazia, a Cattaro.
Rientrato in Milano, con gli altri deportati, sul finire dell’esistenza della seconda Repubblica Cisalpina, Vismara ottenne subito impiego, il 3 agosto 1801, nell’agenzia per i beni nazionali del dipartimento milanese dell’Olona. Col passaggio nel 1802 alla Repubblica Italiana, il vicepresidente Francesco Melzi d’Eril lo volle in posizione di responsabilità, quale segretario generale del ministero dell’Interno.
Lo stesso Melzi sintetizzò in modo chiaro i motivi della scelta di un uomo il cui passato lo collocava tra quei democratici che egli tentava, per quanto possibile, di non coinvolgere nell’amministrazione del nuovo Stato: «Sebbene prete, non scandaloso; sebbene repubblicano dei primi, e sempre impiegato, e con distinzione anche ne’ Consiglj, l’oppinione della sua condotta e probità sono rimaste intatte. […] La di lui scielta proverà facilmente e l’imparzialità del governo per le oppinioni e la sua giustizia per chi ha titoli d’interesse e di merito» (Lettera del 26 aprile 1802, in I carteggi di Francesco Melzi d’Eril duca di Lodi, Milano 1958, v. I, p. 262). Si trattava dunque di una selezione legata a criteri di opportunità politica, ma nello stesso tempo a basso rischio perché, riprendendo il giudizio di Compagnoni, «era uomo di molto talento e di assai buona indole» (G. Compagnoni, Memorie cit., p. 206).
Che la nomina fosse dettata in primo luogo da opportunità politica sarebbe stato confermato di lì a un anno. Quando nel marzo 1803 il ministro dell’Interno Luigi Villa fu colpito da colpo apoplettico, immediatamente la carica venne provvisoriamente affidata al secondo in grado all’interno dell’istituto, cioè al segretario generale Vismara. Ma nel momento in cui Melzi si consultò con Napoleone, che della Repubblica Italiana era presidente, per renderlo edotto dell’accaduto e della necessità di trovare a breve il nuovo ministro, sottoponendogli l’ipotesi di confermare il ministro provvisorio, cioè Vismara, aggiungeva, di fatto bruciandone la candidatura, «il a des talents et des connaissances, mais plutôt littéraires qu’administratives» (Lettera del 14 marzo 1803, in I carteggi cit., v. IV, p. 136). Così nell’ottobre 1803 sarebbe stato nominato nella carica di ministro Daniele Felici e Vismara avrebbe ripreso a esercitare la funzione di segretario generale.
La situazione mutò col passaggio al Regno d’Italia, nel 1805. Il significativo ricambio di prefetti che accompagnò il mutamento politico fece sì che un amministratore sperimentato e affidabile quale Vismara trovasse spazio in questo ruolo apicale, nominato per l’appunto prefetto del dipartimento del Lario (Como). In questa sede sarebbe rimasto sino al 1810, quando il ministro dell’Interno Luigi Vaccari prese a lamentare ripetutamente presso il viceré Eugenio di Beauharnais che «per comune opinione si crede esservi nel dipartimento del Lario una famiglia potente sull’animo del prefetto, onde non si possano meglio che per quella via ottenere i riguardi o i provvedimenti che si desiderano» (Lettera del 31 marzo 1810, in Archivio di Stato di Milano, Uffici e tribunali regi, p.m., c. 669). La concomitante pressione per un cambio di residenza operata da Giovanni Tamassia, che prefetto a Mantova lamentava le gravi ripercussioni sulla sua fragile salute del clima di quella città, rese possibile l’inversione di sedi: soluzione gradita ai vertici perché si trattava di due prefetti affidabili, i cui traslochi non si voleva in alcun modo che potessero essere percepiti come punitivi. Così Vismara il 25 aprile 1810 fu nominato prefetto del Mincio.
La sua condotta da prefetto, nelle due sedi in cui operò, non fu esente da censure: nel 1807 se ne lamentò la scarsa attività nelle operazioni della coscrizione (rapporto di Guicciardi del 23 febbraio 1807, Archivio di Stato di Milano, Archivio Aldini, c. 80), nel 1810 fu ammonito per la negligenza nel fare riparare la rotta del Po all’argine dei Saliceti e nel 1811 per come aveva operato all’occasione della fuga di due detenuti dall’ergastolo di Mantova (7 novembre 1810 e 4 febbraio 1811, Archivio di Stato di Milano, Uffici e tribunali regi, p.m., c. 669). Si può anche notare la parzialità con la quale aveva continuato a guardare all’ambiente religioso: colpisce la sua valutazione del clero del dipartimento del Lario, da lui definito «esemplare», con l’aggiunta che «tra i parrochi della campagna specialmente molti ne trovai di illuminati, questi tutti devoti al governo, e disseminatori delle giuste massime politico-religiose» (Relazione alla visita dipartimentale del 17 marzo 1808, Archivio di Stato di Milano, Uffici e tribunali regi, p.m., c. 22). Ma nello stesso tempo se ne rimarcavano anche le indubbie qualità. Pietro Polfranceschi, ispettore generale della gendarmeria, lo descriveva nel 1809 di «ottima morale; di molto talento, affabilità e decente economia; attaccatissimo al Governo; buono ed esperimentato amministratore» (Relazione del 19 ottobre 1809, in I carteggi cit., v. VIII, 1965, p.104). Peraltro Giovanni Villa, incaricato della direzione della Polizia generale, pur confermando le qualità e l’indubbio attaccamento al governo di Vismara, aggiungendo che «le sue maniere dolci ed obbliganti gli affezionano gli amministrati», non mancava però di rimarcare che «nelle materie di polizia ha adottato un sistema che pecca forse di troppa tolleranza» (Relazione del 2 ottobre 1809, ibid., p. 89), a riprova di un temperamento conciliante e portato alla mediazione che faceva di Vismara un prefetto per certi versi atipico, poco incline al tono impositivo che caratterizzava l’amministrazione napoleonica.
Il suo passato e in particolare la deportazione del 1800, che lo qualificava automaticamente come ‘politico’ e democratico, sarebbero stati fattori decisivi nel condurre alla brusca chiusura della sua carriera amministrativa. Al momento della caduta del Regno Italico nell’aprile 1814 egli era ancora a Mantova. Subito l’ambiente reazionario e antinapoleonico locale prese a inviare missive contro di lui a Milano, trovando nella Reggenza provvisoria di governo un soggetto sensibile.Vismara fu così sollecitato a rassegnare le dimissioni, cosa che fece l’11 luglio 1814. Rientrato a Milano covò per un momento la speranza di poter succedere a Luigi Lamberti, deceduto l’anno prima, quale bibliotecario di Brera, ma il plenipotenziario austriaco Bellegarde si limitò a concedergli una modesta pensione di 3000 lire, congedandolo (13 luglio 1814, Archivio di Stato di Milano, Uffici e tribunali regi, p.m., c. 669).
Si ritirò a vita privata, dedicandosi agli studi. Realizzò la traduzione in volgare delle elegie di Properzio, pubblicate nel 1818, opera «della quale se i più difficili critici non si mostrarono interamente contenti, riconoscono altri dotti più discreti non poche lodevoli parti» (Corniani, 1855, p. 435).
Morì a Milano il 9 gennaio 1819.
Fu membro del collegio elettorale dei dotti per il dipartimento dell’Olona e cavaliere della Corona di ferro. Si trovano varie sue lettere nella corrispondenza di Ugo Foscolo.
Pubblicò la traduzione dell’opera di Properzio: Properzio volgarizzato. I quattro libri delle elegie di Sesto Aurelio Properzio recati in versi italiani con varianti e note, 2 vol., Milano 1818. L’ Apologia dell’oblato Vismara, del 2 marzo 1800, è in Bibl. Nationale, Paris, Manuscrits Italiens-Collection Custodi, 1566, fol. 49. In Saggi di sacra eloquenza , con note ed appendici, Milano 1842, vol. I, parte I, troviamo, di Michele Vismara, due discorsi: In lode di S. Lorenzo arcidiacono e In lode di S. Gottardo vescovo. Attribuito a lui è il poemetto anonimo La deportazione, Milano 1801.
Notizie in Arch. di Milano, Uffici e tribunali regi, p.m., c. 669. Profili biografici in T. Casini, Di alcuni cooperatori italiani di Napoleone I, in Id., Ritratti e studi moderni, Milano-Roma-Napoli 1914, p. 450; F. Coraccini [ma G. Valeriani], Storia dell’amministrazione del Regno d’Italia durante il dominio francese, Lugano 1823, p. CXXXIII; E. De Tipaldo, Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti, Venezia 1834, vol. VI, pp. 281-282 (voce di G.F. Rambelli, che indica quale luogo di nascita Milano); Il Raccoglitore ossia archivi di viaggi, di filosofia, di istoria, di poesia, di eloquenza, di critica …, a cura di D. Bertolotti, Milano 1819, vol. III, pp. 126-127, nota biografica firmata A. B. (come località di nascita viene indicata anche qui Milano); Lettere edite ed inedite del cavaliere Dionigi Strocchi ed altre inedite a lui scritte da uomini illustri, a cura di G. Ghinassi, Faenza 1868, vol. II, pp. 243-244 (la sua traduzione di Properzio viene definita ‘ben mediocre’); G. Corniani, I secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento … colle aggiunte di Camillo Ugoni e Stefano Ticozzi e continuato sino a questi ultimi giorni per cura di F. Predari, vol. VII, Torino 1855, continuazione di Stefano Ticozzi, Articolo CLXII, p. 434-435. Notizie biografiche e sull’attività amministrativa: L. Antonielli, I prefetti dell’Italia napoleonica, Bologna 1983, pp. 265-267 e passim; I. Pederzani, “Teofilo a Callisto”: Giovanni Bovara da riformatore asburgico a ministro per il Culto della I Repubblica Italiana, in Ottocento romantico e civile: studi in memoria di Ettore Passerin d’Entrèves, a cura di N. Raponi, Milano 1993, p. 33. Sulle dimissioni e conseguenti vicende del 1814, M. Meriggi, Liberalismo o libertà dei ceti? Costituzionalismo lombardo agli albori della restaurazione, in Studi storici, 1981, n. 2, pp. 322-323.