Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Fondata su basi sperimentali da Louis Pasteur e Robert Koch nella seconda metà dell’Ottocento, la microbiologia ha stimolato l’evoluzione scientifica della medicina attraverso la definizione dei metodi per stabilire il ruolo causale degli agenti infettivi nell’eziologia delle malattie. Lo sviluppo delle tecniche microscopiche e dei metodi di indagine a livello biochimico e molecolare ha inoltre consentito di mettere ordine nella tassonomia dei microrganismi e di caratterizzare la natura e il funzionamento di strutture biologiche acellulari come i virus e i prioni.
Lo studio dei microrganismi in ambito scientifico è stato possibile solo dopo la messa a punto di strumenti e concetti capaci di analizzarne e definirne la complessa biologia. Due i filoni di ricerca che, a partire dall’Ottocento, contribuiscono allo sviluppo di questo ambito disciplinare: l’avanzamento della tecnologia microscopica e gli studi sulla natura microbica delle malattie infettive.
Fin dagli inizi del Seicento, grazie all’invenzione del microscopio, si era in grado di ingrandire di 50-300 volte piccoli campioni contenenti microrganismi. Il microscopio è andato incontro a diversi miglioramenti. Nel XIX secolo sono state inventate le lenti acromatiche, messe a punto combinazioni di lenti e i più potenti obiettivi a immersione. Nonostante le varie modifiche proposte, fra cui quella del 1919 di utilizzare i raggi ultravioletti, la vera svolta si ha con l’invenzione del microscopio elettronico, avvenuta nel 1931 a Berlino nei laboratori della Società Siemens e Halske, a opera di Ernst Ruska, che utilizza le nuove lenti elettromagnetiche. Grazie al microscopio elettronico, nel 1940 vengono ottenute le prime immagini di virus, si dimostra che i batteri sono dotati di un’organizzazione interna e, nel 1941, se ne fotografa la parete cellulare. La microscopia ha fatto un ulteriore salto di qualità con l’invenzione, nel 1981 da parte di Gerd Binnig e Heinrich Rohrer, del microscopio a effetto tunnel e a scansione che fornisce immagini tridimensionali di oggetti fino al livello atomico.
Gli sviluppi concettuali della microbiologia ricavano grande impulso dagli studi sulla fermentazione condotti nel corso dell’Ottocento, dagli esperimenti di Pasteur per confutare la teoria della generazione spontanea e dalle ricerche sulla natura microbica delle malattie infettive. Durante gli anni Novanta dell’Ottocento si sviluppano metodi capaci di rilevare la produzione di gas che si sviluppa dalla fermentazione dei carboidrati, caratteristica importante per la classificazione degli enterobatteri patogeni (batteri presenti nel terreno, nelle acque e nel tratto intestinale di uomini e animali). Con l’utilizzo di colture arricchite emerge un approccio ecologico ed evolutivo e si riescono a selezionare batteri diversamenti adattati, a farli sviluppare gli uni accanto agli altri, per poi isolarli e stabilirne le specifiche proprietà funzionali. In pochi anni fu individuato un grande numero di batteri saprofiti – organismi come funghi muffe e lieviti, che si nutrono di sostanze in decomposizione – e patogeni.
Il Novecento si apre con la crisi evidente del modello meccanicista dell’eziologia delle malattie infettive racchiuso nelle prime versioni dei cosiddetti postulati di Koch. Il medico tedesco Robert Koch aveva formulato a partire tra il 1881 e il 1884 una serie di postulati che dovevano essere ottemperati per poter affermare che una determinata malattia era causata da un agente patogeno specifico. Si trattava di usare metodi batteriologici, cioè tendenti all’identificazione morfologica e clinica del microbo, e sperimentali, cioè volti a rendere sufficiente il microbo per riprodurre la malattia in modelli animali. Di fatto, i postulati sperimentali, che insistevano sulla coltivazione del parassita e la riproduzione della malattia in animali da esperimento, risultarono subito i criteri più deboli, e nel 1890 Koch stesso riconosceva che per varie malattie, come la febbre tifoide, la difterite, la lebbra e il colera non era possibile infettare animali con colture pure e quindi ottemperare alle regole previste dal ragionamento basato su una causalità sufficiente. Nel corso del Novecento i postulati di Koch sono andati incontro a un’evoluzione che ha visto l’introduzione di strategie anche indirette per stabilire il ruolo eziologico di un agente infettivo. A partire dagli anni Trenta del Novecento vengono prese in considerazione anche le circostanze dell’infezione e l’influenza della risposta immunitaria individuale nel determinare se la malattia si manifesta o no a livello clinico, con quale gravità, e se la risposta a livello subclinico o l’esito di un trattamento possano costituire delle prove dell’avvenuta infezione e del ruolo causale di un agente anche in assenza della possibilità di identificarlo. Ma, soprattutto, furono introdotti, a partire dagli anni Cinquanta, dei criteri epidemiologici, ovvero le correlazioni statistiche basate su dati osservativi controllati. Più di recente, con l’avvento della genetica molecolare, la ricerca microbiologica si è concentrata sull’identificazione dei determinanti genetici della virulenza individuale che rende un microrganismo patogeno, fino ad arrivare alla recente riformulazione dei postulati di Koch che utilizza l’identificazione e la comparazione delle sequenze nucleotidiche degli agenti patogeni.
I batteriologi tedeschi, dalla fine degli anni Settanta dell’Ottocento in poi, lasciano da parte qualsiasi concetto generico di batteri e si concentrano sulle diverse specie batteriche. I vecchi criteri tassonomici, che si basavano su pochi caratteri biochimici, dovevano permettere di distinguere tra specie morfologicamente identiche e avevano l’obiettivo di ridurre la molteplicità delle forme di vita allo stesso ordine. La nuova batteriologia, legata anche ai problemi di sanità pubblica, si prefigge invece di riconoscere gli organismi responsabili delle malattie infettive e di differenziare questi microrganismi pericolosi dai saprofiti, morfologicamente simili, ma innocui. Nel 1909 Orla Jensen pubblica un sistema di classificazione basato principalmente sulle attività metaboliche dei batteri. La stessa strategia classificatoria viene usata tra il 1917 e il 1920 dal Committee on Characterization and Classification of Bacteria, istituito dalla Society of American Bacteriologists, per la compilazione del Bergey’s Manual of Determinative Bacteriology, dal nome del presidente del comitato, David H. Bergey; questo testo rimane il più famoso dei libri moderni sulla classificazione batteriologica. Sempre in questi anni, grazie allo studio dei processi di ossidazione biologica e all’identificazione di numerosi enzimi deidrogenati, si dimostra l’unità essenziale sottostante all’apparente diversità dei percorsi metabolici dei microbi. Nel 1924 Albert Klujer scopre che, nonostante le diverse attività metaboliche e combinazioni di enzimi e coenzimi, a livello del metabolismo energetico fondamentale la termodinamica è comune.
Negli anni Quaranta del Novecento viene applicata la genetica ai batteri. Diversi microrganismi vengono presi come modello e, utilizzando nuove tecniche biochimiche, nei decenni successivi si arrivano a scoprire le basi molecolari dell’ereditarietà, il meccanismo della sintesi proteica e quindi la possibilità di ingegnerizzare il DNA e le cellule. Le conoscenze relative al controllo dell’espressione genica emergono principalmente da esperimenti storici realizzati su procarioti o virus. Probabilmente nessun altro organismo vivente è stato studiato come l’ Escherichia coli: utilizzato in quanto è facile da crescere, possiede un piccolo cromosoma e, in condizione ottimali di temperatura e nutrienti, raddoppia ogni 15-20 minuti, producendo in poche ore miliardi di cellule identiche. Inoltre i microrganismi sono stati anche utilizzati come modelli di laboratorio per studiare il trasferimento di materiale genetico tra cellule microbiche. Nonostante i procarioti non si riproducano sessualmente, essi possono trasferire materiale genetico attraverso diversi meccanismi, come la trasformazione (cattura di DNA nudo), la transduzione (trasferimenti di DNA da una cellula all’altra attraverso un batteriofago) e la coniugazione (trasferimento diretto di DNA tra due cellule). Lo scambio genetico tra i procarioti ha permesso la diversità genetica e l’evoluzione tra questi microrganismi e ha fornito le basi per l’ingegneria genetica.
La ricerca microbiologica si è enormemente specializzata proprio a causa dei diversi microrganismi oggetto del suo studio. Ad esempio, i batteri non hanno un nucleo racchiuso in una membrana ben strutturata, e perciò sono detti procarioti, mentre funghi, alghe e protozoi sono eucarioti in quanto possiedono un nucleo; a loro volta i virus non sono né procarioti né eucarioti, ma parassiti intracelluari il cui materiale ereditario può essere sia DNA sia RNA.
Negli ultimi vent’anni del Novecento, grazie allo sviluppo delle tecniche molecolari e alla scoperta che alcuni procarioti non sono poi così diversi dagli eucarioti, è venuta meno la rigida separazione tra procarioti ed eucarioti. Così nel 1981 Carl Woese propone di classificare tutti gli organismi in tre regni distinti, Archea, Bacteria ed Eukarya, sulla base delle sequenze di RNA ribosomiale, uniche per ciascun regno, su caratteristiche come la composizione della parete cellulare e della membrana plasmatica, sui meccanismi di sintesi proteica e sulla complessità delle RNA polimerasi. Si ritiene che Archea comprenda gli organismi più primitivi, cioè un diversificato gruppo di procarioti capaci di vivere in ambienti estremi: i metanogeni (organismi anaerobi che si trovano nelle paludi e nei tratti intestinali degli animali il cui metabolismo produce metano), i solfobatteri (organismi presenti alle aperture idrotermali marine in grado di ossidare composti solforati e lo zolfo elementare), gli alofili (capaci di vivere in ambienti ad alto contenuto salino) e i termofili (che vivono in ambienti acidi e ad alte temperature). Gli altri procarioti sono classificati come Bacteria (o Eubatteri), termine che denota un vastissimo gruppo composto di centinaia di migliaia di specie di microrganismi presenti nei più diversi ambienti. Sia Archea sia Bacteria vengono raggruppati tassonomicamente in famiglie, generi e specie, innanzitutto sulla base di caratteristiche morfologiche e strutturali, come la forma, le dimensioni e le appendici cellulari, nonché sulla base dei tratti biochimici e fisiologici, i fattori di crescita necessari per coltivarli, i carboidrati che utilizzano come fonte di energia e carbonio, e i prodotti finali del metabolismo. Con lo sviluppo delle tecniche molecolari e il sequenziamento dei genomi che consentono di acquisire informazioni più accurate sui rapporti filogenetici basate sull’analisi delle sequenze di DNA ed RNA ribosomiale, la tradizionale classificazione dei procarioti sta andando rapidamente incontro a revisioni e modifiche. Le analisi molecolari sono anche importanti per la caratterizzazione della maggior parte dei procarioti che non sono coltivabili e possono essere classificati solo sulla base della composizione del DNA e dell’RNA.
Procedendo verso il basso nella scala della complessità biologica degli organismi microscopici di interesse scientifico e medico, troviamo i virus. Il termine latino virus, usato da scrittori e medici romani con il significato di “liquido melmoso” o di “veleno” sia in senso figurativo che non, è utilizzato da Louis Pasteur come sinonimo di microbo. Solo dalla fine degli anni Novanta dell’Ottocento si comincia a immaginare una natura particolare per i virus. Nel 1892 Dimitri Ivanovsky conduce alcuni studi sull’agente responsabile del mosaico del tabacco (TMV) che prende il suo nome dal fatto che causa il formarsi di macchie sulle foglie di alcune specie di piante, tra cui Nicotiana. Nel 1897 Friedrich Loeffler e Paul Frosch si occupano della trasmissione dell’afta epizootica per mezzo di un siero passato attraverso un filtro capace di trattenere i più piccoli batteri conosciuti. Tuttavia entrambi i gruppi di ricerca che non riescono a isolare nessun agente microbico responsabile delle malattie. Nel 1898 il botanico olandese Martinus Willem Beijerinck riproduce le osservazioni di Ivanovsky concludendo che il fluido stesso causa l’infezione, e parla di contagium vivum fluidum. Nonostante ciò, la spiegazione microbica continua a prevalere fino ai primi due decenni del Novecento; emerge intanto il concetto, e quindi se ne riconosce l’esistenza, dei virus filtrabili, un gruppo di microbi accomunati da tre caratteristiche: non sono trattenuti da filtri batteriologici, non sono visibili al microscopio ottico, non sono in grado di crescere su terreni artificiali.
Anche se nell’ambito di ricerche condotte fin dal 1908 viene derivata una prima ipotesi virale sull’eziologia del cancro, sarà solo grazie allo studio dei batteriofagi (o fagi), un gruppo eterogeneo di virus che invadono specificamente le cellule batteriche, che emerge in maniera definitiva la diversa natura dei virus rispetto ai batteri.
Frederick Twort nel 1915 a Londra e Félix d’Herelle nel 1917 a Parigi scoprono un fattore filtrabile, trattenuto cioè da filtri sterilizzanti nonostante la sua piccola dimensione, in grado di autoriprodursi in un ambiente batterico e distruggere il proprio ospite. Presto viene constatato che esistono dei batteri detti lisogeni, capaci cioè di produrre al loro interno batteriofagi anche in assenza di precedenti infezioni: nel 1921 Jules Bordet, direttore dell’Istituto Pasteur di Bruxelles, e Mihai Ciuca, nel corso degli studi sull’autolisi microbica su una colonia di Bacterium coli, osservano che il principio litico porta alla distruzione della maggior parte della colonia; si salvano solo alcuni microbi, capaci poi di riprodursi e passare lo stesso potere autolitico sia ai loro discendenti sia ai batteri normali con i quali vengono messi a contatto. Nello stesso anno anche d’Hérelle s’imbatte nell’identico fenomeno lavorando con la Salmonella dyssenteriae e interpreta il rapporto tra fago e batterio come un esempio di simbiosi.
Max Schlesinger, nel 1934, osserva che i batteriofagi sono composti per metà da proteine e per metà da acidi nucleici, scoperta di cui se ne riconoscerà l’importanza solo una ventina di anni dopo, quando si capirà il ruolo fondamentale degli acidi nucleici nell’ereditarietà e nella regolazione cellulare. Solo intorno agli anni Quaranta, grazie al microscopio elettronico, diventa possibile vedere le particelle virali e quindi indirizzare la classificazione dei virus sulla base della loro struttura.
Dal 1949, grazie alla tecnica della coltivazione in vitro, sarà possibile anche coltivare i virus infettando le cellule, diagnosticare quindi le malattie virali identificando la presenza di virus attraverso gli effetti citopatici e la sieropositività, e sviluppare vaccini contro le stesse malattie virali. Nel 1952 Renato Dulbecco, che precedentemente aveva maturato esperienza nello studio dei virus partecipando al cosiddetto Gruppo del fago, applica alla misurazione dei virus animali la tecnica delle placche di lisi, attraverso la quale è possibile effettuare la ricerca quantitativa delle particelle fagiche: ogni placca, infatti, corrisponde a un insieme visibile di cellule morte e quindi a una particella di fago infettivo. I risultati delle ricerche dimostrano che – come egli stesso scriverà – “il conteggio delle placche è una tecnica di analisi molto efficace” e definiscono un concetto elementare sull’azione dei virus animali: “l’infezione di un embrione è prodotta da una particella di virus”. Nel corso del decennio, Dulbecco sfrutta la stessa tecnica per osservare la crescita intracellulare del virus della polio, il suo rilascio da parte delle cellule infettate, le sue proprietà genetiche e la sua inattivazione da parte degli anticorpi.
Negli anni Sessanta del Novecento lo studio dei virus viene rivoluzionato dalle possibilità offerte dalla biologia molecolare che permettono di caratterizzare la composizione, la struttura e la funzione degli acidi nucleici e delle proteine virali. Sfruttando i progressi della cristallografia a raggi X si scopre la struttura dei virus più piccoli e grazie agli strumenti forniti dalla biologia cellulare e dalla biochimica si arriva a capire come i virus utilizzano la cellula ospite per sintetizzare gli acidi nucleici e le proteine virali.
Una novità importante nel panorama della microbiologia è stata la scoperta dei prioni. Il termine prione significa proteina infettiva (proteinaceus infectious particle), e viene coniato nel 1981 dal neurologo e biochimico Stanley Prusiner con lo scopo di definire l’ipotetico fattore, una proteina prionica (PrP), in grado di spiegare il fatto che l’infettività della scrapie (una malattia neurodegenerativa mortale delle pecore) che può essere diminuita da procedure che idrolizzano o modificano le proteine, resiste a tutti i trattamenti atti ad alterare gli acidi nucleici. Il prione e le malattie neurodegenerative causate da prioni, conosciute anche come encefalopatie spongiformi trasmissibili (TSEs, transmissible subacute spongiform encephalopathies) e di cui fanno parte, oltre alla scrapie, il kuru, la malattia di Creutzfeldt-Jacob e l’encefalopatia spongiforme bovina (BSE, bovine spongiform encephalopathy o morbo della mucca pazza) introducono in biologia e medicina casistiche contrarie alla tradizione precedente: ad esempio l’esistenza di una particella infettiva priva di acidi nucleici; la possibilità che una malattia possa trasmettersi sia infettivamente, sia manifestarsi per mutazioni ereditarie, sia sporadicamente; la presenza di una proteina la cui conformazione non è determinata in modo univoco dalla sua sequenza amminoacidica.
E infatti, se da almeno due secoli la scrapie è endemica in Gran Bretagna, nel corso degli anni Trenta del Novecento viene osservata l’elevata incidenza in alcune famiglie inglesi della malattia di Creutzfeldt-Jacob (CJD). Nel 1939 si scopre che la scrapie è trasmissibile in condizioni sperimentali, nel 1968 che si possono infettare gli scimpanzé con la CJD mediante inoculazione intracerebrale, e nel frattempo si ha la dimostrazione che altre degenerazioni spongiformi del cervello, in particolare il kuru degli indigeni degli altipiani della Nuova Guinea, sono trasmissibili. Gli agenti infettivi responsabili della scrapie e del kuru vengono chiamati lentivirus (slow virus) per lo loro lunga incubazione. Si dimostrano estremamente resistenti all’inattivazione con radiazioni UV e ionizzanti e al trattamento con formalina. Così su di essi vengono formulate numerose ipotesi, spesso in contrasto con la conoscenza scientifica antecedente. Fra tutte queste, quella proposta nel 1967 da J.S. Griffith, matematico del Berdford College di Londra, risulta essere l’unica credibile: lo studioso infatti elabora l’ ipotesi che l’agente causale della scrapie e affini malattie possa essere una proteina. Tale teoria anticipa quella che poi si sarebbe scoperta essere la vera natura di questi agenti.
La proteina prionica, infatti, sarà caratterizzata biochimicamente dallo stesso Stanley Prusiner nel 1982. Egli riesce a isolare una proteina associata alla scrapie, alla CJD, al kuru e alle altre patologie neurodegenerative spongiformi che invece non risulta essere presente nel caso delle altre malattie neurodegenerative, come la malattia di Alzheimer, il morbo di Parkinson, ecc.: parzialmente resistente alla digestione con proteasi, pare essere il costituente fondamentale se non l’unico, dell’agente infettivo di tali malattie.
Oggi, dopo un iniziale scetticismo nei riguardi dell’ipotesi dei prioni e visti i dati sperimentali, gli studi che cercavano di dare una base virale alle patologie da prioni sono diventati irrilevanti. Nondimeno continuano a esserci ricercatori che non credono ai prioni.
Nel 1986 Charles Weissmann, utilizzando le sequenze amminoacidiche parziali della PrP, clona il Dna complementare (cDNA), ossia il filamento di DNA ottenuto artificialmente come copia complementare di una molecola di mRNA, e ne ottiene il gene codificante; si scopre che la proteina prionica viene codificata da un gene umano, il Prnp, in due forme diverse: la PrPC (Proteina Prionica Cellulare) la forma normale, e la PrPSc (Proteina Prionica Scrapie), specifica della malattia resistente alla proteasi. Un’ulteriore conferma arriva nel 1993, quando si dimostra che l’ablazione genetica di Prnp protegge i topi dalla scrapie sperimentale. L’identificazione del gene per la proteina prionica cellulare (PrPC) consente di stabilire che è associato a un locus che controlla il tempo di incubazione della malattia. Grazie alle sonde di cDNA si arriva alla conclusione che il gene per la PrP si trova espresso in modo costitutivo nel cervello di adulti non infettati. Nel 1989 si scopre quindi che una mutazione del gene PrP è geneticamente associata allo sviluppo familiare di una malattia da prioni. Così viene creato un animale transgenico altamente suscettibile ai prioni, capace di dimostrare che l’espressione di un gene PrP esterno è in grado di abolire la barriera di specie. Viene anche creato un topo mancante del gene PrP, che risulterà essere resistente all’infezione da prioni.
Questi studi confermano che PrP svolge un ruolo centrale nella trasmissione e nella patogenesi della malattia da prioni e suggeriscono la possibilità di sviluppare un sistema per silenziare il gene per la proteina prionica, così da prevenire le infezioni prioniche negli animali da allevamento.
La storia delle ricerche che ha portato all’elaborazione e alla conferma dell’ipotesi del prione, alla scoperta delle caratteristiche delle malattie da prioni e agli attuali tentativi di stabilire i meccanismi che portano alla produzione della proteina prionica rappresenta uno dei capitoli più rilevanti della ricerca biologica negli ultimi decenni.