Microottica
Non sono molti i settori della fisica che, nell’ambito del generale progresso tecnologico dei primi anni del 21° sec., stanno mostrando anche particolari segni di vitalità scientifica e di innovazione concettuale. Fra questi si può indubbiamente segnalare l’ottica. Da tale punto di vista, anzi, questa scienza offre effettivi motivi di curiosità e di interesse culturale, se si considera che tra le discipline fisiche essa ha origini fra le più antiche – Euclide, autore del trattato Optiká, visse intorno al 300 a.C. circa – e ha avuto, tuttavia, un’evoluzione segnata da frequenti e brusche fasi di progresso. Questa vitalità non sembra essersi ancora esaurita, dal momento che in anni recenti nuove ricerche, prototipi, brevetti e applicazioni stanno configurando diverse linee di sviluppo, per il cui insieme è stato introdotto il termine di microottica.
Con questo saggio s’intende mettere in evidenza il principale comune denominatore di tali linee, ovvero la forte riduzione delle dimensioni fisiche di componenti (lenti, specchi, prismi ecc.) e di schemi funzionali, sia derivati da configurazioni ottiche convenzionali sia progettati su basi del tutto nuove. La situazione che si va delineando, in realtà, mostra un quadro molto più vario e complesso, con l’emergere di significative relazioni fra diversi campi della fisica e della ricerca in generale, e con prospettive di forte impatto sul fronte dell’innovazione scientifica (Sinzinger, Jahns 2003). Va infatti considerato che l’ingresso nel mondo microscopico e submicroscopico presuppone, innanzitutto, di operare per la prima volta concretamente con strutture di dimensioni confrontabili con la lunghezza d’onda della luce o persino minori. Inoltre, può comportare l’interazione con forze e processi chimico-fisici finora rimasti al di fuori del consueto campo dell’ottica, con risultati nuovi e, a volte, sorprendenti e inattesi. Infine, si osserva una concomitanza dei più diversi aspetti della teoria e di fenomeni ottici che, invece, si presentano per lo più separatamente nei dispositivi macroscopici. Da tutto ciò deriva una notevole varietà di implicazioni scientifiche ed emergono forti elementi di novità anche sul piano concettuale.
Questo scenario colpisce particolarmente se si considera come l’esigenza di miniaturizzazione, nata principalmente da motivi applicativi/commerciali, si stia attuando, di fatto, attraverso eccezionali progressi tecnologici, specie nell’ambito delle nanotecnologie. D’altra parte, il fatto che da spinte applicative e tecnologiche derivino anche i progressi del pensiero speculativo non è nuovo nella storia della scienza. Nell’ottica, una tale felice circostanza si verificò, per es., allorché il cannocchiale rimase legato al nome di Galileo Galilei, anche se egli perfezionò uno strumento inventato da altri, che ne avevano però individuato solo la funzione militare. Lo scienziato ebbe infatti per primo la fantasiosa e rivoluzionaria idea di volgere lo strumento al cielo, aprendo gli occhi e il pensiero razionale dell’umanità sull’infinito e facendo così nascere l’astronomia moderna.
Per comprendere la rilevanza e la potenza innovativa dei più recenti sviluppi dell’ottica, è bene ricordare brevemente quanto sia importante il contributo già fornito da questa scienza alle più diverse tecnologie e applicazioni della vita quotidiana. La maggior parte di tali applicazioni nasce all’interno della cosiddetta ottica classica, nella quale viene considerata unicamente la natura ondulatoria della radiazione luminosa. Molte di esse si basano addirittura sul modello approssimato che considera la luce come un semplice flusso di energia, con elementari regole di propagazione, riflessione e rifrazione (ottica geometrica). Il campo applicativo si allarga molto, invece, se vengono presi in considerazione anche i dispositivi che sfruttano la natura corpuscolare della luce e la sua interazione con la materia (ottica quantistica), oppure se si guarda alle interessanti prospettive aperte dallo sviluppo di schemi che replicano quelli dell’elettronica (fotonica).
Tutti questi diversi aspetti sperimentali e approcci teorici si ritrovano nel campo della microottica, insieme a settori più specifici, quali l’ottica diffrattiva, e innovativi, quali l’utilizzazione di materiali artificiali ingegnerizzati su base submicroscopica (metamateriali). La microottica rappresenta quindi, più che una nuova disciplina, l’evoluzione stimolante e in veloce sviluppo di tutto un settore della fisica. Infatti, nell’ambito del generale interesse verso dimensioni sempre più piccole rappresentato dalle nanotecnologie, si parla già di nanoottica e di nanofotonica.
Si cercherà qui di fornire un quadro generale di tale complessa situazione, mettendone soprattutto in risalto gli aspetti di innovazione scientifica e concettuale. Non sarà trascurato l’aspetto più tecnico e applicativo, non soltanto per mostrare come la microottica sia in grado di cambiare concretamente la nostra vita quotidiana, ma anche per dare un’idea di come, nel metodo scientifico, teoria ed esperimento siano sempre in strettissima relazione. Alcune realizzazioni sperimentali saranno descritte in maniera dettagliata, soprattutto per mostrare la dipendenza fra i progressi scientifici e quelli tecnologici. Si farà moderato uso di concetti di ottica generale, cercando, per quanto possibile, di offrirne di volta in volta una semplice descrizione, e rimandando a testi specifici per una spiegazione più approfondita.
Dall’ottica alla microottica
Il ruolo dell’ottica integrata
Da un punto di vista storico ed epistemologico, si può ritenere solo in parte che la spinta alla nascita della microottica sia derivata da una necessità di replicare a livello microscopico alcuni schemi ottici convenzionali. È comunque certo che l’impegno di ricerca e di tecnologie che ne è scaturito ha rapidamente portato ben oltre quell’iniziale obiettivo, avendo condotto allo sviluppo di idee e configurazioni assolutamente nuove. Laboratorio naturale di tale sperimentazione è stata l’introduzione delle fibre ottiche nel campo delle telecomunicazioni, a breve e lunga distanza, iniziata nell’ultimo quarto del 20° secolo. In quella fase sono emerse esigenze quali la compatibilità fisica con le dimensioni delle fibre, una sempre maggiore concentrazione di apparati di elaborazione, la necessità di strategie tecnologiche e sui costi commerciali. Tali motivi hanno condotto alla nascita della cosiddetta ottica integrata, con la quale s’intende la ricerca per l’integrazione su uno stesso microcircuito (chip) di dispostivi ottici, elettronici ed elettroottici.
La comparsa dell’ottica integrata ha fatto sì che il grande impegno progettuale e tecnologico che, negli anni precedenti, aveva caratterizzato la miniaturizzazione dell’elettronica, cominciasse a essere indirizzato anche all’ingegneria ottica. In breve tempo è stata sviluppata, ad altissimi livelli, la capacità di realizzare componenti ottici in miniatura, quali lenti, specchi, polarizzatori, reticoli diffrattivi, sulla superficie e all’interno di sottili strati di silicio (wafers). Questo materiale, dotato di particolari proprietà, utili per la realizzazione di dispositivi elettronici, presenta anche una serie di vantaggi per quanto riguarda le proprietà ottiche: per es., permette facilmente la formazione controllata di ossido con un valore dell’indice di rifrazione molto diverso da quello dell’elemento. Sfruttando questa differenza di valori, per il fenomeno della riflessione totale, descritto in seguito, diventa possibile ricavare nello stesso silicio percorsi obbligati per la luce (guide ottiche) che colleghino fra loro i diversi microcomponenti, fino a formare veri circuiti ottici. Per realizzare queste strutture si utilizzano particolari tecniche litografiche e di fotoincisione, derivate da analoghe e ben consolidate procedure sviluppate per i chip e i microchip puramente elettronici. Sono state introdotte anche altre metodologie, quali la scrittura diretta tramite fasci laser focalizzati con estrema precisione. Sugli stessi wafers, direttamente sul silicio o mediante deposizione di materiali emettitori di luce, si costruiscono anche le microstrutture che costituiscono i componenti elettronici e quelli elettroottici. Questi ultimi sono proprio quelli che realizzano il collegamento (integrazione) fra il segnale in forma elettrica e quello in forma ottica. Possono essere sorgenti, rivelatori, modulatori o amplificatori di luce, e sono necessari per la gestione del flusso di informazioni trasportate dalla radiazione.
Un nuovo contesto per i fenomeni ottici
In questo ambito tecnologico – in cui emerge la necessità di confrontare geometrie, strutture e materiali con dimensioni che si spingono fino alla lunghezza d’onda della luce – si pongono anche le basi dei più recenti e innovativi sviluppi scientifici. Si cominciano a studiare approfonditamente e a trasformare in concrete applicazioni fenomeni quali l’onda evanescente, ossia quella parte del campo elettromagnetico che si propaga nelle regioni proibite dalle regole di rifrazione dell’ottica geometrica. Il processo, per alcuni aspetti affascinante, si verifica quando un raggio di luce che si diffonde all’interno di un materiale trasparente, per es. il vetro, raggiunge e incide sulla superficie di separazione con l’esterno (per es., l’aria). Secondo l’ottica geometrica, per certi valori dell’angolo di incidenza il raggio viene completamente riflesso all’interno senza che alcuna parte della radiazione riesca a essere trasmessa nell’aria (riflessione totale). In realtà, la teoria completa dell’ottica ondulatoria prevede che una certa frazione del campo elettromagnetico associato all’onda luminosa si spinga oltre la superficie, attenuandosi progressivamente nello spazio esterno, per distanze confrontabili con la lunghezza d’onda della luce, ovvero meno di 1 μm (milionesimo di metro). Questa onda evanescente (o onda di superficie) non sottrae intensità all’onda che viene riflessa all’interno, e non c’è alcun sistema con cui sia rivelabile direttamente. Di fatto, dal punto di vista fisico è come se non esistesse, per cui l’ottica geometrica sembra descrivere la realtà perfettamente. Basta, però, che alla superficie del vetro venga avvicinata a sufficienza la superficie di un altro vetro perché questa ‘catturi’ l’onda evanescente e la trasformi in un raggio luminoso che entra ed è trasmesso nel secondo vetro. In corrispondenza di questo fenomeno, si osserva una forte diminuzione dell’intensità del raggio riflesso all’interno. L’aspetto sorprendente è che la diminuzione della riflessione alla superficie vetro/aria avviene senza che vi sia contatto con il secondo vetro. È come se la luce che incide sulla superficie dall’interno ‘sapesse’ se al di fuori c’è soltanto aria oppure, a breve distanza, un altro vetro. Nel primo caso rinuncerà a uscire in un mezzo in cui le è proibita la propagazione, mentre nel secondo caso si lancerà nel breve interspazio d’aria come in un salto fra due sponde di vetro. Naturalmente il fenomeno non ha nulla di paradossale nell’ambito della teoria elettromagnetica ondulatoria, ed era ben noto e verificato in esperienze di laboratorio, ma senza alcuna applicazione pratica. Attualmente, processi legati all’onda evanescente vengono invece comunemente applicati in dispositivi microscopici, all’interno di chip ottici, per scambiare in modo controllato la radiazione fra due o più guide d’onda. Applicazioni più innovative e versatili stanno per essere rese possibili dallo sviluppo delle tecnologie costruttive su scale sempre minori, in combinazione con l’impiego di altri fenomeni ottici che saranno descritti in seguito. Per es., l’onda evanescente può essere utilizzata per esplorare l’ambiente immediatamente esterno alla guida ottica, e quindi servire di base per avanzati sensori biochimici per liquidi e soluzioni.
Un altro fenomeno, il cui studio è iniziato nell’ambito dell’ottica integrata e la cui applicazione sta recentemente raggiungendo notevoli livelli di raffinatezza e diversificazione, si basa sui microscopici reticoli diffrattivi definiti specchi di Bragg. I processi ottici diffrattivi, che verranno esaminati più in dettaglio in seguito, derivano dalla natura ondulatoria della luce e si manifestano con la deviazione dalle leggi dell’ottica geometrica, la quale prevede la propagazione dei raggi luminosi lungo linee rette o secondo semplici leggi di riflessione e rifrazione. In realtà, quando un’onda incontra strutture di dimensioni confrontabili con la sua lunghezza d’onda λ può essere diffratta contemporaneamente in diverse direzioni, in funzione della geometria e delle dimensioni della struttura rispetto a λ. Questo fenomeno permette di riflettere, deviare o filtrare la luce in funzione della sua lunghezza d’onda, e può essere utilizzato nelle tecniche di multiplexing e demultiplexing del segnale trasportato dalla luce, analoghe a quelle utilizzate per trasmettere contemporaneamente più conversazioni sullo stesso cavo elettrico telefonico. Un reticolo di Bragg, nella sua più semplice forma unidimensionale, si può realizzare con una struttura composta da due o più materiali con indici di rifrazione diversi disposti su strati alterni. Ciò viene fatto, per es., all’interno di una guida o di una fibra ottica con diametro dell’ordine di 1 μm. In pratica, la costruzione può avvenire per deposizioni successive dei diversi materiali, tramite consuete tecniche di crescita controllata, oppure cambiando localmente a livello micrometrico l’indice di rifrazione di un unico materiale trasparente. Recenti studi sperimentali hanno mostrato come questa metodologia possa essere portata ad alti gradi di potenzialità tramite l’impiego di una sorgente di radiazione laser con durata dell’impulso dell’ordine di 10−15 s. In tal modo si riescono a ‘scrivere’ reticoli tridimensionali con una risoluzione di 0,5 μm all’interno di un materiale trasparente. Lo stesso laser può anche essere utilizzato, in condizioni operative diverse, per realizzare la guida ottica all’interno della quale si costruirà il reticolo di Bragg. Tali architetture rappresentano, in realtà, il prototipo dei cosiddetti cristalli fotonici (v. oltre La microottica wafer level: Cristalli fotonici).
La necessità di integrare sullo stesso chip anche le sorgenti di radiazione luminosa ha portato allo sviluppo di microlaser e amplificatori ottici il cui mezzo attivo è posto in cavità risonanti di dimensioni confrontabili con λ. In queste condizioni si uniscono la natura quantistica dell’ottica e della materia, e si registrano processi paradossali nell’ambito del senso comune. Per es., l’emissione luminosa da parte di un atomo viene condizionata, forzata o inibita dalle dimensioni della cavità in cui si trova l’atomo, dimensioni che sono comunque ben più grandi dell’atomo stesso. È come se la particella materiale, prima di emettere un quanto di luce (fotone) nella cavità, sapesse in che modo questi andrà a riempire la cavità stessa e si comportasse di conseguenza. Come nel caso dell’onda evanescente, anche questo fenomeno, ora chiaramente confermato e divenuto oggetto di sviluppo tecnologico e di applicazioni commerciali, era prevedibile nell’ambito della teoria quantistica.
La miniaturizzazione, a causa del confinamento della radiazione in volumi microscopici e del conseguente raggiungimento di altissimi livelli di densità di potenza elettromagnetica, costituisce il naturale contesto per l’applicazione di molti fenomeni legati al regime dell’ottica non lineare. In tale regime, le proprietà ottiche dei materiali, come, per es., l’indice di rifrazione o il livello di trasparenza, dipendono a loro volta dall’intensità luminosa, con effetti assolutamente non comuni a livello macroscopico. Per es., un fascio di luce può interagire con un altro e ne risulta una modificazione reciproca, laddove in ottica lineare due fasci, dopo essersi incrociati, riemergono esattamente come prima. In regime non lineare un singolo fascio interagisce anche con sé stesso, e le regole della sua propagazione possono diventare molto più complesse e dare luogo a una varietà di nuovi effetti. Anche la frequenza di un’onda luminosa, ovvero il suo colore, può cambiare e combinarsi con le frequenze di altri fasci, aprendo la strada a nuovi tipi di sorgenti ottiche. Effetti del genere, oltre che di grande interesse scientifico, sono largamente utilizzati e costituiscono oggetto di ricerca e di sviluppo per le possibilità che offrono di controllo della radiazione e per l’elaborazione delle informazioni trasportate dalla luce, per es. ai fini delle telecomunicazioni.
Strutture sempre più raffinate per applicazioni innovative
I fenomeni ottici sopra descritti, insieme ad altri per i quali si rimanda a letture più specifiche (Hunsperger 20096), vengono attualmente studiati e utilizzati in modo sempre più innovativo e versatile anche grazie al continuo progresso delle tecniche di realizzazione di architetture su scala micrometrica e submicrometrica. Come esempio della raffinatezza raggiunta in tali architetture, si consideri un microscopico anello ricavato ‘scolpendo’ un sottile film di diamante sintetico: l’anello ha un diametro di 5 μm e uno spessore di 0,3 μm, e ha lo scopo di facilitare l’estrazione dei fotoni emessi da centri di dimensione atomica situati nel reticolo cristallino del diamante stesso. L’estrazione è resa più efficiente grazie alla natura di cavità risonante della geometria ad anello, e per il meccanismo quantistico di emissione forzata del fotone a cui si è accennato in precedenza. Un altro esempio di come si utilizzi una struttura artificiale di dimensioni micrometriche per ottenere particolari proprietà ottiche si ha con le fibre cave (hollow fibers), per es. quella in cui una lavorazione con cavità a nido d’ape, con diametro dei fori intorno a 3 μm, è estesa per tutta la lunghezza della fibra. In tal modo si sfruttano le leggi dell’ottica ondulatoria per modificare le caratteristiche di propagazione della luce all’interno della fibra rispetto a quelle di un’analoga fibra piena. Come risultato si ha la possibilità di trasmettere una maggiore potenza luminosa con minori perdite e, in certi casi, la possibilità di controllare la polarizzazione del campo elettrico. Una fibra del genere è stata proposta (Benabid, Bouwmans, Knight et al. 2004) per convertire luce laser visibile in radiazione ultravioletta allo scopo di distruggere cellule cancerose con un trattamento estremamente mirato. Le alte densità di potenza raggiunte all’interno di una tale fibra renderebbero possibile la conversione di frequenza visibile-ultravioletto per un fenomeno di ottica non lineare attivo in certi tipi di gas (per es. idrogeno) con cui vengono riempite le cavità stesse della fibra. Questo processo è disponibile da molti anni su scala di laboratorio con celle di gas macroscopiche, ma richiede potenze di partenza assai maggiori e sorgenti laser ingombranti e costose.
Stato attuale della ricerca
Quelli fin qui citati sono solo alcuni esempi di come la richiesta di miniaturizzazione in ottica integrata, che poteva sembrare semplicemente una grande sfida tecnologica, abbia anche significato il confronto con alcuni dei più affascinanti aspetti della fisica moderna. Ha inoltre permesso la verifica di teorie concepite per ben altra scala dimensionale e, in molti casi, richiesto lo sviluppo di specifici modelli di analisi e calcolo per fenomeni ottici del tutto nuovi. Va comunque osservato che le prime ricerche nel campo riguardavano soprattutto la radiazione d’interesse per le telecomunicazioni in fibra, ossia l’infrarosso (IR) più vicino al visibile con valori di λ compresi fra 0,8 e 1,3 μm. Da tale ambito, la microottica ha iniziato a svilupparsi e diversificarsi in più direzioni sotto la spinta di più fattori concomitanti. Tra questi vanno citati l’introduzione e il successo commerciale di nuovi dispositivi di consumo (cellulari, monitor ecc.) ma anche di apparecchi per sofisticate indagini scientifiche; il progresso notevole delle tecniche di lavorazione a livello nanometrico (un miliardesimo di metro, nm); l’ingresso dei materiali organici nel mondo dell’ottica e delle nanotecnologie. Il risultato è un numero sempre crescente di studi, pubblicazioni, brevetti e applicazioni che testimoniano come la ricerca si stia rapidamente sviluppando in diversi campi. Una classificazione alquanto schematica della situazione attuale si può tentare sulla base delle seguenti considerazioni: la miniaturizzazione si è fermata a dimensioni ben superiori a λ, intorno alla decina di μm, interessando però tutto l’intervallo del visibile; si utilizzano materiali organici insieme a forze e processi molecolari del tutto nuovi rispetto all’ottica tradizionale per configurazioni dinamiche e ‘intelligenti’; la miniaturizzazione si sta spingendo sotto λ fino a livelli nanometrici, con la ridefinizione di parametri quali l’indice di rifrazione e l’introduzione dei cosiddetti metamateriali. Nei paragrafi successivi si adotterà tale suddivisione considerando, naturalmente, la presenza di ampie sovrapposizioni e confini incerti fra i rispettivi campi.
La microottica wafer level
Matrici di microlenti
Le esperienze e i successi tecnologici riportati con l’ottica integrata hanno prodotto sviluppi che si sono presto divisi in due settori distinti. Da un lato, l’integrazione ottica-elettronica è stata spinta verso la replica in miniatura, su microchip, di apparecchiature sempre più sofisticate sia per applicazioni commerciali, quali videocamere digitali per telefoni cellulari, sia per scopi scientifici, quali microlaser e spettrofotometri, per es. per analisi biochimiche. Dall’altro, i ricercatori hanno iniziato a studiare schemi ottici su scala micrometrica anche al di fuori dei progetti d’integrazione con l’elettronica. Si è cominciato a pensare a microchip dedicati soltanto all’ottica o, almeno, in cui l’ottica avesse un ruolo preponderante rispetto all’elettronica. Dal silicio, utilizzato per radiazione nel vicino infrarosso, si è passati all’impiego anche di altri materiali per estendere la funzionalità del chip a tutto lo spettro visibile. È nato così il settore ottica wafer level (cioè su scala di wafer). In quest’ambito, il progresso delle tecniche costruttive si è orientato, più che verso un’ulteriore riduzione delle dimensioni geometriche rispetto all’ottica integrata, verso la realizzazione di nuove configurazioni, creando le premesse per riconsiderare completamente le capacità e i limiti dei convenzionali processi ottici. Per es., attualmente si producono a livello industriale wafers (sottili fino a pochi μm) contenenti milioni di microlenti, affiancate regolarmente in matrici quadrate o di qualsiasi altra forma. La singola lente può avere dimensioni che scendono fino a pochi μm, con una geometria e una lunghezza focale che, in linea di principio, potrebbero essere diverse per ogni elemento qualora richiesto sulla base di un preciso progetto. Inoltre, occorre considerare che non è necessario modellare la superficie dello strato, in forme convesse o concave, per ottenere il comportamento rifrattivo tipico di una lente. Mediante l’uso di speciali laser controllati da computer è possibile modificare localmente l’indice di rifrazione, in modo analogo a quanto sopra riportato per i reticoli di Bragg, per ricavare microlenti all’interno di uno strato piano. In ogni caso, una matrice di microlenti opportunamente realizzata può avere proprietà ottiche macroscopiche alquanto singolari, potendo modificare lo stato di un fascio luminoso in modi inaccessibili a normali lenti o altri componenti progettati e lavorati a livello macroscopico. L’aspetto più interessante, dal punto di vista concettuale, è che tali proprietà sono derivabili e facilmente descrivibili all’interno delle leggi dell’ottica classica (rifrazione e diffrazione) applicate a livello di una singola microlente, la quale produrrebbe da sola effetti ben noti. La miniaturizzazione e la moltiplicazione in una matrice, però, permettono la combinazione controllata di un grandissimo numero di diversi contributi microscopici sullo stesso fascio, con risultati del tutto nuovi. Per analogia, è come se si triturasse una roccia riducendola in sabbia. A questo punto, bagnando la sabbia, diventerà facilissimo sfruttare le forze di adesione fra i granelli, efficaci soltanto a livello microscopico, per costruire fantasiose forme macroscopiche, molto più difficili da ottenere dalla roccia solida.
Fino a oggi, gli studi e le applicazioni delle strutture a matrici di microlenti sono limitate a configurazioni abbastanza semplici e regolari. Per es., si utilizza uno strato di microlenti per rendere uniforme l’intensità luminosa su tutto il profilo di un fascio che sia inizialmente molto disomogeneo, quale, per es., quello prodotto dalla maggior parte delle sorgenti laser. Si sta anche studiando la capacità di una matrice di suddividere un singolo fascio incidente in una serie di fasci divergenti secondo una precisa configurazione, con determinati angoli e intensità luminose, in modo da proiettare una specifica distribuzione di intensità su uno schermo o illuminare una serie di punti distinti. È interessante osservare come, utilizzando degli strati di microlenti, la configurazione dei fasci in uscita dipenda assai poco da piccoli spostamenti traslatori dello strato, proprio per le minime dimensioni delle microlenti rispetto alla sezione del fascio in ingresso. La situazione, però, cambia notevolmente se si pone un secondo strato in serie al primo. Con un opportuno progetto si può far sì che micrometrici spostamenti relativi dei due strati producano grandi deviazioni e/o riconfigurazioni della luce emergente. Un tale apparato viene definito deviatore di fascio (beam steerer) e si presta a molte applicazioni in campo scientifico, industriale e medico. Si pensi, per es., a un impiego negli endoscopi per uso medico per avere grande versatilità, precisione e sensibilità nell’osservare e trattare parti di tessuto interno indirizzando opportunamente fasci luminosi inviati dall’esterno.
Un altro tipo di applicazione naturale si ha nel calcolo ottico, un campo già da anni di grande interesse per la comunità dei matematici e dei fisici ottici. In questo caso si cerca di sfruttare le proprietà delle matrici di componenti ottici per rivelare, modificare e quindi elaborare la configurazione di fasci di luce. Se la disposizione in ingresso trasporta uno o più dati numerici, codificati in qualche modo, l’elaborazione effettuata da una o più matrici in serie si configura come una sequenza di operazioni numeriche che fornisce il risultato nella disposizione dei fasci in uscita. Questa elaborazione avviene alla velocità della luce e in modo intrinsecamente parallelo anziché seriale, ossia nel modo più efficiente per dati e informazioni organizzati in forma di matrici, anche multidimensionali, quali sono quelli tipici del calcolo grafico e dell’elaborazione delle immagini. Questi dati sono trattati con difficoltà e lunghi tempi di calcolo dai consueti metodi elettronici; in questi casi è quindi evidente il vantaggio di sviluppare le innovative matrici costituite da microlenti particolarmente piccole e con strutture complesse e versatili.
Matrici dinamiche e ottiche adattive
Tutte le potenzialità sopra citate vengono enormemente aumentate se si prendono in considerazione matrici dinamiche, ossia con la possibilità di cambiare rapidamente i parametri geometrici e di lunghezza focale dei diversi elementi. Ciò è già possibile costruendo le microlenti in speciali materiali e applicando opportuni segnali elettrici di pilotaggio oppure utilizzando microspecchi mobili. In questo modo si va molto oltre le possibilità offerte da un controllo meccanico di uno strato rispetto all’altro. Per es., un singolo strato può essere velocemente riconfigurato mediante opportuni segnali elettrici per produrre variazioni dei fasci in uscita (Fan, Ren, Liang et al. 2005), realizzando in tal modo le cosiddette matrici di pixel intelligenti (smart pixel arrays).
Con tali apparati, un campo di applicazione e sviluppo molto promettente concerne la possibilità di misurare e modificare il fronte d’onda della radiazione elettromagnetica, ossia la distribuzione nello spazio del campo elettrico a essa associato. In questo settore si utilizza, in prima istanza, una matrice di microlenti tale che la configurazione luminosa in uscita dipenda fortemente da piccoli cambiamenti dell’inclinazione del fascio in ingresso, cioè da minime perturbazioni del fronte d’onda incidente; ciò realizza quello che viene definito sensore di Shack-Hartmann. Queste perturbazioni possono avvenire in modo dinamico e casuale, per es. quando i raggi luminosi attraversano le turbolenze dell’atmosfera o le disomogeneità variabili di liquidi e tessuti biologici. Il risultato è spesso un forte peggioramento della qualità delle immagini prodotte da molti tipi di strumenti ottici, quali telescopi, endoscopi o altri mezzi di diagnostica nel visibile per indagini mediche. In questi casi, disponendo in uscita allo strato di microlenti un’opportuna matrice di sensori ottici/elettronici, è possibile rilevare la variazione rispetto a un fascio di riferimento e inviare dei segnali elettrici a un computer. Questo provvederà ad attivare, in tempo reale, una matrice dinamica posta sullo stesso percorso della radiazione, in modo da correggere le perturbazioni e riportare il fascio al suo profilo di riferimento. Tale tipo di configurazione rientra nel più generale campo dell’ottica adattiva, che da alcuni anni trova applicazione nell’astronomia ma anche nelle tecnologie per la sicurezza e per la ricognizione militare. Recentemente se ne è avuto un utilizzo in via sperimentale in oculistica per un’indagine precisa del fondo oculare. Questo tipo di analisi, infatti, deve avvenire necessariamente attraverso i tessuti vivi e dinamicamente non omogenei della cornea, del cristallino e dell’umor acqueo, anche in presenza dei movimenti involontari del paziente. Sfruttando un’ottica adattiva a microspecchi è stata dimostrata la possibilità di ottenere immagini nitide di singole cellule del tessuto della retina in vivo.
Matrici di microspecchi
Parallelamente alle matrici di microlenti sono state sviluppate anche matrici costituite da microspecchi, con risultati molto interessanti. Questa tecnologia è nata, in realtà, alla fine del secolo scorso con il nome di DLP® (Digital Light Processing), ossia trattamento digitale della luce, ed è stata applicata negli ultimi dieci anni al funzionamento di un particolare tipo di videoproiettori, comunemente utilizzati per le presentazioni e proiezioni di video su schermo. Si tratta di una concreta e diffusa applicazione commerciale che dà un’idea della potenza della microottica dinamica persino nella sua forma più semplice. È basata su una matrice di 720×1280 microspecchi piani (1080×1920 nella forma ad alta definizione), ossia in numero corrispondente a quello dei punti (pixel) con cui sono registrate le immagini in formato digitale. Ogni microspecchio misura 16×16 μm2 ed è capace di oscillare di alcuni gradi intorno al suo asse fra due posizioni operative, acceso o spento (on o off), migliaia di volte al secondo sotto l’azione di un segnale elettrico. Quando è nella posizione on, la luce della lampada di proiezione che incide sulla matrice viene riflessa e proiettata, mediante un sistema di lenti convenzionali, su un punto dello schermo, contribuendo a formare il corrispondente pixel dell’immagine. Viceversa, nella posizione off, la luce viene riflessa su un assorbitore e la corrispondente porzione dello schermo rimane buia. L’aspetto interessante è che la modulazione dell’intensità luminosa dei relativi pixel viene effettuata variando, in modo discreto, la frequenza di oscillazione, ossia il numero delle volte che il microspecchio è nella posizione on durante la persistenza di un singolo fotogramma del video proiettato (per es., 1/24 di secondo per il materiale cinematografico). In tal modo si ottiene direttamente e semplicemente una conversione del formato digitale in percezione analogica della luminosità, con immagini in movimento di ottima qualità su un grande schermo e con una notevole capacità di riprodurre le sfumature di colore. Inoltre, ed è forse l’aspetto più innovativo del sistema, è interessante constatare che il moto del singolo microspecchio avviene per mezzo di forze elettrostatiche, che sarebbe praticamente impossibile utilizzare a livello di componenti macroscopici.
Ben oltre i campi d’impiego commerciale come quello sopra descritto, la tecnologia a microspecchi si sta sviluppando anche in direzioni più sofisticate per utilizzi più propriamente scientifici e innovativi: in tale ambito, i sistemi MEMS (Micro Electro-Mechanical Systems) definiscono un insieme di dispositivi di varia natura integrati in forma altamente miniaturizzata su uno stesso substrato di silicio, in modo da coniugare le proprietà elettriche con quelle optomeccaniche. Attualmente si stanno sviluppando matrici di microspecchi esagonali con dimensioni micrometriche capaci sia di inclinarsi su due assi ortogonali, sia di effettuare un movimento a pistone di circa 10 μm. Sono evidenti le grandi possibilità che un tale sistema offre per controllare con estrema precisione la forma del fronte d’onda riflesso posizionando opportunamente i singoli microspecchi. In particolare, si ottiene un sistema estremamente versatile ai fini delle applicazioni in ottica adattiva.
Cristalli fotonici
Si è già accennato, descrivendo i reticoli di Bragg, che i cristalli fotonici (photonic crystals) sono costituiti da strutture artificiali nelle quali l’indice di rifrazione ha una modulazione periodica su scala comparabile con la lunghezza d’onda della radiazione. Per la luce visibile ciò si verifica per dimensioni appena inferiori a 1 μm. Una modulazione di tale tipo si può realizzare alternando strati di diversi materiali, uno dei quali può essere il vuoto (indice di rifrazione n=1), ovvero costruendo architetture soltanto parzialmente piene. In ogni caso, la modulazione di n produce una combinazione di effetti diffrattivi sull’onda elettromagnetica che porta i fotoni a comportarsi come gli elettroni di conduzione in un cristallo fatto di atomi, da cui il termine cristalli fotonici. Come risultato, i fotoni (comportandosi come onde) potranno propagarsi o meno nel cristallo a seconda della loro energia (lunghezza d’onda) e direzione. Oppure un fascio di luce che entra nel cristallo può essere riflesso in modi molto complessi in funzione di λ. Questi meccanismi cambiano di fatto completamente le proprietà dei materiali di partenza, e possono dare origine a una serie di fenomeni interessanti, con aspetti spesso inconsueti. In realtà, un tale livello di ingegnerizzazione microscopica apre le porte a un campo di sperimentazione di cui non è facile prevedere i limiti e gli sviluppi. Per ora, per es., è stata ottenuta la modifica e persino l’inibizione dell’emissione luminosa spontanea. Altri effetti previsti, e in parte osservati in laboratorio, sono la formazione di specchi altamente riflettenti omnidirezionali o di guide ottiche a bassissime perdite. La costruzione di strutture su scala submicrometrica è, però, ancora molto complessa e difficile, specie nei casi tridimensionali, per cui quello che sembra essere un campo dagli sviluppi decisamente promettenti e innovativi resta attualmente nell’ambito di un intenso studio teorico e della sperimentazione di laboratorio. A questo punto, è interessante osservare che strutture biologiche come i cristalli fotonici esistono da milioni di anni in natura, per es. sulle ali di certe farfalle del genere Morpho, dove producono appariscenti effetti di colorazione iridescente.
Nuovi materiali e forze microscopiche
Si è accennato inizialmente al fatto che lo sviluppo della microottica sta anche portando a utilizzare forze e processi di natura chimico-fisica finora estranei al campo dell’ottica. In effetti, operando con componenti di dimensioni micrometriche, diventa naturale prendere in considerazione effetti quali la tensione superficiale, la forza elettrostatica o la dilatazione termica, per modificare rapidamente ed efficacemente il profilo di una lente o la curvatura di uno specchio.
Lenti liquide
Un primo esempio viene fornito dalle lenti liquide a fuoco variabile, ideate nel 2004 dall’azienda multinazionale olandese Philips. La lente FluidFocus consiste di un corto cilindro riempito con due liquidi: una soluzione acquosa elettricamente conduttiva e un olio isolante (fig. 1). I due fluidi sono immiscibili, per cui si separano in due strati distinti, e hanno diverso indice di rifrazione. Le pareti del cilindro sono rivestite di un materiale idrofobo che respinge la soluzione acquosa ma non l’olio. Ciò fa sì che la superficie di separazione fra i due liquidi assuma una curvatura verso l’asse del cilindro. Quando si applica un campo elettrico, le pareti del cilindro riducono il grado di repulsione della soluzione acquosa, per un processo chimico-fisico chiamato electrowetting («elettrobagnatura»), provocando l’appiattimento della superficie. Invertendo il campo è addirittura possibile cambiare la curvatura da concava a convessa. Per via del differente potere rifrattivo dei due liquidi, questo processo produce una variazione della lunghezza focale della lente. Per quanto questo primo tipo di dispositivo avesse dimensioni di poco inferiori al millimetro, quindi non propriamente nel campo d’interesse della microottica, esso è particolarmente degno di nota in quanto rappresenta il primo impiego di nuovi processi fisici che siano naturalmente riportabili su scale di dimensioni microscopiche. Inoltre, si mostra decisamente innovativo in senso concettuale, poiché un effetto di fuoco variabile si può ottenere in modi convenzionali unicamente avvicinando o allontanando fra loro almeno due distinte lenti solide. Ciò avviene girando la ghiera o lasciando muovere in automatico (autofocus) un normale obiettivo per macchina fotografica. Da questo punto di vista, il comportamento della lente liquida assomiglia molto di più al funzionamento del cristallino nel processo di adattamento dell’occhio animale e umano. Si estende quindi al campo dell’ottica quel processo di mimesi delle architetture biologiche che già investe altri settori scientifici e tecnologici. Il prototipo è stato poi ulteriormente sviluppato e modificato con ricerche successive anche da altri gruppi. Nell’ambito di dimensioni appena submillimetriche, l’applicazione delle lenti liquide è già giunta a livello di dimostratori di obiettivi fotografici per apparecchi commerciali quali telefoni cellulari o lettori DVD. Un altro settore di indubbio interesse applicativo futuro comprende gli endoscopi e le sonde diagnostiche con dimensioni particolarmente ridotte. Si stanno però già sperimentando applicazioni molto più avanzate concepite sul presupposto che i materiali utilizzati nelle lenti a liquido offrono, in linea di principio, una maggiore compatibilità con i tessuti biologici. In tale direzione, sono stati realizzati dispositivi con alimentazione elettrica senza fili (wireless), tramite un microcircuito elettronico che circonda la lente e ne alimenta l’attivazione mediante il segnale ricevuto via radio. Questi sistemi vengono studiati in vista di possibili innesti nell’occhio umano, per sostituire il cristallino danneggiato, senza la necessità di collegamenti troppo invasivi. Nei primi test di laboratorio è stata ottenuta una variazione di +2,5 diottrie in 4 s. Il fenomeno dell’electrowetting si presta a molti altri utilizzi se applicato a liquidi in forma di gocce microscopiche che si comportano come singole microlenti di focale variabile.
L’industria statunitense Bell laboratories, per es., ha sviluppato un prototipo basato su goccioline di un singolo liquido depositate e libere di muoversi su una superficie rivestita di una matrice di elettrodi. Sono allo studio anche matrici dinamiche di microlenti liquide (Fan, Ren, Liang et al. 2005). La Philips ha invece posto le basi per realizzare la cosiddetta carta elettronica (electronic paper), ossia un display attivo capace di visualizzare immagini in movimento e la scrittura, come un normale monitor di un computer, ma molto sottile, basato sulla riflessione della luce ambiente e completamente flessibile, come è la carta. Un tale dispositivo potrebbe rivoluzionare molti aspetti della vita quotidiana, non soltanto riguardo al mondo delle comunicazioni e dell’informazione. La tecnologia si basa sul movimento di un liquido su scala microscopica attraverso il controllo effettuato con tensione elettrica. Il fluido, il cui movimento viene microcontrollato, è un olio colorato compreso tra uno strato di acqua e un rivestimento idrofobo. Il tutto è posto su una superficie flessibile, su cui è depositato un elettrodo, e coperto superiormente da un rivestimento plastico trasparente. Quando non è applicato un campo elettrico, l’olio forma spontaneamente una barriera tra l’acqua e il rivestimento creando un pixel colorato. Se invece viene applicata una bassa tensione elettrica tra l’elettrodo e l’acqua, quest’ultima, per electrowetting, sposta l’olio tutto da una parte. Questo crea un pixel parzialmente trasparente o, se il display è collocato su una superficie diffondente, un pixel bianco. La scelta della tintura dissolta nell’olio determina il colore del display, in particolare nello stato off, in cui l’olio ricopre l’intera superficie. Cambiando colorante e combinando diversi pixel vicini, può essere ottenuto un ampio intervallo di colorazioni. Su sistemi analoghi, si sta anche sperimentando l’efficacia del puro moto delle molecole del colorante da una parte all’altra del pixel con un meccanismo simile all’elettroforesi.
Cristalli liquidi per ottica adattiva
L’uso di forze elettriche nei materiali liquidi non è una novità assoluta in ottica. Già da alcuni decenni le particolari proprietà ottiche ed elettroottiche dei cristalli liquidi trovano applicazione commerciale in display a matrice per ogni tipo di strumentazione, in monitor televisivi e per personal computer. Ciò che ha portato al successo applicativo questa classe di composti organici liquidi, ad alta viscosità e trasparenza, è la spiccata anisotropia delle loro proprietà ottiche e meccaniche, causata dal particolare sviluppo in lunghezze delle molecole che li costituiscono e da particolari forze intermolecolari. L’indice di rifrazione di questi materiali si controlla localmente con relativa facilità, mediante campi elettrici di bassa intensità. In questo modo si riescono a realizzare lenti di dimensioni macroscopiche le cui proprietà sono controllate a livello quasi microscopico da un’opportuna rete o matrice di elettrodi trasparenti. Pur con la scarsa precisione e versatilità che deriva da questa configurazione, essa fa già intravedere interessanti risultati nel campo dell’ottica adattiva.
Per es., l’azienda statunitense PixelOptics inc. sta per avviare la commercializzazione di lenti a cristalli liquidi con focale variabile per occhiali da vista nel tentativo di sostituire la comune lente bifocale o multifocale in vetro. Su un livello più avveniristico, la stessa azienda sta lavorando, con l’United States department of defense, a lenti adattive molto più sofisticate che dovrebbero correggere non soltanto i difetti della vista comuni (miopia, astigmatismo e ipermetropia), bensì quelli cosiddetti di ordine superiore. Tali difetti, presenti anche nell’occhio sano, sono dovuti alla natura ‘imperfetta’ dei tessuti biologici, e sono quelli che in ultima analisi stabiliscono l’acutezza visiva normale umana intorno a 10/10. Si prevede che, grazie alle future lenti, sarà possibile raggiungere un’accuratezza di almeno 20/10, con il risultato di avere una visione molto più distinta per svolgere operazioni di ricognizione e sorveglianza militare a distanza. È bene chiarire che tali lenti non fornirebbero una visione ravvicinata o ingrandita degli oggetti, a differenza dei cannocchiali e dei telescopi, con la conseguente riduzione del campo visivo e necessità di variare continuamente la messa a fuoco. Esse, invece, lascerebbero inalterata la percezione del campo visivo normale, ma con un forte aumento della capacità di distinguere oggetti lontani.
La nanoottica e i metamateriali
Lo sviluppo più recente della microottica è collegato alla progressiva riduzione delle dimensioni fisiche delle strutture, fino a valori molto minori della lunghezza d’onda della luce visibile (0,4÷0,7 μm). Si entra nell’ordine di grandezza dei nanometri, quindi nel campo di impiego delle nuovissime nanotecnologie (da cui il termine nanoottica). Dal punto di vista della propagazione di un’onda luminosa, tali strutture non vengono più distinte in quanto tali e separate, a differenza di quello che si verifica nei cristalli fotonici. La strutturazione invece influenza il movimento delle cariche del materiale (in genere elettroni) sotto l’effetto del campo elettromagnetico associato all’onda. Poiché da tale moto deriva la risposta del mezzo alla luce, il risultato può essere la creazione di un materiale artificiale con proprietà ottiche non convenzionali e addirittura non esistenti in natura. Per questo motivo si è coniato il termine metamateriali. È importante osservare che, diversamente dai cristalli fotonici, nei metamateriali le proprietà restano artificiali anche su scala microscopica. Si tratta di una vera e propria rivoluzione nella capacità di ingegnerizzazione delle proprietà ottiche, paragonabile alla scoperta delle leghe per le proprietà meccaniche.
Le iperlenti: oltre il limite diffrattivo
Nel campo delle proprietà ottiche, nanostrutture adeguate vengono costruite depositando, su appositi substrati e su scala nanometrica, sottilissimi strati alternati di ossidi oppure reti di fili metallici o anche anelli concentrici di polimeri organici. Alcuni notevoli risultati ottenuti in questo campo, di cui si intravedono appena le enormi potenzialità, riguardano il superamento dei limiti diffrattivi nell’ingrandimento delle immagini ottiche, ossia la realizzazione delle cosiddette iperlenti (hyperlens). Il limite diffrattivo, previsto nella teoria dell’ottica ondulatoria, consiste nell’impossibilità di ottenere immagini di oggetti di dimensioni minori della lunghezza d’onda della luce impiegata. Ciò è intimamente collegato al fenomeno della diffrazione, comune a tutti i fenomeni ondulatori (compreso il suono), per cui un’onda che attraversi un foro o incontri un ostacolo di dimensioni confrontabili con λ cessa di propagarsi in linea retta e diffrange in varie direzioni. In questo modo le informazioni sulla geometria dell’oggetto incontrato vengono, per così dire, mescolate in modo irreversibile. In pratica, non si ottiene più un’ombra o un profilo netto, come invece avviene per dimensioni macroscopiche. Per tale motivo, immagini di oggetti con risoluzione minore di 200 nm possono essere ottenute soltanto con radiazioni di lunghezza d’onda molto minore, per es. con i raggi X, oppure sfruttando la natura ondulatoria di particelle accelerate quali gli elettroni (microscopio elettronico). Con tali apparati e radiazioni, però, non è possibile visualizzare materiali biologici acquosi o cellule vive, né ottenere filmati di processi dinamici.
Due recenti studi sperimentali danno un’idea sia della particolarità delle configurazioni adottate sia del livello ancora molto preliminare e di laboratorio dei risultati ottenuti. In un caso (Liu, Lee, Xiong et al. 2007) è stato dimostrato il funzionamento di una iperlente costruita depositando strati di argento alternati a ossido di alluminio, mediante evaporazione a fascio elettronico e deposizione atomica controllata (sputtering), nella superficie interna di una cavità semicilindrica con raggio inferiore a 1 μm e ricavata in un sottile film di quarzo. Uno strato di cromo, spesso 50 nm, è depositato per ultimo (a contatto con l’aria) e costituisce la superficie su cui viene posto l’oggetto da ingrandire. In una tale particolare struttura le risposte al campo elettrico nelle direzioni radiale e tangente alla superficie semicilindrica sono di segno opposto. In questo modo l’onda evanescente emessa dall’oggetto che penetra nella struttura si propaga attraverso gli strati alternati con ridotti effetti di diffrazione. La luce viene quindi raccolta in uscita dal film di quarzo e focalizzata su una matrice di sensori ottici mediante una lente convenzionale. Con questo metodo sono state ottenute immagini con un ingrandimento di circa 30.000 volte (i normali microscopi ottici arrivano a 2000) e con una risoluzione di 130 nm. In un altro caso (Smolyaninov, Hung, Davis 2007) è stato realizzato un vetrino da microscopio a superlente basato su una struttura ad anelli concentrici del polimero polimetilmetacrilato (PMMA), commercialmente noto come plexiglass®, spessi circa 200 nm e separati di circa 100 nm, deposti su un film di oro. Questo prototipo ha permesso di ottenere una risoluzione di circa 70 nm, ben al di sotto del limite diffrattivo, ma in teoria dovrebbe consentire di scendere fino a 10 nm. Se i progressi in questo campo continueranno, si potrebbe arrivare ad avere immagini ottiche in vivo di oggetti come i virus o il DNA.
Il mantello per l’invisibilità
In alcuni studi più di avanguardia, il concetto di metamateriale punta ad applicazioni ancora più innovative o addirittura futuristiche. Sono allo studio materiali in cui la risposta alla luce può essere descritta, in termini macroscopici, con un indice di rifrazione negativo. Nell’ottica ondulatoria questo parametro rappresenta il rapporto fra il valore della velocità della luce nel vuoto e quello in un dato materiale. Per es., affermare che l’acqua ha un valore di n=1,33 equivale a dire che la luce si propaga nell’acqua con una velocità 1,33 volte minore che nel vuoto, dove la sua velocità assume il noto valore di ∼300.000.000 m/s. Un valore negativo per n non si trova in alcun materiale naturale. Ciò comporterebbe una velocità di fase delle onde elettromagnetiche negativa: la luce si potrebbe quindi propagare all’indietro. Nella rifrazione da un materiale normale a un metamateriale sarebbe modificata la legge di Snell (che descrive la modalità di rifrazione di un fascio luminoso nella transizione tra due mezzi con diverso indice di rifrazione), in modo tale che il fascio viene rifratto dalla stessa parte della normale al fascio incidente (fig. 2). In tal modo, in linea teorica, uno strato di metamateriale che avvolgesse un oggetto potrebbe piegare la luce per rifrazione intorno all’oggetto stesso, rendendolo di fatto invisibile. Un effetto del genere è stato dimostrato nel 2006 alla frequenza delle microonde presso la Duke university (North Carolina, Stati Uniti), in collaborazione con un gruppo dell’Imperial college di Londra. Più recentemente, nel 2007, è stata annunciata la sintesi di un metamateriale con indice di rifrazione n=−0,6 alla lunghezza d’onda di 780 nm (Soukoulis, Linden, Wegener 2007). La struttura alla base dell’effetto consiste in due reti nanoscopiche di argento, con maglie di circa 100 nm, separate da uno strato isolante di fluoruro di magnesio. Qualora la proprietà di metamateriale fosse estesa a tutto lo spettro del visibile (400÷700 nm) e si superassero alcuni problemi legati alle perdite per assorbimento, si avvicinerebbe la prospettiva di un ‘mantello per l’invisibilità’.
Bibliografia
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