Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Appena sotto il grande cinema d’autore che l’Italia può vantare in quegli anni, il cinema popolare degli anni Sessanta cerca forme e "filoni" accattivanti, attraenti, di facile diffusione e vendibilità. Sergio Leone e la sua magistrale imitazione del genere anti-europeo per eccellenza, il western, costituiscono un essenziale punto di riferimento per comprendere non solo una parabola critica – d’autore a tutti gli effetti, che consentirà di rivolgere l’attenzione dovuta al cinema di serie B –, ma anche una sorta di tensione presente nel cinema italiano, verso l’altro da sé, che ha consentito, proprio attraverso forme di imitazione e camuffamento, la sperimentazione di poetiche originali.
Il cinema di genere italiano, che pure vanta delle forme autoctone, come il film-opera o la commedia all’italiana, assai spesso si è alimentato riprendendo forme e convenzioni del cinema classico, hollywoodiano ma non solo. E se questo rapporto di parziale dipendenza, ma anche di sostanziale rielaborazione, può essere esteso a buona parte della sua storia, è soprattutto negli anni Sessanta e Settanta che il cinema italiano si popola di generi importati da altre cinematografie e che danno luogo ai cosiddetti "filoni", forme di genere estremamente stereotipate e della durata di qualche anno. Si va dallo spionistico al poliziesco, dall’horror al western. Insieme al comico e alla commedia questi generi costituiscono il corpo del cinema popolare, che in quegli anni fa da contraltare al cinema autoriale di Fellini o Antonioni. Se gli autori vengono considerati come paladini della nuova modernità che si fa strada nel cinema nazionale, il cinema di genere appare più spesso, in quegli anni, come un fenomeno regressivo, parassitario e sostanzialmente privo di interesse. A questo giudizio non sfugge neanche il genere più prolifico e più duraturo, il western all’italiana o spaghetti-western e il suo più noto realizzatore, Sergio Leone. Sarà in seguito proprio Leone a essere oggetto di una sostanziale rivalutazione. Il suo riconoscimento come autore degno di figurare tra i grandi nomi del cinema italiano aprirà la strada a una nuova considerazione di film e cineasti del cinema di genere italiano, fino a una forse eccessiva glorificazione del cinema di serie B di produzione nazionale.
Tuttavia, se ingiusta appariva la condanna, non meno fuorviante è l’interpretazione che vorrebbe Leone come un raffinato e consapevole autore "alessandrino", che guarda con occhio colto alla tradizione dei classici, selezionando il meglio dei modelli passati e alimentandosi di citazioni dirette e indirette, anticipando genialmente il cinema postmoderno di autori come Quentin Tarantino . In realtà il cinema di Leone non è affatto un cinema di citazione: nella sua celebrata trilogia del dollaro – Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965), Il buono, il brutto e il cattivo (1966) – non cita praticamente mai John Ford, che pure è ben presente e convocato come orizzonte di riferimento. Dunque non citazione, ma convocazione di un altro cinema, di altre forme, di altre convenzioni, di altri autori: si tratta di un processo di imitazione o meglio di vera e propria falsificazione di un modello originario, ancora più evidente nel successivo C’era una volta il west , in cui il riferimento alla grande epopea fordiana è palese. Procedimento quello del falso che non è certo proprio del solo Leone, ma che si estende a buona parte del cinema di genere di quel periodo, a cominciare dai nomi di attori, registi e maestranze, tutti falsamente – e alle volte ironicamente – americanizzati, nella pretesa di appartenere a un altro cinema, a un’altra storia, a un’altra tradizione. E questa propensione al falso è forse uno dei caratteri propri del cinema italiano, anche fuori dal periodo qui considerato: non sarebbe forse interessante pensare ad Alessandro Blasetti non come un precursore del neorealismo o uno sperimentatore di soluzioni tecnico-formali innovative, ma come un abile falsario del cinema sovietico e americano che gli è contemporaneo? Il falso dunque alberga nella storia del cinema italiano, e probabilmente Leone ne è il migliore interprete. Il falso italiano, il falso leoniano non è, o perlomeno non vuole, essere una falsificazione estetica: non si tratta di attingere ai valori estetici dell’opera d’origine, o a giocare con essi nella logica del pastiche, quanto piuttosto di un falso produttivo che mira a replicarne il valore di merce. In questo Leone e i suoi meno noti epigoni somigliano più agli attuali contraffattori di griffe che non al falsario wellesiano di F come Falso (F for Fake, 1976). E tuttavia anche in mancanza di etichette forti, autoriali, produttive e stilistiche che avessero presa sul pubblico popolare, paradossalmente quel cinema è stato in grado di produrre innovazione, tecnologica, linguistica e soprattutto estetica, e di quel fenomeno Leone è il caso più eclatante. Questo non tanto perché, con il suo impianto artigianale improntato alle modalità del rifacimento, abbia anticipato in qualche modo le forme della postmodernità, quanto piuttosto perché era solidamente impiantato nel moderno. L’artigianato del plagio, del falso, del riciclo appartiene pienamente al moderno e rappresenta in qualche modo il lato oscuro della modernità industriale; e, dunque, se il cinema italiano di quegli anni poteva risultare arretrato sul fronte della modernizzazione, aveva nondimeno una sua linea di modernità, non scevra di risultati innovativi. Il fatto poi che Leone, profondamente radicato in una tradizione di cui era il falsario, abbia creato egli stesso una tradizione, che ci fa apparire un gangster movie come C’era una volta in America (1984) anche più vero dei suoi modelli e che arriva fino al cinema postmoderno, è solo un’ulteriore dimostrazione che le strade dell’innovazione sono tutt’altro che a senso unico.