Microaggregati
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Microaggregati stabilizzati da ligandi: a) clusters di elementi in alto stato di ossidazione; b) clusters di elementi in basso stato di ossidazione; c) caratterizzazione strutturale di clusters con ligandi; d) analogia clusters-superfici; e) sviluppo di proprietà metalliche in clusters organometallici. 3. Microaggregati in getti molecolari: a) tecniche di produzione di clusters gassosi; b) stabilità dei clusters e ‛numeri magici'; c) evoluzione delle proprietà al crescere dell'aggregato; d) fullereni. 4. Aspetti applicativi dei microaggregati: a) microaggregati in catalisi; b) microaggregati come nuovi materiali nanostrutturali. □ Bibliografia.
1. Introduzione
La parola ‛microaggregato' è la traduzione più fedele dell'inglese cluster, letteralmente ‛grappolo'. Nel linguaggio scientifico il termine cluster viene ormai utilizzato comunemente, senza venir tradotto. Si parla di clusters a indicare raggruppamenti di oggetti, ad esempio galassie in astronomia, o variabili in matematica. In chimica e in fisica con il termine cluster si indica una nuova classe di composti, costituiti da un insieme di atomi o di molecole, con natura e proprietà particolari, intermedie tra quelle di una molecola e quelle di un solido. Il termine ‛microaggregato' riassume in sé le principali caratteristiche di questa nuova forma della materia: l'essere un insieme di altre entità - atomi o molecole, appunto - e il possedere dimensioni microscopiche, che vanno cioè da quelle atomiche a quelle di vere e proprie piccole particelle colloidali. Esempi di aggregati regolari di 13, 55 e 147 atomi sono mostrati in fig. 1.
Come è noto, la materia si può presentare in tre stati di aggregazione: nello stato gassoso, gli atomi o le molecole costituenti si trovano generalmente a distanze maggiori dal raggio d'azione delle loro reciproche interazioni; nello stato liquido e in quello solido, detti anche stati condensati, atomi e molecole sono invece generalmente molto vicini e interagiscono quindi sempre gli uni con gli altri. Immaginiamo di suddividere ripetutamente un solido, ad esempio un metallo come il nichel (Ni). Man mano che la suddivisione procede ci troveremo ad avere delle unità via via più piccole, che, per quanto piccole ci possano sembrare, contengono un numero enorme di atomi. Basti pensare che 59 grammi di Ni, cioè una quantità corrispondente all'incirca a un grammoatomo di sostanza, occupano allo stato solido un volume di qualche cm3 e contengono un numero di atomi pari alla costante di Avogadro, cioè circa 6 × 1023 atomi. Pertanto, anche suddividendo il nostro solido tante volte da ottenere particelle del peso di un milionesimo di grammo, che occupano un volume pari a circa 10-6 cm3 e hanno quindi dimensioni lineari pari a circa un decimo di millimetro, ognuna di esse conterrebbe ancora circa 2 × 1016 atomi di Ni. Una particella di queste dimensioni contiene talmente tanti atomi che le sue caratteristiche chimiche e fisiche sono ancora quelle tipiche di un pezzo di Ni dal peso di un grammo o di una tonnellata. Se però procediamo nell'opera di suddivisione, le particelle diverranno via via più piccole sino a contenere solo alcune migliaia o centinaia di atomi. È questo il mondo dei colloidi (v. Schmid, 1994), particelle con proprietà uniche già osservate nella seconda metà del secolo scorso da vari chimici, primi fra i quali Francesco Selmi, Thomas Graham e Michael Faraday.
È abbastanza evidente che le proprietà di un materiale cambiano in modo sostanziale passando da una piccola particella di qualche miliardo di atomi a un microaggregato di poche decine o centinaia di atomi, le cui proprietà, peraltro, sono completamente diverse da quelle degli atomi isolati. I microaggregati costituiscono dunque una nuova forma di aggregazione della materia, con caratteristiche che non sono proprie né dello stato liquido o solido né di quello atomico. La loro esistenza pone una serie di problemi per la chimica e la fisica della materia e apre nuove prospettive per un loro utilizzo nel campo della scienza dei materiali.
La prima domanda che si pone è, ovviamente, quanti atomi sono necessari per poter osservare la transizione dallo stato di microaggregato a quello solido (o liquido) vero e proprio. Gran parte della ricerca svolta negli ultimi anni ha avuto come scopo proprio quello di stabilire quando e in che modo avvenga la transizione da uno stato all'altro (v. Halperin, 1986). La risposta non può essere univoca, in quanto alcune delle proprietà chimico-fisiche di un cluster evolvono verso quelle del solido con andamento e rapidità differenti man mano che le dimensioni dell'aggregato aumentano. Ci sono proprietà che convergono velocemente verso quelle del solido, altre che evolvono molto lentamente, così che uno stesso aggregato può mostrare alcune proprietà simili a quelle dello stato condensato e altre molto diverse. È proprio tale varietà di comportamento a rendere questa nuova classe di materiali assai interessante non solo dal punto di vista della ricerca fondamentale, ma anche da quello applicativo.
La potenziale importanza dei microaggregati è stata intuita molto tempo fa dal chimico inglese Robert Boyle. In The sceptical chymist, del 1661, Boyle parla di ‟minuscole masse o aggregati difficili da scindersi nelle particelle costitutive", ed è proprio questo il problema fondamentale nella ricerca sui clusters. Infatti, i minuscoli aggregati di un dato elemento, una volta formatisi, mostrano la tendenza a combinarsi assieme per formare entità via via più grandi, con le tipiche caratteristiche del solido. Questo significa che lo stato di aggregazione dei clusters è di tipo metastabile, e tende a evolvere spontaneamente verso uno stato di aggregazione più stabile, come lo stato liquido o solido. Il problema è dunque quello di impedire la riaggregazione dei singoli clusters, tenendoli separati abbastanza a lungo da poterne studiare le caratteristiche ed eventualmente da poterne sfruttare le proprietà.
Solo da pochi decenni sono state messe a punto tecniche di tipo chimico-fisico per generare e analizzare microaggregati di varie dimensioni. Si possono distinguere metodi preparativi più tipicamente chimici e tecniche di tipo fisico. Nel primo caso, mediante sintesi chimica in un solvente si ottengono microaggregati di diversi elementi, principalmente di metalli di transizione, che vengono poi stabilizzati da molecole ‛leganti', le quali formano una sorta di guscio protettivo che impedisce l'ulteriore aggregazione dei singoli clusters (v. Schriver e altri, 1990). Nel secondo caso, per vaporizzazione del metallo e combinazione diretta degli atomi allo stato gassoso vengono generati microaggregati contenenti da due o tre sino a qualche migliaio di atomi (v. Benedek e altri, 1988; v. de Heer, 1993). I due approcci sono assai diversi e hanno dato origine a due discipline ben distinte. Di seguito ne verranno descritti i principî fondamentali.
2. Microaggregati stabilizzati da ligandi
Storicamente, i composti di questo tipo sono stati i primi a essere scoperti e identificati, e hanno dato origine a una nuova branca della moderna chimica inorganica, la chimica dei composti a grappolo, o composti organometallici polinucleari. Il termine cluster fu introdotto in questo contesto da F. A. Cotton, che nei primi anni sessanta definì in tal modo i complessi inorganici in cui fossero presenti due o più atomi di metallo legati tra loro da legami metallo-metallo ‟diretti e relativamente forti" (v. Cotton, 1966). Questa definizione, di per sé abbastanza generica, ha avuto una certa utilità sul piano operativo, benché l'esistenza di legami metallo-metallo ‟diretti e relativamente forti" in composti polinucleari sia risultata ambigua e assai difficile da verificare sperimentalmente.
a) Clusters di elementi in alto stato di ossidazione.
La prima grande categoria di composti organici polinucleari è costituita dai composti in cui alcuni atomi di metallo, tipicamente sei-otto, sono circondati da atomi ‛leganti' fortemente elettronegativi, ossia con spiccata tendenza ad acquistare elettroni, come il cloro (Cl), lo zolfo (S), l'ossigeno (O), ecc. In questo caso gli atomi di metallo del cluster cedono elettroni agli atomi o ai gruppi leganti che li circondano, assumendo quindi uno stato di ossidazione positivo. Molti di questi composti hanno formule tipo [M6X8] e [M6X12], dove M indica un metallo di transizione, tipo il molibdeno (Mo) o il tungsteno (wolframio, W), e X un atomo di Cl o di S (v. fig. 2). Allorché queste unità, condensate allo stato solido, vengono combinate con un terzo tipo di atomo, ad esempio il piombo (Pb), formano composti di grande interesse, le ‛fasi di Chevrel', con insolite caratteristiche elettriche e magnetiche (v. Simon, 1981 e 1994). Ad esempio, il composto di Chevrel PbMo6S8 (v. fig. 3) è risultato essere un superconduttore con una temperatura critica, TC, di 14 K. D'altra parte, non è stato sinora possibile ottenere per questa via composti in cui l'aggregato metallico contenga più di una decina di atomi; pertanto questi sistemi sono di minor interesse per lo studio dell'evoluzione delle proprietà di un aggregato in funzione del suo accrescimento.
b) Clusters di elementi in basso stato di ossidazione.
La seconda classe di composti polinucleari è costituita da gruppi di atomi di metallo, in numero variabile da due o tre ad alcune decine, completamente circondati da piccole molecole elettricamente neutre, come monossido di carbonio (CO), ossido d'azoto (NO), fosfine (PR3, in cui R indica un radicale organico: metile, etile, benzile, ecc.), e composti analoghi. Queste molecole si legano agli atomi di metallo e formano una sorta di involucro protettivo, la ‛sfera' dei ligandi, al cui interno si trova l'aggregato metallico (v. Longoni e Iapalucci, 1994). Poiché le molecole leganti hanno poca tendenza a cedere o acquistare elettroni, in questi composti gli atomi di metallo si trovano in un basso stato di ossidazione, intendendo con ciò che nella formazione del legame con i ligandi essi hanno sostanzialmente mantenuto gli elettroni che possiedono nell'atomo libero. Esempi classici di questi composti sono i clusters carbonilici del Ni, [Ni5(CO)12]2-, [Ni6(CO)12]2- o [Ni8C(CO)16]2- (v. fig. 4).
I composti polinucleari di metalli in bassi stati di ossidazione si sono rivelati assai promettenti per lo studio della transizione delle proprietà da tipicamente molecolari a parzialmente metalliche. A tutt'oggi sono stati sintetizzati per via chimica più di un migliaio di composti di questo tipo contenenti sino a cinquanta e più atomi di metallo (v. Schriver e altri, 1990). I vantaggi offerti dai clusters organometallici sono sostanzialmente legati al modo con cui vengono ottenuti, cioè mediante sintesi chimica. Ciò permette di ricavare quantità apprezzabili di materiale, dell'ordine dei milligrammi e dei grammi, e quindi consente un'accurata caratterizzazione dell'aggregato con tecniche di analisi chimico-fisica (v. anche composti organometallici, vol. I).
c) Caratterizzazione strutturale di clusters con ligandi.
In molti casi è possibile ottenere i clusters allo stato solido sotto forma di cristalli regolari. Nel caso di aggregati neutri, ad esempio Co6(CO)16, si formano solidi molecolari, mentre più spesso in soluzione si formano clusters carichi elettricamente, come [Ni5(CO)12]2-, che in presenza di controioni di dimensioni appropriate possono venire cristallizzati sotto forma di solidi ionici. Si ottengono in questo modo insiemi di aggregati metallici di identiche dimensioni immersi in una matrice dielettrica solida formata dai ligandi e dai controioni. In questi casi è possibile determinare la struttura del grappolo metallico mediante tecniche di diffrazione dei raggi X.
La struttura ai raggi X ha chiaramente messo in evidenza che il nocciolo metallico del cluster assume forme basate su poliedri regolari. Ad esempio, nel composto Ir4(CO)12 i quattro atomi di iridio (Ir) formano un tetraedro (v. fig. 5); nel Ni8(CO)8(PPh)6 gli otto atomi di Ni sono disposti ai vertici di un cubo (v. fig. 6); nel [Rh13H(CO)24]4- i tredici atomi di rodio (Rh) formano un cubo-ottaedro centrato (v. fig. 7). Non mancano nemmeno casi di simmetria pentagonale, come ad esempio in [Au13Cl2(PR3)10]3+, in cui gli atomi di oro (Au) definiscono un icosaedro centrato (v. fig. 8).
Numerose teorie sono state formulate per dar conto di questo affascinante aspetto della chimica dei composti a cluster (v. Mingos e Wales, 1990) col particolare obiettivo di stabilire come procede la crescita del microaggregato al crescere della nuclearità. Va detto però che, mentre gli esempi di composti polinucleari contenenti sino a una decina di atomi metallici sono molto numerosi, quelli di composti ad alta nuclearità, ossia contenenti qualche decina di atomi, per i quali è stata possibile una caratterizzazione strutturale ai raggi X, sono relativamente pochi (v. Chini, 1980; v. Ceriotti e altri, 1994). Alcuni di questi, come [Rh22(CO)37]4-, [Pt38(CO)44]2- e [Ni38Pt6(CO)48]6-, mostrano chiaramente un impaccamento degli atomi di metallo assai simile a quello del solido. Il [Ni38Pt6(CO)48]6- (v. fig. 9), ad esempio, ha una struttura del grappolo metallico costituita da sei atomi di platino (Pt) disposti a formare un ottaedro interno, completamente circondato da 38 atomi di Ni, a loro volta ordinati a formare un involucro ottaedrico esterno (v. fig. 10). Attorno a questo nocciolo di 44 atomi di metallo sono disposti i 48 ligandi carbonilici. Il fatto che spesso gli atomi di metallo assumano la struttura di poliedri regolari sembra suggerire che la crescita del microaggregato avvenga in modo da favorire un impaccamento compatto degli atomi e che la struttura del cluster possa essere vista come un infinitesimo frammento della struttura cristallina del metallo solido. Importanti eccezioni a questa ‛regola' sono però rappresentate da clusters di tipo polimerico nei quali una unità base, come ad esempio Pt3(CO)6, si ripete varie volte, da 2 a 6, a formare una sorta di ‛catena' in cui le varie unità sono sovrapposte l'una all'altra (v. fig. 11). Sono noti anche composti polinucleari in cui il grappolo metallico assume un impaccamento pentagonale o pseudo-icosaedrico, come ad esempio [Pt19(CO)22]4-, [Au13Ag12(PR3)12Cl6]m+ e [Au55(PR3)12Cl6]. In entrambi i casi le strutture dell'aggregato metallico non hanno corrispondenza nei rispettivi solidi cristallini. Sono noti molti esempi di microaggregati contenenti atomi di elementi come carbonio e azoto all'interno dell'aggregato metallico. Tali clusters (v. fig. 12) rappresentano utili modelli di carburi e nitruri interstiziali.
Clusters di dimensioni molto grandi, dell'ordine delle decine o centinaia di atomi, sono praticamente impossibili da ottenere allo stato cristallino e si trovano più spesso allo stato colloidale. In assenza di cristalli ben formati, la tecnica solitamente utilizzata per la caratterizzazione strutturale è la microscopia elettronica a trasmissione (TEM), benché in certi casi il nocciolo metallico sia abbastanza grande da rivelare un impaccamento regolare degli atomi metallici con tecniche di diffrazione dei raggi X. Ad esempio, in questo modo è stato possibile stabilire che gli atomi di platino (Pt) o palladio (Pd) in microaggregati colloidali di formula approssimata [Pt309phen36O30±10] e [Pd561phen36O200±20] (con phen si è indicata la macromolecola organica fenantrolina) assumono un impaccamento regolare tipico del metallo (v. fig. 13). L'esatta stechiometria dei composti colloidali, comunque, non è nota, dato che in questo caso l'esame della struttura ai raggi X - il solo che consenta di stabilire in modo preciso numero e posizione di atomi metallici e di molecole leganti - non è applicabile all'optimum delle sue potenzialità.
d) Analogia clusters-superfici.
Lo studio strutturale dei clusters organometallici ha evidenziato una serie di analogie con le superfici metalliche su cui vengano adsorbite specie atomiche o molecolari (a questo proposito, v. superfici, vol. VIII). In particolare, le distanze metallo-ligando, nonché gli angoli di legame, sono spesso assai simili quando si confrontino i ligandi di un cluster con le stesse molecole adsorbite su una ben precisa faccia cristallografica di un metallo. Non solo, ma anche i dati spettroscopici, spesso utilizzati come ‛impronte digitali' della natura di un dato ligando, sono risultati del tutto confrontabili nei due casi. Un classico esempio è rappresentato dalla molecola di monossido di carbonio (CO).
Il CO è uno dei ligandi più diffusi in chimica organometallica, ma ha una notevole importanza anche come reagente e come intermedio di reazione in catalisi eterogenea. Per questo motivo l'adsorbimento di CO su superfici di metalli di transizione è stato studiato in modo molto dettagliato. Il CO può legarsi a un atomo singolo, o a ‛ponte' tra due atomi adiacenti, o su un sito in cui l'interazione avviene contemporaneamente con tre atomi metallici: in tali casi si può parlare di carbonili lineari, a ponte doppio o a ponte triplo. Questi tipi di coordinazione sono stati osservati sia in clusters carbonilici sia su superfici solide: geometrie di legame, frequenze vibrazionali, nonché spettri di fotoemissione sono risultati del tutto confrontabili nei due casi. Ciò è dovuto al fatto che il tipo di legame, e quindi le sue conseguenze strutturali e spettroscopiche, è praticamente lo stesso sia che il CO sia legato a un cluster di pochi atomi, sia che interagisca con una superficie metallica.
Un comportamento analogo è stato osservato anche per numerose altre specie molecolari (v. Albert e Yates, 1987). Ciò ha portato, verso la fine degli anni settanta, a formulare la cosiddetta ‛analogia clusters-superfici' (v. Muetterties e altri, 1979). Il confronto di tutta una serie di dati strutturali, spettroscopici e termodinamici ha permesso di stabilire che le interazioni tra una molecola e un cluster mostrano una certa analogia con le interazioni tra la stessa molecola e una superficie metallica. Per questa ragione è possibile ottenere informazioni sulla struttura e sulla stereochimica di una molecola adsorbita su una superficie dal confronto con un analogo sistema a cluster. Va detto però che recenti studi teorici nonché nuove tecniche di indagine superficiale hanno mostrato che l'analogia clusters-superfici non può essere spinta oltre un certo limite. Essa riflette soprattutto il fatto che il legame tra una molecola e gli atomi di metallo della superficie è di natura molto locale, nel senso che coinvolge soltanto i pochi atomi direttamente a contatto con la molecola stessa e non si estende al di là di questi. Che questi atomi facciano parte di un solido esteso, come nel caso di una superficie, o che siano circondati solo da pochissimi altri atomi metallici, come nel caso di un microaggregato, fa poca differenza ai fini del legame con la molecola (v. Pacchioni e altri, 1992).
e) Sviluppo di proprietà metalliche in clusters organometallici.
Numerose tecniche di indagine chimico-fisica sono state utilizzate per lo studio della transizione delle proprietà elettroniche da molecolari a metalliche. Tra esse vanno citate le spettroscopie ottiche - in particolare infrarossa (IR), Raman, e ultravioletta (UV) -, le risonanze di spin elettronico (ESR) e magnetica nucleare (NMR), le misure di conducibilità elettrica e di suscettività magnetica, le spettroscopie elettroniche di fotoemissione diretta (X-ray Photoelectronic Spectroscopy, XPS, e Ultraviolet Photoelectronic Spectroscopy, UPS), e inversa (Inverse Photoemission Spectroscopy, IPES), le misure di assorbimento di raggi-X (Extended X-ray Absorption Fine Structure, EXAFS), la spettroscopia Mössbauer, le misure dei potenziali ossidoriduttivi, ecc. (v. Schmid, 1994; v. de Jongh, 1994). Dall'utilizzo di queste tecniche di caratterizzazione della struttura e delle proprietà elettroniche di un microaggregato emerge un quadro complessivo coerente sulle reali analogie, ma anche sulle profonde differenze, che contraddistinguono un cluster organometallico, anche di elevate dimensioni, da una superficie metallica.
La questione può essere semplicemente ricondotta al diverso rapporto tra atomi di superficie e atomi ‛interni' nelle due situazioni limite, il microaggregato e la superficie. Nel primo caso, anche quando si considerino aggregati relativamente grandi, la maggior parte degli atomi di metallo si trova in superficie. Nel già citato caso del [Ni38Pt6(CO)48]6- ci sono 38 atomi di superficie e 6 atomi interni, con un rapporto di circa 6 : 1 (v. fig. 10). Anche in un cluster di grandi dimensioni come il [Pd561phen36O200] (v. fig. 13) ci sono circa metà degli atomi sulla superficie del cluster e il rimanente all'interno, con un rapporto di 1 : 1. In una superficie metallica il rapporto tra atomi di superficie e atomi interni tende a zero, essendo questi ultimi infinitamente più numerosi. Questo diverso rapporto tra atomi interni e di superficie al variare delle dimensioni del microaggregato è ben illustrato in fig. 14.
Le molecole di ligando inducono una profonda perturbazione nella struttura elettronica degli atomi metallici con cui interagiscono (v. Rösch e Pacchioni, 1994). Questa modifica dello stato elettronico degli atomi metallici è una diretta conseguenza del legame chimico che si instaura con i ligandi e coinvolge, in prima approssimazione, solo gli atomi a diretto contatto con i ligandi, ossia gli atomi alla superficie del cluster. Si viene così a determinare una situazione per cui nell'ambito del composto polinucleare si possono distinguere due ‛tipi' di atomi di metallo, quelli che per effetto dell'interazione con i ligandi hanno modificato le loro proprietà, e quelli interni che continuano a mostrare un comportamento metallico, come evidenziato da misure di risonanza magnetica nucleare su [Pt309phen36O30] (v. fig. 15). Chiaramente, dato che gli atomi di superficie sono presenti in misura largamente superiore, le proprietà del microaggregato possono essere molto diverse da quelle di un metallo.
Un esempio di questo fenomeno è costituito dalle misure di suscettività magnetica di clusters carbonilici del Ni. Il Ni è un metallo ferromagnetico, e anche piccoli aggregati di atomi di Ni mostrano questo comportamento. Quando da un microaggregato senza ligandi si passa al cluster carbonilico, il magnetismo scompare o viene drasticamente ridotto. Ciò è dovuto al fatto che l'interazione con le molecole leganti di CO modifica gli atomi superficiali di Ni con conseguente scomparsa del comportamento magnetico. Solo gli atomi metallici interni, se presenti, restano sostanzialmente inalterati, e un eventuale momento magnetico del cluster è legato esclusivamente alla loro presenza.
Queste e altre misure hanno messo chiaramente in evidenza che i ligandi, se da una parte evitano la coalescenza dei microaggregati con formazione di vere e proprie particelle metalliche, dall'altra inducono profonde modificazioni elettroniche sugli atomi dell'aggregato e in generale sulle sue proprietà.
3. Microaggregati in getti molecolari
A differenza dei clusters organometallici, che si possono ottenere in fase condensata e, in particolare allo stato solido, anche in forma cristallina, clusters senza ligandi si ottengono principalmente allo stato gassoso (v. Benedek e altri, 1988). Come nel caso degli aggregati organometallici, anche per i clusters liberi, o ‛nudi', come a volte vengono chiamati, è utile dare una definizione operativa. In particolare, occorre distinguere cosa si intende per cluster e cosa si intende per molecola, quando si parli di specie gassose. Se ad esempio consideriamo lo zolfo (S) o il fosforo (P) cristallini e ne analizziamo la struttura, scopriremo che essi sono formati rispettivamente da anelli di otto atomi di zolfo e da tetraedri di quattro atomi di fosforo disposti regolarmente nel reticolo cristallino. Se si vaporizza il solido, il vapore in equilibrio termodinamico è formato da unità S8 e P4. Queste unità esistono quindi in natura, hanno una elevata stabilità e possono a tutti gli effetti essere chiamate molecole. Il termine cluster va più propriamente riservato ad aggregati che ‛non' si trovano in quantità significative nel vapore all'equilibrio. In questo senso, i clusters nudi costituiscono una nuova classe di sistemi e proprio in questo consiste l'interesse verso le loro proprietà.
a) Tecniche di produzione di clusters gassosi.
I primi microaggregati in fase gassosa sono stati ottenuti vaporizzando il metallo in un forno e facendolo quindi depositare sotto forma di aggregati di varie dimensioni su un substrato inerte. La deposizione su un substrato, però, non consente di selezionare le masse dei clusters che si formano, per cui la distribuzione delle dimensioni è molto variabile, da pochi atomi sino a molte migliaia. La mancanza di selettività nella formazione dei clusters ha dimostrato di essere un limite assai serio all'uso di questa tecnica. L'obiettivo, infatti, è quello di poter distinguere le proprietà di un aggregato di, poniamo, cinque atomi, da quelle di uno di sei, il che richiede sofisticate tecniche per produrre e separare un numero abbastanza grande di clusters aventi tutti le stesse dimensioni.
Agli inizi degli anni ottanta è stata messa a punto una tecnica più generale basata sulla tecnologia laser. Focalizzando il fascio di luce di un laser su un dischetto di metallo si provoca la vaporizzazione degli atomi del metallo e la formazione di un plasma costituito da atomi isolati a elevata temperatura. A questo punto nella camera di vaporizzazione viene immessa una corrente di elio che raffredda il plasma, provocando l'aggregazione degli atomi e la formazione di clusters di varia nuclearità. Questi vengono quindi fatti passare attraverso una piccola apertura in una camera ad alto vuoto, dove la differenza di pressione provoca l'espansione del getto dei clusters a velocità supersonica. In questa fase i clusters si raffreddano e si stabilizzano; si trovano però mescolati tra loro aggregati di dimensioni assai diverse, che occorre ora selezionare e dividere a seconda delle dimensioni prima di poterli studiare con tecniche spettroscopiche. Microaggregati prodotti in questo modo hanno tempi di vita media che vanno dai nano- ai microsecondi, sufficienti comunque per separarli e analizzarli.
Il metodo della vaporizzazione con laser funziona bene per materiali refrattari, ma non per elementi a basso punto di fusione, come ad esempio i metalli alcalini. Questi ultimi vengono prodotti in sorgenti ad aggregazione gassosa in cui il metallo è vaporizzato in un forno o, più recentemente, mediante un arco voltaico. Si ottengono per questa via clusters più ‛caldi' di quelli ottenuti con la vaporizzazione laser. La maggiore energia termica di aggregati prodotti per questa via permette ai clusters di dar luogo più facilmente a strutture stabili, corrispondenti a minimi di energia potenziale.
Una volta generati, i clusters vanno selezionati in base alla loro dimensione. La tecnica usata consiste nell'irradiare il getto dei clusters con un laser ultravioletto che ha un'energia sufficiente a strappare un atomo dall'aggregato e a ionizzarlo. Quindi da oggetti neutri si passa ad aggregati ionizzati, carichi positivamente, il che permette di accelerarli in un campo elettrico esterno. Questo dispositivo, noto come ‛spettrometro di massa a tempo di volo', accelera in modo diverso i vari clusters a seconda della loro massa, così che gli aggregati più piccoli raggiungono un analizzatore prima di quelli più pesanti. In questo modo i clusters vengono suddivisi per massa crescente, e quindi per numero di atomi crescente (v. fig. 16). A seconda del numero di clusters aventi una certa massa, il segnale registrato dall'analizzatore è più o meno intenso, il che consente di stabilire una diretta correlazione tra l'abbondanza di un certo tipo di aggregato e il numero di atomi da cui è formato.
Se la tecnica di produzione di clusters per evaporazione con laser si è dimostrata la più efficace, non è però la sola via percorribile. Clusters di alcuni elementi - germanio, stagno, piombo - sono stati prodotti semplicemente riscaldando il solido a elevata temperatura in un'atmosfera di gas inerte. Si produce così un gas denso formato da microaggregati di dimensioni variabili da 10 a 1.000 Å, a seconda delle condizioni sperimentali.
Sono stati prodotti e studiati anche aggregati di sistemi ionici, come cloruro di sodio (NaCl; v. fig. 17), ioduro di cesio (CsI) e composti analoghi (v. Martin, 1983). In questo caso i clusters vengono prodotti mediante bombardamento con ioni. Se un fascio intenso di ioni a elevata energia, ad esempio Xe+, viene diretto verso una superficie solida di un materiale ionico, dalla superficie vengono emessi ioni secondari che possono essere analizzati in uno spettrometro di massa. Questi ioni secondari includono non solo molecole semplici, ma anche aggregati di grandi dimensioni contenenti centinaia e a volte migliaia di atomi.
b) Stabilità dei clusters e ‛numeri magici'.
La tecnica di selezione dei clusters ha permesso di stabilire che le abbondanze relative di aggregati di diversa nuclearità sono assai differenti, e risultano molto accentuate in corrispondenza di particolari dimensioni del microaggregato. Chiaramente, l'abbondanza di un certo tipo di cluster è determinata dalla sua stabilità: clusters energeticamente più stabili hanno più probabilità di formarsi durante il processo di aggregazione. Stabilità elevate sono state osservate per certi particolari numeri di atomi, chiamati pertanto ‛numeri magici'. L'esistenza di questi numeri magici a cui corrisponde una speciale stabilità è stata poi razionalizzata grazie a un modello teorico, noto come shell model, analogo a quello quantistico del nucleo atomico (v. de Heer e altri, 1987; v. Brack, 1993). In questo modello si presume che il cluster raggiunga una stabilità particolarmente elevata in corrispondenza del riempimento completo dei livelli energetici generati da un potenziale di tipo sferico determinato dalle cariche nucleari (v. fig. 18). Questo riempimento completo avviene solo in corrispondenza di particolari numeri di elettroni e quindi di nuclei atomici. Il modello si è mostrato assai utile per spiegare i numeri magici di clusters in cui gli elettroni siano altamente delocalizzati, non legati cioè a un particolare nucleo atomico o a una coppia di nuclei, come avviene nelle molecole. Questo comportamento è caratteristico dei metalli con un solo elettrone nell'orbitale s più esterno, come gli alcalini (litio, sodio, potassio, ecc.) e i metalli da conio (rame, argento, oro). Per questi elementi lo shell model ha dato risultati brillanti. Nei casi in cui l'aggregato sia formato da elementi nei quali gli elettroni esterni occupano orbitali di tipo p e d, che non hanno una simmetria sferica come l'orbitale s, i legami tra atomo e atomo tendono a essere più localizzati e lo shell model non è applicabile.
c) Evoluzione delle proprietà al crescere dell'aggregato.
Come si è detto, una delle principali ragioni che hanno dato impulso allo studio di clusters in fase gassosa è stata quella di evidenziare in che modo si evolvono le proprietà elettroniche all'aumentare delle dimensioni. Una delle prime caratteristiche che si è riusciti a misurare è il potenziale di ionizzazione, ossia l'energia richiesta per rimuovere un elettrone dall'aggregato neutro. Ciò avviene irradiando i clusters con luce laser avente una frequenza corrispondente a una bassa energia e aumentandola via via sino a che vengono rilevati nello spettrometro di massa i primi clusters ionizzati. Riportando in un grafico il potenziale di ionizzazione in funzione della massa degli aggregati si è notato che questo diminuisce in modo non regolare e che certi aggregati mostrano potenziali di ionizzazione particolarmente alti o bassi. Ciò è strettamente legato alla struttura elettronica del cluster stesso e ne costituisce in un certo senso una caratteristica peculiare. In ogni caso, man mano che il cluster diviene più grande il potenziale di ionizzazione diminuisce e tende verso il lavoro di estrazione del metallo, anche se è soltanto con aggregati di grandi dimensioni, contenenti migliaia di atomi, che i due valori vengono a coincidere (v. Martin, 1996).
Di grande interesse per lo studio della transizione da microaggregato a solido è lo studio delle proprietà ottiche, ossia della risposta all'interazione con la luce (v. Kreibig e Vollmer, 1995). Un singolo atomo di litio ha uno spettro di assorbimento molto semplice, che consiste essenzialmente in una riga nella regione del visibile (v. fig. 19). Questo assorbimento è dovuto a una transizione elettronica dal livello 2s al livello 2p dell'atomo. Il litio metallico, d'altra parte, ha uno spettro di assorbimento completamente differente. L'assorbimento della luce è molto forte nella regione del lontano infrarosso, passa attraverso un minimo nella regione del visibile, e quindi torna a crescere nell'ultravioletto (v. fig. 19). Ciò è dovuto al fatto che fotoni a energia molto bassa come quelli del lontano infrarosso possono eccitare elettroni dagli stati del continuo appena al di sotto del livello di Fermi a stati energetici vuoti appena al di sopra di esso. In un ipotetico aggregato di una cinquantina di atomi, lo spettro di assorbimento della luce cambia ancora e un massimo di assorbimento piuttosto largo appare nel visibile. Questo assorbimento è dovuto a una eccitazione collettiva degli elettroni esterni chiamata ‛plasmone'. Il plasmone può essere considerato come un movimento collettivo di tutti gli elettroni di valenza da una parte all'altra dell'aggregato. Questo moto comporta un grosso momento di dipolo e un forte assorbimento di luce nel visibile. Quando il cluster diviene ancora più piccolo, sino a contenere pochi atomi, il suo spettro di assorbimento dipende in modo diretto dalla disposizione dei nuclei, per cui ogni cluster presenta uno spettro caratteristico e unico.
La natura dell'interazione radiazione-materia in un cluster è strettamente legata alla sua struttura elettronica. I livelli elettronici di un sistema di pochi atomi sono discreti, ossia a valori energetici ben distanziati. Al crescere del numero di atomi nell'aggregato i livelli energetici si infittiscono sino a formare un continuo dove non è più possibile distinguere tra un livello energetico e il successivo. Si parla in questo caso della formazione di bande che possono essere occupate o vuote a seconda della loro posizione rispetto al livello di Fermi. La differenza di energia tra bande occupate e vuote, chiamata anche band gap, è una importantissima caratteristica di un solido, in quanto ne determina il comportamento (metallico, isolante, o semiconduttore) (v. fig. 20). In un aggregato, molte di queste caratteristiche elettroniche non sono facilmente quantificabili sperimentalmente, mentre lo sono per mezzo di calcoli teorici basati sui principî della meccanica quantistica. Questi metodi si basano sulla risoluzione numerica dell'equazione di Schrödinger relativa a pochi atomi (sino a qualche decina) e offrono risposte assai accurate sia sulla struttura elettronica che su quella geometrica di microaggregati contenenti da pochi atomi sino a qualche decina. Grazie al rapido sviluppo dei calcolatori elettronici è oggi divenuto possibile risolvere le complesse equazioni differenziali su cui si basa il formalismo anche per sistemi di interesse pratico. Per questo motivo le indagini di tipo teorico nello studio dei microaggregati hanno acquisito di fatto un posto di importanza pari a quello di raffinate tecniche sperimentali (v. Kouteck e Fantucci, 1986; v. Rösch e Pacchioni, 1994).
Numerose altre proprietà chimico-fisiche dei microaggregati sono divenute accessibili negli ultimi anni grazie al poderoso sviluppo di nuove tecniche sperimentali (v. Haberland, 1994). È praticamente impossibile menzionare tutte queste tecniche, ma è importante ricordarne sommariamente alcune, quali le misure di clusters in campi elettrici e magnetici esterni. Questi esperimenti hanno permesso di studiare rispettivamente la polarizzabilità e il comportamento magnetico di microaggregati in fase gassosa. In particolare quest'ultimo aspetto è di grande rilevanza pratica per la comprensione di fenomeni magnetici in materiali nanostrutturali (v. cap. 4). Un'altra tecnica di notevole interesse si basa sulla misura del punto di fusione di un microaggregato. Al di sopra di una certa dimensione critica, dell'ordine almeno delle decine di atomi, questi ultimi cominciano ad assumere una struttura ordinata tale che il cluster non modifica più la sua forma ogni volta che viene aggiunto un nuovo atomo. In pratica si ha la formazione di un reticolo ordinato di atomi all'interno dell'aggregato. Se però la temperatura esterna supera un certo valore, i moti termici degli atomi scardinano tale struttura ordinata e l'aggregato si comporta come un liquido, per cui si parla di fusione. Il punto di fusione dei microaggregati, misurabile attraverso esperimenti di microscopia elettronica e con tecniche di diffrazione elettronica, è risultato assai più basso di quello del metallo.
d) Fullereni.
Una trattazione a sé merita quella classe di microaggregati di atomi di carbonio noti con il nome di ‛fullereni', di fatto un nuovo stato di aggregazione del carbonio puro, come il diamante e la grafite. A tutt'oggi la scoperta dei fullereni rappresenta uno dei risultati più interessanti della ricerca sui clusters. Nel 1985, studiando la formazione di clusters di carbonio mediante la tecnica di vaporizzazione con laser, è stato osservato che un aggregato di 60 atomi di carbonio (C60) possiede una stabilità di gran lunga più elevata di tutti gli altri clusters. Per spiegare questa eccezionale stabilità gli autori della sua scoperta, H. W. Kroto e R. E. Smalley, hanno proposto che il C60 non sia altro che un poliedro regolare formato da pentagoni ed esagoni alternati tra loro esattamente come in un pallone da calcio (v. fig. 21). Questa ipotesi, peraltro anticipata già negli anni settanta da alcune previsioni di tipo teorico, è stata confermata in anni recenti mediante diverse tecniche. Dato che per spiegare la particolare stabilità del C60 si è fatto ricorso al concetto di strutture geodesiche, il C60 è stato battezzato ‛fullerene', in onore dell'architetto Buckminster Fuller, l'inventore dei duomi geodesici. Più recentemente si è riusciti a ottenere fullereni per mezzo di un arco voltaico tra due elettrodi di grafite, condensando il carbonio evaporato e ricristallizzandolo da una soluzione di benzene. Il prodotto principale è il C60, ma si ottengono anche il C70 e fullereni con altra nuclearità. Con questa tecnica è possibile produrre quantità di materiale dell'ordine dei grammi. Si è anche scoperto che quando il C60 viene cristallizzato in presenza di potassio (K), si forma un solido di formula K3C60 con proprietà superconduttrici (v. fig. 22). Oggi si indica col nome di fullereni l'intera classe di composti poliedrici del carbonio; lo studio di questi materiali ha dato luogo allo sviluppo di un'area a sé stante, con ampie prospettive di applicazioni pratiche. Presentare un resoconto anche breve delle caratteristiche dei fullereni è impossibile in quest'ambito, per cui si rimanda il lettore interessato ad alcune rassegne sull'argomento (v. Kroto e altri, 1991; v. Curl e Smalley, 1991).
4. Aspetti applicativi dei microaggregati
L'interesse applicativo per sistemi di dimensioni più grandi di una molecola ma più piccoli di un solido - per cui è stato suggerito il nome di dimensioni mesoscopiche (v. Siegel, 1993) - è enormemente cresciuto negli ultimi due decenni. I materiali che si presentano in forma di dimensioni mesoscopiche vengono spesso chiamati ‛materiali nanostrutturali', una espressione che fa riferimento alle loro dimensioni estremamente piccole. Tra questi vanno annoverati i materiali a multistrati e i clusters. Qui di seguito verranno brevemente discusse alcune delle potenziali applicazioni tecnologiche di questi ultimi.
a) Microaggregati in catalisi.
Una delle applicazioni più promettenti dei clusters è la catalisi a scopi industriali (v. Gates e altri, 1986), per esempio nella raffinazione del petrolio, nell'abbattimento di inquinanti, o nella sintesi di prodotti farmaceutici. La catalisi ha inizio con l'adsorbimento di molecole, come ad esempio il monossido di carbonio, sulla superficie di un catalizzatore. L'interazione con il substrato, sia esso un solido metallico o ionico (catalisi eterogenea) o un complesso molecolare in fase liquida (catalisi omogenea), provoca una ‛attivazione' della molecola adsorbita, facilita la rottura dei legami chimici esistenti e la formazione di nuovi legami e quindi di nuove specie chimiche. L'efficienza di un catalizzatore dipende in larga misura dalla sua attività e selettività nel favorire la formazione del prodotto desiderato.
Sulla superficie di un solido i siti attivi su cui la reazione catalitica può avvenire sono molti e di diverso tipo, per cui in molti casi i processi di catalisi eterogenea hanno bassa selettività, intendendo con ciò che accanto al prodotto voluto si formano anche quantità non trascurabili di sottoprodotti. È evidente che la possibilità di usare come substrati per il processo catalitico microaggregati di dimensioni e forma ben definite offre la possibilità teorica di ottenere reazioni ad altissima specificità, tali da avvenire solo su un cluster con una particolare forma e nuclearità. I primi tentativi di utilizzare clusters organometallici come catalizzatori in fase omogenea risalgono agli anni settanta, quando si è avuto un forte impegno di ricerca in questa direzione. In realtà le reazioni di catalisi omogenea che fanno uso di composti organometallici polinucleari (v. fig. 23) sono poche (v. Muetterties e Krause, 1983; v. Schriver e altri, 1990), anche perché clusters organometallici sono spesso sistemi troppo stabili per risultare buoni catalizzatori. L'efficienza di un catalizzatore, infatti, dipende non solo dalla sua capacità di legare a sé i reagenti in modo da permetterne l'adsorbimento, ma anche da quella di trattenere i prodotti della reazione abbastanza debolmente da consentirne il desorbimento.
Una importante alternativa all'uso dei clusters in fase liquida è quella di depositare i clusters organometallici su un substrato inerte, di solito un ossido tipo MgO, Al2O3 o SiO2, o nelle cavità di materiali porosi, come le zeoliti. Per semplice riscaldamento il cluster perde i ligandi e sulla superficie o nelle cavità zeolitiche rimangono piccole particelle metalliche di dimensioni ben definite e con attività catalitica molto pronunciata. Queste tecniche hanno dato vita a una nuova disciplina, la chimica organometallica di superficie. L'attività catalitica di aggregati metallici è stata studiata anche in fase gassosa. Getti di clusters generati col metodo della vaporizzazione con laser sono stati fatti interagire con piccole molecole, come H2, N2, CO, NH3 e altre. Si è trovato che piccole variazioni nelle dimensioni degli aggregati possono causare enormi differenze nella reattività, avvalorando l'ipotesi di partenza che aggregati con determinate dimensioni possano presentare proprietà di adsorbimento e reattività estremamente specifiche. Un progetto al quale si sta lavorando è quello di selezionare i clusters in base alle loro dimensioni e di depositarli su un substrato in modo da renderli disponibili per usi pratici.
b) Microaggregati come nuovi materiali nanostrutturali.
L'utilizzo dei microaggregati come materiali di interesse tecnologico è ancora nella sua prima infanzia. Ciò nondimeno, l'uso dei microaggregati sembra aprire prospettive molto interessanti in alcune direzioni ben definite. Ad esempio, sottili pellicole di aggregati con proprietà elettroniche, ottiche e magnetiche speciali possono risultare di grande utilità pratica in microelettronica, nel settore delle memorie ottiche e magnetiche. È possibile che i microaggregati possano essere utilizzati anche per ottenere pellicole fotografiche ad alta risoluzione e per l'alimentazione chimica dei laser. Sono già stati ottenuti materiali ceramici per assemblaggio di microaggregati che uniscono proprietà di duttilità a quelle di inerzia termica e di durezza tipica di tali materiali.
Il campo di applicazione potenziale dei microaggregati è vastissimo e in gran parte ancora inesplorato. La ricerca sui clusters è altamente interdisciplinare e richiede competenze in settori diversi, come la chimica, la fisica, la scienza e la tecnologia dei materiali. Considerati i successi spettacolari riportati nell'ultimo decennio, è più che lecito attendersi nei prossimi anni ulteriori sviluppi che portino a notevoli avanzamenti tanto nella comprensione della struttura della materia quanto a livello tecnologico e applicativo.
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