MICHELOZZI, Michelozzo (Michelozzo di Bartolomeo). – Nacque a Firenze, probabilmente nel 1396, da Bartolomeo di Gherardo «de Burgundia», sarto di origini lionesi, e Antonia, fiorentina (Milanesi, in Vasari, 1878, II, p. 431)
Il padre, diventato cittadino fiorentino nel 1376, dovette assicurare alla moglie e ai suoi quattro figli – Leonardo, il M., Zanobi e Giovanni – una esistenza piuttosto agiata. Ciò sarebbe comprovato sia dal significativo ammontare delle imposte versate nel 1391, sia dal trasferimento, in data imprecisata, dell’intera famiglia in una abitazione sita in via Larga (attuale via Cavour), che finì per diventare la casa dove il M. risiedette per il resto della sua vita.
Alla fine degli anni Trenta del Quattrocento il M. sposò Francesca Galigari, non ancora ventenne, ricevendo dalla di lei famiglia la ragguardevole dote di 425 fiorini d’oro. Da Francesca ebbe cinque figli: Bartolomeo (1442), che seguì le orme del padre iscrivendosi all’arte di pietra e legname, Piero (1443), Antonia (1445), Niccolò, che ebbe una brillante carriera politica coronata con la nomina a secondo cancelliere della Repubblica (1513) e infine Bernardo, che abbracciò la carriera ecclesiastica.
Essendo cresciuto in una famiglia piccolo-borghese, si può ipotizzare che il M. – pur non avendo ricevuto gli stessi stimoli culturali e il sostegno che, nella Firenze del tempo, i ricchi mercanti e gli artigiani più affermati assicuravano ai propri figli – abbia iniziato la sua formazione sotto la guida del padre, imparando da lui a scrivere e a svolgere le prime operazioni aritmetiche.
Non ci è pervenuta alcuna notizia sugli anni della sua formazione, ma sappiamo che nel 1410 operava presso la Zecca come intagliatore di stampi in ferro per la coniazione dei fiorini (Ferrara - Quinterio, p. 12). A margine dell’attività di intaglio, con cui esordì nel mondo del lavoro appena adolescente, sviluppò, nel tempo, una notevole maestria nell’arte della fusione tanto da diventare uno specialista rinomato, cui non esitarono a rivolgersi diversi artisti, primo fra tutti il futuro «compagno» Donatello (Donato Bardi).
Pur nell’assenza di fonti dirette, è stata avanzata l’ipotesi di una collaborazione del M. con Lorenzo Ghiberti a partire dal 1417 (ibid., p. 13).
Se il linguaggio scultoreo e architettonico del M. trova le sue prime formulazioni all’inizio degli anni Venti, è sul finire del decennio che si può registrare, dall’esame delle sue opere, una perfetta assimilazione del linguaggio classico. Ciò è evidente sia nei lavori di scultura svolti per lo più in collaborazione con Ghiberti prima e Donatello poi, sia nei contemporanei interventi architettonici, condotti individualmente.
La prima opera di una certa importanza, tra quelle ufficialmente allogate al Ghiberti, cui il M. collaborò unendosi al folto gruppo di artisti impiegati presso la bottega del maestro, fu la porta nord del battistero di Firenze. Non è chiaro di che natura sia stato il contributo del M. in questa impresa, che sarebbe da fare risalire al 1420 (Krautheimer, pp. 111 doc. 34, 370), ma, molto probabilmente, riguardò un numero estremamente limitato di formelle.
Senz’altro più decisiva, ai fini della sua carriera, fu l’opera prestata dal M. nella fusione della statua di S. Matteo in Orsanmichele, commissionata dall’arte del cambio, insieme con il relativo tabernacolo marmoreo, nel 1419 a Ghiberti. Fu in questa occasione che il M. conobbe personalmente Cosimo de’ Medici, destinato a diventare in seguito il suo più importante mecenate.
È stato più volte dibattuto, senza pervenire a conclusioni certe, se sia sussistito tra i due artisti un contratto di compagnia. Sappiamo con certezza, però, che nella bottega ghibertiana il M. faceva parte di un gruppo altamente qualificato di assistenti specializzati nell’arte fusoria.
Quando nel 1424 l’arte di Calimala allogò al Ghiberti la terza porta bronzea del battistero, il M. aveva già contrattato, per lo stesso incarico, un compenso di 100 fiorini annui. La critica è concorde nel ritenere che fino al 1429 il M. sia intervenuto esclusivamente in qualità di intagliatore mentre, nei ventitré anni successivi, potrebbe avere contribuito alla rifinitura e connessione delle varie parti.
Il sodalizio con Ghiberti si interruppe nel 1425, probabilmente durante o subito dopo il viaggio che il M. e tutti i membri della bottega intrapresero al seguito del loro datore di lavoro verso Venezia. Dopo quel viaggio, infatti, potrebbe avere deciso di rivendicare per sé un ruolo di maggiore responsabilità che il vecchio maestro gli avrebbe negato, causando, così, la rottura del loro rapporto.
Tra il 1424 e il 1425 (Mather, p. 228) il M. e Donatello sottoscrissero un contratto di compagnia prolungato, dopo la prima scadenza triennale, fino al 1434. La prima delle loro realizzazioni comuni fu il Monumento sepolcrale per Baldassarre Cossa, l’antipapa Giovanni XXIII scomparso nel 1415.
Bartolomeo di Taddeo Valori, Niccolò da Uzzano, Giovanni di Averardo (detto Bicci) de’ Medici e Vieri Guadagni, in qualità di esecutori testamentari, scelsero il battistero di S. Giovanni come luogo dove collocare la tomba e il 9 genn. 1422 Palla Strozzi, rappresentante dell’arte di Calimala, concesse l’autorizzazione alla sepoltura (Lisner). Il sepolcro, collocato tra due colonne a ridosso della parete perimetrale, «pur riprendendo in parte idee medievali, esibisce la nuova maniera proponendo motivi e ornamenti “all’antica” o, in parte, desunti dalla produzione ghibertiana o brunelleschiana» (Bruschi, p. 86). Il monumento si articola in diverse sezioni scultoree, distribuite su tutto lo spazio in altezza dell’intercolumnio. A eccezione della statua del Coscia, unanimemente attribuita a Donatello, le altre sezioni del monumento sono state variamente ricondotte al M., a Pagno di Lapo Portigiani e agli altri giovani artefici che frequentavano la bottega dei due compagni. È stata anche ipotizzata, per il M., la sola mansione di fonditore, «dato il grado di cognizione tecnica raggiunto da Michelozzo dopo l’apprendistato alla Zecca e il primo sodalizio con Ghiberti» (Ferrara - Quinterio, p. 156).
Nel 1426, con i lavori per la tomba Coscia ancora in corso, il M. e Donatello, coadiuvati da altri, avviarono l’esecuzione della tomba del cardinale Rinaldo Brancacci, destinata a essere collocata nella chiesa napoletana di S. Angelo a Nilo.
Come in precedenza, Cosimo de’ Medici fu investito, per volontà del cardinale scomparso l’anno successivo, del doppio ruolo di esecutore testamentario e committente del monumento sepolcrale. Le prime lavorazioni, effettuate con il contributo di diversi scalpellini e scultori, tra cui Pagno di Lapo Portigiani e Nanni Miniato, ebbero luogo a Pisa. La ripartizione delle figure e degli elementi architettonici, sia in altezza sia in larghezza, richiama la struttura compositiva della tomba Coscia. E come nel modello fiorentino, i due artisti riproposero, seppure con esiti differenti, motivi tradizionali e ghibertiani reinterpretati «all’antica». Se l’Assunzione in stiacciato e il volto del cardinale sono stati unanimemente riferiti alla mano di Donatello, l’ideazione ed esecuzione delle parti architettoniche spetterebbero, secondo la critica, al Michelozzi.
Quando nel luglio 1429 Bartolomeo Aragazzi – l’umanista di Montepulciano già segretario di Giovanni XXIII Coscia, poi cancelliere di papa Martino V e, negli ultimi anni della sua vita, segretario apostolico – morì improvvisamente, il M. ne aveva già approntato, due anni prima, il sepolcro.
Tra il M. e gli eredi dell’Aragazzi incorsero diverse cause giudiziarie, legate a una non chiara definizione, in sede contrattuale, sia dei tempi di esecuzione dell’opera sia dei compensi da corrispondere alla chiusura dei diversi stati di avanzamento dei lavori. La tomba fu probabilmente collocata nella cappella a destra dell’altare maggiore della pieve di S. Maria a Montepulciano di cui, purtroppo, seguì le sorti. Alla fine del Cinquecento, infatti, fu avviata la demolizione dell’antica chiesa per fare posto al duomo e, nei primi due decenni del secolo successivo, quando fu eseguita la trasformazione degli altari e delle cappelle, il sepolcro fu smembrato e i singoli pezzi furono dislocati in parti diverse della chiesa.
Nel 1428 il M. e Donatello ottennero l’incarico della progettazione del pulpito del Sacro Cingolo, destinato a occupare lo spigolo esterno della nuova facciata del duomo di Prato, eretta, a partire dal 1412, sotto la consulenza di Filippo Brunelleschi.
Il contratto, sottoscritto dal solo M., faceva riferimento a un primitivo modello custodito in sagrestia, composto da un piano a sbalzo bordato da una cornice, una corona inferiore di angeli marmorei fungenti da mensole, un parapetto ripartito in sei specchiature decorate con putti reggistemma e un pilastro centrale in marmo verde parzialmente incassato nello spigolo esterno della facciata. Seguendo le linee di un nuovo progetto, i lavori procedettero molto a rilento, soprattutto per l’assenza dei due artisti che, tra il 1430 e il 1432, erano entrambi fuori Firenze, impegnati in altre opere e lavori. Nella seconda metà del 1433 il M. lavorò ininterrottamente a Prato ma, nonostante ciò, l’8 sett. 1438, nella giornata della solenne inaugurazione della sacra reliquia, l’opera risultava ancora incompleta. Il pulpito fu concepito come una grande «trabeazione pensile, costituita da un’architrave a fasce, da un alto “fregio” a pannelli con putti danzanti, e da una “corretta”, plastica cornice» (Bruschi, p. 91). I capitelli delle paraste binate che ripartiscono la fronte in riquadri sono forse gli elementi più strettamente attribuibili alla mano del Michelozzi.
Riconducibile, in termini tipologici, ai monumenti tombali Brancacci e Aragazzi, è pure il Tabernacolo del Crocifisso nella chiesa di S. Miniato al Monte (1447-48), attribuito, da Vasari in poi, al Michelozzi.
L’opera, voluta dall’arte di Calimala per mettere al riparo il crocifisso miracoloso di S. Giovanni Gualberto, fu finanziata da Piero di Cosimo de’ Medici. Collocato in asse e sul fondo della navata centrale, il tabernacolo è una rielaborazione dello schema a edicola, con una coppia di colonne in posizione avanzata rispetto a due paraste emergenti dalla parete di fondo, sormontate da una volta a botte estradossata. A eccezione di una parasta, munita di capitello corinzio quasi canonico, gli altri tre sostegni esibiscono capitelli tutti diversi tra loro, frutto di una rielaborazione di modelli antichi esperita con raffinatezza e grande libertà inventiva.
Nel 1452, circa quindici anni dopo l’ultimazione della tomba Aragazzi e nell’ultimo anno di carica, come capomastro, nel duomo di Firenze, il M. si misurò nuovamente in un lavoro di scultura.
L’arte di Calimala gli allogò una statuetta d’argento raffigurante S. Giovanni Battista, destinata a completare il dossale argenteo dell’altare maggiore del battistero di Firenze. Fusa in più parti poi saldate, la statuetta fu consegnata quello stesso anno.
Per quanto riguarda la sua attività di architetto si sa che nel marzo del 1430 il M. si era recato a Lucca, insieme con Brunelleschi, per collaborare all’esecuzione del piano di difesa idraulica sviluppato da quest’ultimo nell’ultima fase dell’offensiva militare fiorentina contro i Lucchesi. Tra il dicembre del 1430 e il gennaio dell’anno successivo fu in compagnia di Giuliano de’ Medici, prima a Venezia, poi a Verona e a Padova.
Non è chiaro il motivo di tale viaggio né sono note sia le date esatte della partenza e del ritorno a Firenze sia la durata del soggiorno in Veneto. Fu grazie all’interessamento di Averardo, padre di Giuliano, che il M., ritornato a Firenze, riprese regolarmente il suo lavoro di intagliatore alla Zecca, tacitando così il malcontento dei consoli per questa sua assenza. Ma il 27 novembre dell’anno successivo, accusato di non dedicarsi abbastanza al lavoro assegnatogli perché distratto dai propri affari, il M. fu estromesso dalla Zecca. Bisognerà aspettare il 1435 per rivedere il M. reinserito tra gli intagliatori attivi presso l’istituto di coniazione e, dall’anno successivo, sotto la direzione di Cosimo de’ Medici, «responsabile unico a pieno salario» (Ferrara - Quinterio, p. 20).
Il primo incarico come architetto riguardò la sistemazione del complesso conventuale del Bosco ai Frati di Mugello, presso San Piero a Sieve, sorto nel VII secolo per iniziativa della nobile famiglia degli Ubaldini e dai discendenti di questi venduto a Cosimo de’ Medici intorno al 1420, insieme con altri immobili sparsi nel Mugello. Il M. avrebbe diretto la ristrutturazione dell’intero complesso a partire dal 1429 (Ferrara - Quinterio, p. 165), ma è stato anche ipotizzato che sia intervenuto a partire dal 1434, dopo il rientro di Cosimo dall’esilio (Gori Montanelli, pp. 77, 131 n. 129). Condotta contemporaneamente o poco prima dei lavori di ristrutturazione della residenza medicea del Trebbio, questa impresa costruttiva del M., per la prima volta nelle vesti di architetto, è da considerarsi come un severo banco di prova dei procedimenti tecnici e delle strategie di trasformazione che l’artista adotterà in tutte le successive ristrutturazioni conventuali.
Dell’intervento al Trebbio, attribuito al M. da Vasari e confermato dai riscontri critici, possediamo un esiguo corredo di informazioni. I restauri novecenteschi, pur modificando in misura sensibile l’impianto, hanno tuttavia consentito di ricostruire l’intero iter realizzativo. Partendo dalla dichiarazione catastale presentata da Cosimo nel 1427 (Fabriczy, p. 54) la maggioranza degli studiosi ha ritenuto plausibile datare i lavori al periodo 1427-36. L’immagine esterna è quella di una villa-castello, coronata da merli e apparati a sporgere su beccatelli, concepita come un blocco compatto quadrangolare incentrato su una corte e incardinato a una massiccia torre angolare con base scarpata. Se la residenza ha conservato, seppure parzialmente, i caratteri assunti al termine della ristrutturazione michelozziana, lo spazio a margine ha subito invece una trasformazione radicale che avrebbe risparmiato solo il giardino-orto recintato, alla sinistra del complesso. Suddiviso, in origine, in otto aiuole di cui una soltanto coltivata a orto, a sottolineare la funzione soprattutto ricreativa del luogo, l’ampio appezzamento rettangolare si integra perfettamente con il pergolato che accompagna il fronte sudoccidentale della residenza, testimoniando l’estrema cura e l’affacciarsi di un nuovo gusto nel trattamento degli spazi esterni.
La residenza medicea più eminente tra quelle fatte erigere, secondo i disegni del M., nei vasti possedimenti del Mugello, fu senza dubbio la villa di Cafaggiolo. Le informazioni in nostro possesso, tuttavia, sono scarse e, soprattutto, frammentarie.
Sulla stessa data d’inizio dei lavori sono state avanzate ipotesi assai diverse, riconducibili, nella sostanza, a quelle di Fabriczy, che ha proposto il 1451 (p. 7), di Patzak, che l’ha anticipata di un trentennio (II, p. 68), fino a quella di Gori Sassoli (pp. 40 s.), secondo cui la costruzione sarebbe stata avviata intorno al 1434-38. La primitiva costruzione, di proprietà dei Medici fin dalla metà del Trecento, sarebbe stata ampliata nel periodo tra il 1359 e il 1373, assumendo la forma di un palazzo fortificato munito di corte centrale, loggia, mura difensive e fossato. Resta il dubbio, con riferimento agli interventi quattrocenteschi ascritti al M. riassumibili nel ridisegno degli interni e nella cura dei particolari decorativi, se si sia trattato di restauri o, al contrario, di ricostruzione.
Nell’amplissimo lasso di tempo di oltre un quarantennio va anche collocata la ristrutturazione, a detta di Vasari curata dal M., della dimora di Careggi, la cui proprietà fu trasferita nel 1417 da Tommaso Lippi a Giovanni di Bicci de’ Medici. La datazione degli interventi, proposta la prima volta da Patzak (II, pp. 76 ss.), tenderebbe a collocare una prima fase di lavori nel periodo 1434-40; sarebbe poi seguita una seconda e ultima fase di rifinitura, alla fine degli anni Cinquanta. Conservando, probabilmente in gran parte, l’originario assetto planimetrico, il M. intervenne regolarizzando i fronti esterni, razionalizzando l’organizzazione distributiva dei vani e, più in generale, uniformando le scelte linguistiche.
Alla fine degli anni Trenta del Quattrocento il M. poteva oramai vantare una invidiabile posizione sociale, grazie anche alla ingente somma versatagli in dote dalla moglie. Dal 1435 operò stabilmente a Firenze e dintorni, rafforzando il suo legame con i Medici. E fu proprio Cosimo, probabilmente nel 1436, ad affidargli l’incarico di progettare e dirigere i lavori di trasformazione della chiesa e convento di S. Marco, nel quartiere di S. Giovanni a Firenze.
Il cantiere fu varato nel 1437, iniziando dal corpo di fabbrica dei dormitori del convento. L’anno successivo gli interventi si spostarono nella chiesa, avviando la trasformazione della cappella maggiore – ceduta a Cosimo, per 500 ducati d’oro, dai Caponsacchi, legittimi patroni – e l’edificazione ex novo della tribuna. La chiesa fu consacrata il giorno dell’Epifania del 1442, alla presenza di papa Eugenio IV, dell’intero Collegio dei cardinali e di numerosi vescovi e personalità di spicco della città.
Ben più complesso fu l’intervento del M. a carico del convento. Gli ambienti a sudest – come la sagrestia (ultimata nel 1441), la sala capitolare, il refettorio e, al piano superiore, i dormitori – furono tutti oggetto di modifiche e trasformazioni. Fonti cinquecentesche riferiscono anche della presenza di un orto, nonché di un secondo chiostro ubicato, probabilmente, nello stesso luogo di quello attuale. Se nel disegno planimetrico generale il M., rinunciando a sovvertire le pratiche progettuali consolidate, ripropose le consuete tipologie conventuali mendicanti e domenicane, nel disegno del refettorio e, soprattutto, della biblioteca si mosse all’insegna di una maggiore libertà inventiva. Ripartito in tre navate, separate da una doppia fila di archi su colonne ioniche, il lungo volume della biblioteca è una testimonianza cristallina della sintesi michelozziana di tradizione, evidente nel disegno della pianta ispirato alla tipologia dei dormitori domenicani trecenteschi, e modernità, esibita nella tensione e nel rigore sintattico dello spazio prospettico.
All’inizio degli anni Quaranta del Quattrocento il M. era oramai un architetto saldamente affermato e, grazie soprattutto alle commesse medicee, fortemente proiettato verso ulteriori successi professionali. È dell’ottobre del 1440 il progetto presentato ai Priori di Montepulciano per la ristrutturazione degli interni e la realizzazione della nuova facciata del palazzo comunale.
È probabile che gli spazi interni siano stati ristrutturati prima che si desse corso alla realizzazione del fronte principale in travertino la cui costruzione, probabilmente per mancanza di fondi, si protrasse fino al 1465. L’ordinata articolazione ritmica dei tre ordini di bucature, il linearismo dei marcapiani e delle cornici delle finestre, la progressiva attenuazione, in termini plastici e chiaroscurali, del rivestimento lapideo in travertino, la calcolata contrazione dimensionale della merlatura, nel passaggio dalla linea di coronamento del palazzo a quella della torre, sono tutti caratteri che si ritroveranno in imprese successive, analoghe per contenuti e finalità.
Diversi studiosi, a partire da Schmarsow, hanno avanzato l’ipotesi che, sul finire degli anni Trenta del Quattrocento, il M. possa avere avuto un ruolo importante nel rifacimento della facciata della chiesa di S. Agostino a Montepulciano.
Se è vero che diversi elementi richiamerebbero modi michelozziani, è altrettanto vero che l’incerta mediazione tra le forme rinascimentali del livello inferiore e quelle tardogotiche del livello intermedio farebbe pensare, piuttosto, a un contributo, da parte del M., come responsabile delle linee generali di un intervento che l’esecutore, forse il bronzista e intagliatore Pasquino di Matteo da Montepulciano, avrebbe recepito solo in parte.
Nei primi anni Quaranta, in un contesto artistico segnato dall’affermazione della moderna architettura «all’antica», il M. riassumeva le proprie esperienze inaugurando una fase oramai all’insegna di una più spiccata aderenza ai modelli dell’antichità classica e di un impiego più maturo degli ordini architettonici. È in questo quadro che vanno inscritti gli interventi – che Cosimo, l’arte di Calimala, il Comune e la famiglia Pazzi finanziarono e che il M. in buona parte coordinò – nel complesso conventuale di S. Croce a Firenze.
Non esistono, al proposito, testimonianze dirette e le sole notizie circa la presenza e il ruolo del M. nel cantiere le dobbiamo, anche in questo caso, a Vasari (p. 442). Se nel disegno della pianta, negli esiti spaziali e nella soluzione di attacco del noviziato al corpo della chiesa, l’impianto richiama da vicino sia la sagrestia di S. Marco sia la cappella del Trebbio, è nella compresenza di elementi tanto della tradizione gotica quanto dell’Umanesimo rinascimentale (come, per esempio, le grandi trifore nel corridoio del noviziato) che più evidente è la maniera del Michelozzi. Il portale di accesso al corridoio del noviziato, insigne testimonianza della ricerca sull’antico e raffinatissima esecuzione di architettura scolpita, pur riproponendo lo schema del lavabo della sacrestia delle Messe in S. Maria del Fiore (1432), attribuito a Filippo Brunelleschi, e del Tabernacolo di Parte guelfa in Orsanmichele (1425) di Donatello, finirà per imporsi come un prototipo per tutti i portali e le finestre a edicola architravata e timpano dei decenni successivi.
Tra il 1441 e il 1446 il M. potrebbe avere avuto un ruolo forse di consulente nel completamento della chiesa brunelleschiana di S. Lorenzo anche se il suo nome non compare mai nei documenti di cantiere.
Due opere centrali della carriera artistica del M. furono il palazzo di Cosimo de’ Medici nella via Larga, iniziato tra il 1444 e il 1446, e il complesso conventuale della Ss. Annunziata, dove il M. intervenne a partire dall’ottobre del 1444.
La proprietà dell’area su cui fu edificato il «palagio» mediceo, all’angolo tra le attuali via Cavour e via dei Pucci, faceva parte di un più ampio complesso di immobili acquisiti dai Medici a partire dalla metà del Trecento. Secondo un’antica tradizione storico-narrativa, spetterebbe a Filippo Brunelleschi la paternità di un primitivo progetto che Cosimo avrebbe poi scartato. È Vasari a informarci della paternità dell’opera affermando che «Cosimo, cresciutogli lo amore, da che così bene se ne serviva, gli fece fare il modello della casa sua; la quale condusse egli [il M.] a perfezzione che ne’ dí nostri si può vedere» (1550, p. 328). Il palazzo si mostra all’esterno come un blocco murario compatto, piuttosto inconsueto nel panorama delle residenze signorili della Firenze primo quattrocentesca. La costruzione è a pianta quadrilatera, strutturata secondo una sequenza assiale di spazi in profondità: l’androne di accesso voltato a botte, il cortile porticato e il giardino. Il cortile centrale quadrato, delimitato su ciascun lato al piano terra da tre arcate su colonne prive di trabeazione – simili a quelle del portico dell’ospedale degli Innocenti del Brunelleschi (1419-27) – è il cuore dell’intero edificio, non solo perché disimpegna la corona di ambienti lungo il perimetro, ma perché condensa i caratteri di rappresentanza dell’intera fabbrica, esaltando la magnificenza dei proprietari. Per quanto nella Firenze della prima metà del Quattrocento fossero già state sperimentate nuove forme di residenza signorile, palazzo Medici finirà per imporsi come prototipo di tutti i palazzi rinascimentali.
Le origini del complesso dell’Annunziata risalgono al 1250, quando i sette fondatori dell’Ordine dei servi di Maria avviarono la costruzione di un oratorio. Le trasformazioni quattrocentesche ebbero inizio con la costruzione della sacrestia, in parte finanziata dal vescovo di Cortona nel 1438, poi trasformata in cappella gentilizia intitolata al Crocifisso. Agli inizi di ottobre del 1444, col sostegno finanziario di alcuni mecenati, fu emesso il primo pagamento a favore del M. affinché – in qualità di sovrintendente, provveditore e capomastro – curasse la progettazione e l’esecuzione tanto della tribuna quanto della nuova sacrestia. Dopo appena un paio di settimane da quel primo compenso, il patriarca di Gerusalemme, Biagio Molino, benediceva la posa della prima pietra. Risalgono al 1449 i primi lavori di adeguamento del presbiterio della chiesa per potere procedere all’innesto del corpo della tribuna. La conformazione più probabile del coro michelozziano era quella di un ampio vano circolare, ripartito in dieci settori, all’estremità dei quali si aprivano nove cappelle più un vano assiale sormontato da un ampio arcone, fungente da spazio di connessione tra la tribuna e la navata della chiesa. All’interno, otto arcate su pilastri dividevano l’invaso in due zone: un deambulatorio perimetrale e un nucleo centrale coperto a cupola su tamburo finestrato. Il progetto, già agli inizi, fu severamente criticato, per gli scarsi requisiti di funzionalità liturgica, per la disorganica soluzione di innesto dello spazio centrico della tribuna in quello longitudinale della chiesa e, più in particolare, per gli archi delle cappelle i quali, essendo stati ritagliati nella superficie ricurva del cilindro murario, risultavano, in una visione di scorcio, sgradevolmente deformati. È stato tuttavia sottolineato il valore storico di questa seconda rotonda quattrocentesca che, dopo la brunelleschiana Rotonda degli Angeli (iniziata intorno al 1435), riafferma «l’identificazione umanistica del nuovo tempio ideale con la forma centrica» (Bruschi, p. 104). Il M. uscì di scena probabilmente nel 1455 poiché, nella documentazione di cantiere prodotta a partire dal mese di aprile, non figura più il suo nome.
In un intervallo temporale che si estende dal 1445 fino al 1461, data della partenza da Firenze, il M. dette forma a un ambizioso programma edilizio, varato da Cosimo de’ Medici nel quadro di un più ampio disegno di colonizzazione del poggio di Fiesole. Fondati su un comune principio insediativo, gli interventi condotti sotto la guida del M. riguardarono la costruzione del nuovo complesso conventuale di S. Girolamo e, in posizione subordinata, la villa medicea. L’iter costruttivo, interamente attribuito al M. dal Vasari (1568, p. 443), ebbe inizio con la costruzione del convento (dal 1445 al 1451), proseguì con quella della villa (dal 1451 al 1457) e si concluse con l’edificazione della chiesa (dal 1457 al 1463).
Con il contratto stipulato il 28 febbr. 1445 con l’Opera del duomo di Firenze, per l’esecuzione della porta della sagrestia nord del duomo, il M., insieme con Luca Della Robbia e Maso di Bartolomeo, dava avvio intanto al primo di una serie di tre interventi inerenti, oltre alla porta, alla graticola bronzea per l’altare del sacramento nella cappella di S. Stefano e alla lanterna della cupola. Fu nell’agosto del 1446, quattro mesi dopo la scomparsa di Filippo Brunelleschi, che il M. assunse la carica di capomastro della cupola e della lanterna del duomo e questo ruolo lo ricoprì fino all’agosto del 1452, quando gli Operai decisero di sostituirlo con Antonio Manetti.
Il contributo del M. si risolse essenzialmente nella gestione amministrativa del cantiere e in una serie di sopralluoghi, effettuati a Carrara tra la tarda estate del 1451 e la primavera dell’anno successivo, per selezionare i marmi destinati tanto ai fusti dei pilastri quanto agli sproni radiali e per fornire tutti i ragguagli tecnico-esecutivi per il confezionamento dei singoli blocchi.
Nel 1448 il M. cessò definitivamente la sua collaborazione con la Zecca, probabilmente per l’impossibilità ormai di coniugare il lavoro d’intaglio dei ferri con l’intensa attività professionale. L’esperienza acquisita nel campo della fusione, tuttavia, non fu messa da parte, tanto che nel 1450, in collaborazione con Bartolomeo di Fruosino, il M. lavorò alla messa a punto di una campana destinata alla chiesa di S. Giovannino de’ Cavalieri, oggi S. Giovanni della Calza (Fabriczy, pp. 98 s.).
Negli anni Cinquanta il M. fu attivo a Pistoia, dove fu chiamato dall’Opera del Ceppo per progettare la chiesa (1451-56), di cui oggi non resta alcuna traccia, interna allo «spedale» omonimo, e a Firenze dove, con significativa sincronia di date rispetto agli interventi pistoiesi, oltre a curare la progettazione dello «spedale» di S. Paolo (1451, 1456-59), diresse una serie di importanti lavori di sistemazione del palazzo dei Signori.
Nel 1461 il M. si allontanò da Firenze per raggiungere Ragusa (l’odierna Dubrovnik), libera città della costa dalmata. Chiamato dalle autorità cittadine per sovrintendere ai lavori di potenziamento della cinta difensiva, il M. affrontò diversi altri temi, tra cui il ripristino del palazzo dei Rettori, gravemente danneggiato da un incendio divampato nel 1435.
Pattuita una retribuzione annua di 240 ducati, il M. iniziò a lavorare alle fortificazioni ma dopo appena un anno sorsero alcune controversie legate, probabilmente, alla scarsa presenza in cantiere. È in questo clima che maturò l’insuccesso legato al progetto di restauro e di ampliamento del palazzo dei Rettori. Nel maggio del 1464 l’opposizione delle maggiori autorità negò il permesso di sottoporre i disegni al Consiglio.
L’accordo formalizzato tre anni prima con i Rettori non fu più rinnovato e il M., desideroso di porre fine allo sgradito soggiorno e forte di un nuovo contratto, sottoscritto con Lodovico di Giovanni di Pisa, rappresentante dei fratelli Geronimo ed Edoardo Giustiniani, si imbarcò alla volta di Chios, isola dell’Egeo orientale. Non sappiamo quale fosse la materia oggetto di stipula, ma il soggiorno nell’isola greca fu per il M. l’esperienza più triste della sua vita. Nel giugno del 1466, due anni dopo la partenza dalla Dalmazia, il figlio Niccolò fu costretto a imbarcarsi da Pisa per raggiungere il padre settantaduenne, sprofondato in uno stato di grave prostrazione fisica e morale (Rubinstein). Nell’aprile del 1467 padre e figlio, a bordo di una nave anconetana, lasciarono finalmente l’isola greca. Intercettati dalla flotta veneta impegnata a scongiurare l’avanzata di Maometto II e, conseguentemente, a bloccare ogni nave sospetta transitante nel medio Adriatico, i due furono catturati e, come prigionieri, fermati ad Ancona. Tornato a Firenze con il figlio, agli inizi del 1469 il M. riassestò rapidamente le proprie finanze, grazie al sostegno e alla solidità economica della famiglia.
Il M. morì a Firenze il 7 ott. 1472 e il suo corpo fu tumulato nella chiesa di S. Marco.
La figura del M. restituisce con estrema chiarezza quell’itinerario formativo, artistico e professionale che accomuna molti dei rappresentanti di quel filone della cultura primo-umanistica fiorentina che si sviluppò a margine della ricerca brunelleschiana, della quale non accoglierà mai né, forse, le premesse né, tanto meno, le finalità. In architettura come nella scultura il M. operò all’insegna di una continuità senza scosse sia del linguaggio sia delle stesse tecniche costruttive. Quando guardò all’antico lo fece senza la preoccupazione di ricercare modelli e procedure validi universalmente, ma con una sostanziale libertà d’invenzione, contaminata dalle urgenze e necessità pratiche del cantiere, dall’empirismo artigianale frutto di un primato, quello dell’organizzazione tradizionale della bottega, tenacemente difeso e rivendicato.
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G. Doti