Microchirurgia
La microchirurgia si è sviluppata tra la fine del XIX e l'inizio del XX sec. attraverso l'impiego congiunto di un microscopio dedicato, strumenti e fili di sutura di piccolissimo calibro, nuove strategie e tecniche operatorie. La nascita della microchirurgia coincide con il momento più alto della chirurgia vascolare, che è consistito nell'esecuzione della prima anastomosi tra due vasi. Storicamente, essa è stata realizzata nel 1897 da John B. Murphy, ma è stato Alexis Carrel, nel 1902, a ottimizzarne la metodica, introducendo la triangolazione dei vasi per l'esecuzione di riparazioni arteriose e venose, realizzando così un'anastomosi termino-terminale. Nel 1908 Carrel propose, inoltre, alcuni metodi per l'esecuzione di trapianti e, insieme a Charles Claude Guthrie, riuscì a ricostruire l'arto di un animale amputato a livello della coscia. A partire dalla Seconda guerra mondiale, parallelamente allo sviluppo della chirurgia vascolare legato all'introduzione nella pratica clinica della terapia antibiotica e di più sofisticati strumenti chirurgici e fili di sutura, si è passati dall'era pionieristica alla moderna pratica clinica.
Nel 1960 Jules Jacobson ‒ al quale si deve l'espressione 'chirurgia microvascolare' ‒ descrisse per primo l'anastomosi tra due vasi di 1,4 mm di diametro mediante un microscopio operatore utilizzato dai chirurghi otorinolaringoiatrici per interventi sull'orecchio medio. Successivamente alcuni chirurghi plastici adattarono strumenti utilizzati dai gioiellieri, consentendo così l'allargamento delle indicazioni della microchirurgia. Nel 1962 Ronald Malt e Charles McKhann eseguirono, per la prima volta con successo, il reimpianto di un arto amputato in maniera traumatica in un ragazzo di 10 anni. Non utilizzarono, però, tecniche microchirurgiche, poiché l'arto superiore amputato a livello di 1/3 medio interessava strutture vascolari di medio calibro che potevano essere suturate con tecniche convenzionali. Nel 1963 Harold E. Kleinert e Morton L. Kasdan eseguirono il reimpianto di un primo dito di una mano parzialmente amputato. Tuttavia, per ottenere risultati positivi a lungo termine e riparare in maniera corretta vasi e nervi di piccole dimensioni è stato necessario sviluppare suture e aghi di diametro ancora più piccolo, capaci cioè di non danneggiare queste fragili strutture.
Nel 1964, al Plastic surgery research council meeting tenutosi a Kansas City negli Stati Uniti, Harry J. Buncke ha riportato il primo trapianto, coronato da successo, di orecchio in un coniglio. Questo studio sperimentale può essere definito una pietra miliare nello sviluppo della microchirurgia, perché ha dimostrato la fattibilità tecnica nell'esecuzione di anastomosi vascolari di 1 mm di diametro, fino ad allora limite invalicabile. Nel 1966 Buncke trapiantò in una scimmia il primo dito del piede sulla mano; nel 1969, insieme con Donald McLean, egli eseguì con successo il primo trapianto microchirurgico di omento per coprire una perdita di sostanza a carico delle ossa craniche. L'anno successivo Rollin K. Daniel e G. Ian Taylor utilizzarono un lembo di cute peduncolizzato per coprire un difetto cutaneo a livello dell'arto inferiore. Possiamo ora affermare che a partire dagli anni Settanta del Novecento la microchirurgia è entrata nell'era moderna del suo sviluppo.
Da sempre il reimpianto di arti affascina i non addetti ai lavori. Si ritiene che questo sia un intervento quasi sempre possibile, anche se, prima di procedere al tentativo di reimpianto, è necessario che il chirurgo analizzi numerosi fattori quali, per esempio, le caratteristiche anatomiche della parte amputata. Lesioni distali hanno in genere una possibilità di successo funzionale maggiore rispetto alle lesioni più prossimali, a eccezione comunque di quelle ultradistali, dove ristabilire un adeguato flusso vascolare è quasi sempre impossibile. Amputazioni traumatiche degli arti superiori hanno una riuscita funzionale migliore rispetto a quella degli arti inferiori. In quest'ultimo caso una buona protesi è accettata più serenamente dal paziente rispetto a un arto reimpiantato non funzionante. La frammentazione in più segmenti di uno stesso arto rappresenta una limitazione alle possibilità di riuscita dell'intervento. Il meccanismo traumatico è un altro aspetto da prendere in considerazione: lesioni da taglio nette hanno una prognosi migliore rispetto a traumi contusivi o avulsivi. L'età avanzata del paziente, un lavoro sedentario possono invece rappresentare fattori che controindicano il tentativo di reimpianto di un arto. Il , il grado di contaminazione batterica e le modalità di conservazione sono importanti per prevedere la riuscita dell'intervento chirurgico.
In particolare il tempo di ischemia è senza dubbio l'aspetto più interessante da un punto di vista fisiopatologico, in quanto in ambiente temperato il consumo di ossigeno e la formazione di radicali liberi dell'ossigeno aumentano notevolmente. Ciò può scatenare una cascata di reazioni che portano all'attivazione di cellule e citochine legate all'infiammazione. Tale fenomeno incrementa ancora di più lo spasmo arteriolare rendendo alla lunga impossibile il reimpianto. Per questo motivo i segmenti da reimpiantare devono essere conservati a basse temperature ma non devono essere surgelati (il processo di surgelamento comporta, infatti, la morte cellulare), quindi l'organo non deve mai essere a diretto contatto con il ghiaccio. Il tempo di ischemia è determinante nel predire la riuscita del reimpianto: maggiore è il tempo intercorso tra l'evento traumatico e l'inizio dell'intervento ‒ anche se il segmento è stato conservato in maniera ottimale ‒ minori saranno le possibilità di riuscita.
Indicazioni assolute al reimpianto sono rappresentate da amputazioni che coinvolgano più dita della stessa mano, dall'amputazione singola del primo dito, dalle amputazioni della mano a livello del palmo o del polso e da tutte le amputazioni che si verifichino nell'infanzia. In letteratura vi è ancora grande discussione circa le indicazioni, considerate relative, in caso di perdita di un solo dito a esclusione del primo e del quarto. Possiamo invece considerare controindicazioni assolute al reimpianto: amputazioni a livello di 1/3 medio dell'avambraccio in presenza di tempi di ischemia superiori alle 6 ore; lesioni concomitanti che mettano in pericolo la vita del paziente; lesioni a più livelli; traumi contusivi o avulsivi gravi; contaminazione batterica importante; pazienti con rischio operatorio elevato per la concomitante presenza di fattori di rischio o patologie associate; casi di lesioni autoprovocate in pazienti in trattamento psichiatrico. In breve l'intervento chirurgico consiste, nella prima fase, nella stabilizzazione ossea seguita dalla sutura tendinea, delle arterie e dei nervi. In ultimo si dovrà provvedere al ripristino del drenaggio venoso. Questo tempo operatorio è in realtà il più delicato poiché le vene sono estremamente fragili e di diametro ridotto e pertanto possono facilmente andare incontro a trombosi intra- o post-operatoria causando il fallimento dell'intervento chirurgico. Pertanto viene consigliato l'utilizzo di anticoagulanti sistemici (in particolare l'eparina) per cercare di impedire il processo di trombosi. Non è però provato che l'uso di farmaci inibenti la coagulazione permettano una maggiore riuscita del trapianto; è noto infatti che il fallimento precoce di un'anastomosi vascolare è legato per lo più a problemi tecnici, dovuti alla necessità di intervenire su strutture di calibro millimetrico.
Un'altra applicazione della microchirurgia è rappresentata dal trapianto libero (free flap) di porzioni di tessuto non essenziale da una zona a un'altra per ripristinarne la forma e/o la funzione. La caratteristica essenziale del tessuto trapiantato è quella di avere un'arteria e una vena capaci di permettere l'adeguato apporto di ossigeno e di nutrienti. I vasi arteriosi e venosi dell'autotrapianto vengono anastomizzati su quelli di calibro adeguato della zona ricevente. La chirurgia ricostruttiva della mammella a seguito di asportazione per neoplasia è un'altra indicazione all'utilizzo di tecniche microchirurgiche. Il metodo migliore per la ricostruzione dell'organo, oltre a essere efficace e accessibile a tutti i pazienti, non dovrebbe causare danni a livello della zona donatrice ed essere capace di ripristinare l'estetica della mammella, ricordandone la forma anatomica e le caratteristiche. Il confronto con gli impianti protesici dimostra che la ricostruzione con materiale autologo permette di ottenere un seno ptosico, molle e simmetrico, quindi più naturale rispetto a quello ricostruito con materiale protesico.
Trapianti liberi muscolocutanei del trasverso dell'addome (TRAM flap, Transverse rectus abdominis musculocutaneous flap), trapianti sostenuti dai rami perforanti dell'arteria epigastrica inferiore (DIEP flap, Deep inferior epigastric perforator flap) e trapianti alimentati dall'arteria epigastrica superficiale inferiore (SIEA flap, Superficial inferior epigastric artery flap) consentono di migliorare significativamente i risultati a distanza delle ricostruzioni autologhe della mammella, migliorandone sensibilmente l'estetica. Questo tipo di trapianto è chirurgicamente più complesso e ha bisogno di tempi operatori più lunghi. Il TRAM flap rimane ancora oggi il metodo più popolare per le ricostruzioni autologhe. Le moderne tecniche di chirurgia ricostruttiva della mammella che utilizzano il TRAM flap permettono un adeguato apporto ematico destinato al trapianto e hanno minimizzato difetti nella parete anteriore dell'addome, sede dell'espianto.
Il trapianto TRAM libero necessita del microscopio operatorio per la sua esecuzione. L'intervento consiste nell'asportazione di una porzione del muscolo retto dell'addome e della fascia che lo ricopre. Il flap viene preparato direttamente sull'arteria e la vena epigastrica inferiore e viene anastomizzato sui vasi ascellari, o sull'arteria e vena mammaria interna, o sui rami perforanti dell'arteria e vena mammaria interna che forniscono il loro apporto ematico al muscolo grande pettorale. Per evitare complicanze nella sede donatrice sono stati introdotti i flap DIEP e SIEA. Il primo richiede una tecnica chirurgica meticolosa, ma offre un tasso di complicanze nettamente inferiore rispetto agli altri interventi, e pertanto quando un chirurgo è in grado di eseguire questa operazione in genere la preferisce agli altri. Il SIEA è attualmente scarsamente utilizzato. Sono state descritte altre tecniche chirurgiche che coinvolgono il prelievo di flap muscolocutanei dal muscolo grande dorsale o dal muscolo grande gluteo.
È interessante notare come nel corso degli ultimi decenni si siano sviluppate tecniche chirurgiche che coinvolgono l'utilizzo del microscopio operatore, in alcune patologie dell'età pediatrica come la malattia del giunto pielo-ureterale, patologia delle prime vie urinarie caratterizzata da una dilatazione delle pelvi e dei calici renali secondaria a un'anomalia transitoria o permanente, intrinseca o estrinseca della giunzione pielo-ureterale. La pielo-ureteroplastica mediante tecnica microchirurgica è preferibile nei neonati perché riduce l'incidenza di complicanze legate a deiscenze o stenosi postanastomotiche. Anche nelle forme gravi di ipospadia, un'anomalia del pene caratterizzata da una ectopia del meato uretrale esterno, è possibile utilizzare tecniche di microchirurgia che sembrano consentire la realizzazione di suture più sicure, precise e agevoli, riducendo il rischio di complicanze legate a fistole e stenosi. Il trattamento chirurgico del addominale ha subito negli ultimi anni un notevole progresso grazie all'introduzione della microchirurgia; permettendo di eseguire anastomosi vascolari su vasi di piccolo calibro, ha aperto la strada prima all'autotrapianto testicolare secondo Sherman Silber e poi all'autotrapianto testicolare secondo Remigio Domini.
Quest'ultimo, a differenza dell'autotrapianto completo, prevede l'esecuzione della sola anastomosi vascolare fra vena spermatica interna e vena epigastrica inferiore basandosi sull'assunto, dimostrato su modelli sperimentali animali, che il circolo arterioso deferenziale, grazie alla presenza di anastomosi preesistenti fra l'arteria deferenziale e l'arteria spermatica a livello del polo testicolare inferiore, sia sufficiente a sostenere il testicolo sia dal punto di vista trofico sia funzionale. Dal punto di vista tecnico l'intervento prevede la preparazione del deferente, della vena spermatica e di quella epigastrica, seguito dal confezionamento dell'anastomosi venosa microvascolare. Anche nel trattamento del sono state proposte tecniche microchirurgiche che si prefiggono di migliorare i risultati della chirurgia tradizionale gravati da una certa percentuale di insuccessi legati a recidive, idroceli secondari e atrofie testicolari. Fra le tecniche microchirurgiche per la correzione del varicocele, Emanuele Belgrano ne ha introdotta una estremamente pratica e che sembra dare buoni risultati a distanza. Tramite un approccio inguinale classico si vanno a isolare la vena spermatica interna con i suoi collaterali e la vena epigastrica. L'intervento procede con la legatura e la sezione di entrambe le vene e, con l'uso del microscopio operatore, al confezionamento di un'anastomosi spermatico-epigastrica termino-terminale. Si tratta di una tecnica che consente di risolvere in maniera relativamente semplice e poco traumatizzante i problemi legati al varicocele.
La complessa embriogenesi della gonade maschile e delle vie seminali predispone allo sviluppo di uno spettro di anomalie congenite che hanno una rilevanza clinica per le problematiche legate alla fertilità. L'atresia segmentaria del dotto deferente, a qualunque eziologia possa riferirsi, dovrebbe necessariamente essere trattata con tecniche di microchirurgia. La porzione atresica viene asportata e successivamente bisogna procedere al confezionamento di una anastomosi fra i due capi, al fine di ricostituire la continuità della via seminale. Le basi delle moderne tecniche microchirurgiche per anastomosi sono state proposte da Stan S. Schmidt (1982) e Silber (1984). Quest'ultima sembra più idonea nei casi in cui vi sia una discrepanza di calibro notevole fra i due capi del dotto deferente. Nei casi di deconnessione epididimo-deferenziali la microchirurgia ha permesso di confezionare anastomosi epididimo-deferenziali in duplice strato, che sembrerebbero più funzionali delle tecniche classiche di affondamento del deferente nell'epididimo.
La microchirurgia nel trattamento dei linfedemi ha aperto nuovi orizzonti terapeutici in quanto, in contrapposizione alle tecniche tradizionali, che mettevano in atto una terapia solo sintomatica, ha consentito la realizzazione di una terapia eziologica mediante il confezionamento di anastomosi linfatico-venose. In Italia è soprattutto l'Università di Genova a occuparsi di questo interessante, ma talvolta frustrante, aspetto della chirurgia, ancora oggi estremamente complesso, per la difficoltà di scelta del migliore intervento e del corretto timing, e tuttora gravato da una discreta quota di insuccessi. In letteratura esistono numerose varianti tecniche, ma sostanzialmente le anastomosi linfatico-venose vengono eseguite mediante un'incisione a livello del triangolo di Scarpa (regione inguinale), che permette di individuare la vena grande safena e un collettore linfatico di calibro adeguato che devono essere congiunti per permettere un buon drenaggio linfatico. Attualmente i risultati a distanza di questi interventi permettono di proporre tale tecnica come un'opzione terapeutica, dopo il fallimento del trattamento medico sintomatico nei pazienti nei quali la condizione patologica non venga accettata.
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