Migrazioni internazionali
Sommario: 1. Considerazioni generali. 2. Le nuove caratteristiche delle migrazioni internazionali. 3. L'accelerazione dei movimenti migratori in Europa e Nordamerica. 4. Gli immigrati nei paesi europei alle soglie del 2000. 5. Le recenti immigrazioni in Canada e Stati Uniti. 6. La conclusione di un percorso: l'integrazione. □ Bibliografia.
1. Considerazioni generali
L'ingresso di nuove popolazioni in una società provoca continue tensioni di carattere economico, sociale, demografico, politico e culturale che rimettono in discussione gli equilibri preesistenti. Negli ultimi decenni tutti i paesi del mondo - i ricchi come i poveri - hanno dovuto far fronte al problema migratorio, determinato da spostamenti all'interno del loro territorio o dall'arrivo di popolazioni provenienti dai paesi limitrofi e da altri continenti. Le spinte maggiori agli spostamenti, soprattutto interni, sono state provocate dalle profonde trasformazioni dell'economia mondiale e dalla grande rivoluzione tecnologica, fenomeni che hanno interessato quasi tutte le popolazioni del pianeta, favorendone alcune a scapito di altre. A queste circostanze di fondo si sono aggiunti e sovrapposti eventi eccezionali, come catastrofi naturali (siccità, carestie, ecc.), guerre civili e lotte tribali, nonché gli effetti di relazioni più complesse di carattere socio-culturale che, trasformando dall'interno le diverse società, hanno impresso un nuovo carattere agli spostamenti, modificandone la direzione e le caratteristiche. Nel nostro paese, ad esempio, nonostante permanga o si sia accresciuto il divario in termini di sviluppo economico tra regioni del nord e del sud, non si registrano più quei movimenti di popolazione sud-nord che hanno caratterizzato gli anni sessanta di questo secolo.
Negli ultimi decenni, ogni forma di migrazione - interna o internazionale - ha subito progressivamente modificazioni sostanziali che la differenziano dal passato; le migrazioni internazionali hanno acquisito in più un carattere di ‛globalità', sia dal punto di vista della consistenza, sia dal punto di vista della struttura demografica e sociale (v. Collinson, 1994). Nel determinare l'esplosione del fenomeno e le sue rapide trasformazioni ha svolto un ruolo importante l'accentuarsi delle forti differenze tra i paesi in tema di incremento demografico: difatti, mentre nelle nazioni altamente industrializzate (soprattutto in quelle europee) la natalità si è progressivamente ridotta a livelli impensabili sino al secolo scorso - e persino sino alla prima metà di questo secolo - nei paesi in via di sviluppo la fecondità ha mantenuto livelli elevatissimi, nonostante i tentativi degli organismi internazionali di adottare misure di controllo delle nascite. Un controllo che ancora oggi stenta a diffondersi proprio per effetto delle profonde condizioni di sottosviluppo economico che, paradossalmente, esigono una prole numerosa in grado di garantire (o quanto meno di far sperare) ai genitori la sopravvivenza. Si tratta di una catena di ‛previdenza' che non è facile spezzare.
Gli squilibri nella crescita demografica inducono differenze nella crescita economica, ed è evidente che le condizioni di povertà in cui versa gran parte della popolazione del pianeta costituiscono una delle principali ragioni che spingono un numero crescente di individui a muoversi dai paesi poveri verso quelli economicamente più sviluppati. Alle difficoltà di continuare a vivere in zone dove il mancato sviluppo stenta a consentire condizioni accettabili di vita, spesso si accompagnano, come già ricordato, condizioni di conflittualità interna che provocano una spinta forzata all'emigrazione verso paesi lontani. Inoltre, nell'esplosione del fenomeno ha giocato un ruolo importante il fatto che gli spostamenti - un tempo assai difficili - sono sempre più frequentemente favoriti da una maggiore disponibilità di mezzi di trasporto, che consentono di coprire grandi distanze in tempi ridotti.
Queste brevi considerazioni iniziali potrebbero far pensare che le ragioni delle profonde modificazioni subite in questi ultimi decenni dal fenomeno migratorio internazionale risiedano solo nell'aggravamento dei problemi dei paesi poveri del pianeta. Ma non si tratta soltanto di questo. Molti studiosi ritengono infatti che queste modificazioni affondino le loro radici anche nelle trasformazioni dei sistemi economici e degli equilibri politici internazionali tra i paesi più sviluppati; questo è ancor più vero se si analizza l'evoluzione delle migrazioni internazionali a partire dagli anni settanta, cioè da quel periodo di recessione economica in cui i paesi ricchi hanno dovuto rivedere le politiche economiche interne ed estere.
Poiché l'oggetto di questa analisi è la recente evoluzione delle migrazioni internazionali, si cercherà di fornire un quadro degli sviluppi temporali del fenomeno in modo da poter individuare le diverse tappe del processo di trasformazione, sia passate sia in itinere. Gli ultimi decenni costituiranno, quindi, il periodo principale di riferimento dell'analisi, ma non verranno trascurate le tendenze di lungo periodo, che sono utili per la comprensione dell'intero processo. L'analisi geografica del fenomeno sarà limitata ai paesi europei e a quelli nordamericani, per i quali verranno prese in esame le caratteristiche, l'intensità e la direzione dei flussi migratori.
2. Le nuove caratteristiche delle migrazioni internazionali
L'espansione dell'economia globale e la diffusione dei sistemi di comunicazione hanno contribuito a modificare, dunque, la genesi e lo sviluppo dei movimenti di popolazione tra le diverse aree del pianeta. Antiche quanto l'umanità, le migrazioni hanno subito - a partire dal secondo dopoguerra - trasformazioni progressive e sostanziali, acquisendo al pari dei flussi di merci e di capitali, un carattere di globalità, sia per la loro consistenza sia per le caratteristiche spaziali e strutturali. Al processo di globalizzazione si è giunti gradualmente: difatti, se si escludono gli anni che vanno dal 1945 al 1950, in cui solo alcuni paesi (tra cui Francia e Gran Bretagna) hanno fatto ricorso alle immigrazioni per la ricostruzione postbellica, nell'evoluzione delle migrazioni internazionali si possono individuare alcune fasi (v. Salt, 1989). La prima, che va approssimativamente dal 1950 al 1973, coincide con il periodo in cui le principali strategie economiche, che prevedevano grandi movimenti di capitali, erano concentrate nei paesi più ricchi dell'Europa centrale e settentrionale, del Nordamerica (ma anche dell'Argentina e del Venezuela) e dell'Australia: ovviamente, è verso questi paesi che si sono dirette ingenti masse di lavoratori provenienti dai paesi europei meno sviluppati e da quelli del bacino mediterraneo (v. King, 1993; v. Castels e Miller, 1993; v. Fassmann e Münz, 1994). Negli stessi anni, Francia e Gran Bretagna hanno aperto le frontiere anche a molti migranti delle ex colonie e, in America, si sono verificati numerosi flussi di popolazione dal sud verso il nord (v. fig. 1); inoltre, l'emergente ricchezza economica dei paesi arabi produttori di petrolio ha richiamato popolazione dai paesi nordafricani e asiatici in alcuni territori del Golfo, favorendo così lo sviluppo di nuove aree di immigrazione.
Nel 1973 la crisi petrolifera segnò una tappa fondamentale nel nuovo sviluppo economico mondiale: a essa seguì, infatti, un periodo di recessione che indusse tutti i paesi più sviluppati a rivedere le loro strategie economiche. Il superamento della crisi richiese la ristrutturazione dei sistemi produttivi e la modificazione dei processi di lavorazione, tanto da portare l'economia mondiale a una completa trasformazione. Tutto ciò ha determinato un profondo cambiamento nelle politiche migratorie e, quindi, nei modelli migratori e nella direzione dei flussi (v. fig. 2): in quegli anni è iniziata una nuova fase per le migrazioni interne e internazionali che ha visto, tra l'altro, alcuni paesi dell'Europa meridionale, tradizionalmente di emigrazione, divenire paesi di immigrazione. Sempre a partire dagli anni settanta, si sono acuiti gli effetti di un processo già precedentemente avviatosi all'interno dei paesi più poveri del mondo, quando milioni di individui - lasciando le zone rurali più povere per dirigersi verso le città - hanno dato il via a una catena migratoria che potenziandosi col tempo ha finito per imprimere una svolta decisiva all'intensità e alla direzione dei flussi internazionali. Gli arrivi di grandi masse di popolazione in città ancora prive di strutture economiche, sociali e sanitarie hanno provocato crisi drammatiche, anche di valori, che hanno spinto un numero crescente di persone a cercare miglior fortuna in paesi lontani economicamente più sviluppati, sia in quelli tradizionalmente di immigrazione, sia in quelli da sempre considerati di emigrazione, nel caso in cui questi ultimi si rivelassero più facilmente accessibili.
Dalla seconda metà degli anni ottanta, e soprattutto dall'inizio degli anni novanta, le migrazioni internazionali hanno subito ulteriori cambiamenti. Pur conservando - rispetto alla direzione - un carattere di continuità con gli anni precedenti, i movimenti migratori hanno assunto caratteristiche che si inquadrano completamente nel processo di globalizzazione politica ed economica nato con la fine della guerra fredda e del predominio dei poli americano e sovietico.
I maggiori eventi politici ed economici degli anni 1989-1993, rompendo il vecchio ordine politico e le sue relazioni economiche, hanno creato non solo un nuovo modello e una diversa struttura dei flussi, ma hanno anche impresso modifiche nel significato e negli effetti stessi delle migrazioni (v. Gould e Findlay, 1994). Così, mentre la crisi politica dell'Unione Sovietica e dei paesi dell'Est e la creazione di nuovi Stati indipendenti hanno prodotto l'interruzione di gran parte degli scambi commerciali che avvenivano all'interno del blocco orientale e la sua apertura verso i mercati occidentali, la crisi economica che ne è seguita, travolgendo tutti i paesi dell'area, ha spinto le popolazioni a cercare lavoro nelle nazioni più ricche o più vicine per caratteristiche etniche e geografiche (v. Kupiszewski, 1994).
Questa crisi ha investito anche paesi, come, ad esempio, la Iugoslavia, la Somalia e l'Eritrea, che, pur non appartenendo al blocco sovietico, avevano con questo rapporti commerciali privilegiati. In alcuni di questi, più che altrove, le spinte a emigrare sono state alimentate da conflitti interni etnico-religiosi e politici, che hanno costretto molte minoranze a lasciare il territorio e a chiedere asilo politico nei paesi occidentali. Frequentemente, al flusso ‛regolare' di migranti in cerca di un'occupazione (flusso di entità non sempre valutabile), si è quindi aggiunto anche un consistente numero di rifugiati, che essendo confusi con i primi, si sono rivelati difficilmente distinguibili da quelli. Il caso di coloro che in questi anni hanno lasciato l'Albania e la ex Iugoslavia è senz'altro il più emblematico.
Problemi analoghi a quelli appena descritti esistono anche per i migranti dei numerosi paesi del Terzo Mondo, dove i conflitti politici e sociali moltiplicano all'infinito gli effetti disastrosi dell'esplosione demografica e del collasso di economie mai decollate. Quello che oggi si sta verificando potrebbe dar adito a considerazioni circa l'avvio di una nuova tappa nell'evoluzione delle migrazioni. Certamente sta aumentando la distanza tra paesi ricchi e paesi poveri, tra Nord e Sud del mondo: mentre l'economia dell'Est europeo stenta ad avvicinarsi a quella della restante Europa, la ‛scogliera' economica che divide gli Stati Uniti dal Messico e quella che, attraverso il Mediterraneo, separa l'Europa dal Nordafrica continuano a creare un'enorme pressione migratoria sulle aree più ricche del pianeta, contribuendo a volte a convertire, come nel caso dell'Italia meridionale, zone di tradizionale emigrazione in potenziali aree di immigrazione. Il risultato in questi casi è, sul piano economico e sociale, l'aggravarsi di vecchi problemi e l'insorgere di nuovi. Insieme ai nuovi scenari migratori vanno emergendo inoltre nuove rivalità economiche che spesso alimentano la presenza di diverse forme di protezionismo nazionale, giustificato sul piano etico con necessità difensive ancora non ben definite.
Si vede così che il processo di globalizzazione dei flussi migratori è ancora ben poca cosa rispetto alla loro regionalizzazione; è inoltre necessario tener presente che l'internazionalizzazione dell'economia non esclude la polarizzazione geografica degli investimenti, ragione per cui rimane sempre molto forte la persistenza delle migrazioni tra paesi vicini e tra paesi che hanno somiglianze storiche e culturali. Infine, la continuità storica del processo migratorio ha un suo dinamismo anche grazie agli accordi economici e politici che si stabiliscono tra paesi di una stessa area geopolitica: la Comunità Europea ha senz'altro avuto anche questa funzione, così come altri tipi di accordi economici quali, ad esempio, il NAFTA (North America Free Trade Agreement), recentemente concluso tra Stati Uniti e Canada e che dal 1999 potrebbe essere esteso anche al Messico (v. Werner, 1994).
Tra le nuove caratteristiche delle migrazioni internazionali emerge con chiarezza anche la tendenza sempre più marcata a una maggiore presenza delle donne. La ‛femminizzazione' delle migrazioni è il risultato di comportamenti diversi: in primo luogo, l'intensificarsi delle politiche attuate negli ultimi decenni da molti paesi per favorire i ricongiungimenti familiari e, in secondo luogo, le trasformazioni dei ruoli sociali dei due sessi e dello status femminile (v. Zlotnik, 1995). Nel passato, le donne immigrate erano generalmente soltanto quelle che andavano al seguito del marito, mentre oggi partono autonomamente, sia per cercare un'occupazione nei paesi dove è richiesta mano d'opera femminile, sia per ottenere un permesso di ingresso come rifugiate. In Italia, ad esempio, le domande di asilo dalla ex Iugoslavia vedono una presenza delle donne maggiore di quella degli uomini.
3. L'accelerazione dei movimenti migratori in Europa e Nordamerica
La disponibilità di dati è ovviamente il presupposto di ogni analisi e di ogni riflessione sulle azioni politiche e sociali riguardanti le migrazioni. Quasi ovunque, purtroppo, la raccolta delle informazioni sull'entità e sulle caratteristiche delle migrazioni rappresenta uno dei principali problemi. Non sempre, ad esempio, coloro che migrano da una zona a un'altra trascrivono il loro trasferimento, né coloro che rientrano nel paese di origine si preoccupano di registrare il ritorno; inoltre, le disposizioni a questo riguardo variano da paese a paese, e ciò rende spesso impossibili le analisi comparative. Il problema maggiore è che il flusso verso i paesi di immigrazione avviene frequentemente attraverso canali illegali o ‛irregolari', sicché la migrazione documentata non è che una parte di quella reale. La letteratura al riguardo è copiosa (v., ad es., CMS-IUSSP, 1987) e in questa sede non sembra opportuno passare in rassegna i regolamenti interni di ogni paese o fare riferimento a tutte le definizioni di migrazione; ci si limiterà, invece, a valutare i movimenti migratori sulla base delle informazioni esistenti, nazionali e internazionali, facendo riferimento alla migrazione documentata mediante registrazione, alle stime indirette della migrazione illegale o ‛irregolare' e alla raccolta delle informazioni relative agli ingressi per domanda di asilo.
Prima di entrare nel dettaglio dell'analisi - che, come detto, sarà incentrata principalmente sulle migrazioni internazionali degli ultimi decenni - può essere utile rappresentare, per le aree geografiche oggetto di studio, un quadro di riferimento dei movimenti di popolazione a partire dal secondo dopoguerra. Dal 1950 al 1989, in Europa occidentale e nel Nordamerica, si è verificato un accrescimento della popolazione per un saldo migratorio netto di circa 8 milioni di unità nella prima e quasi 25 milioni nella seconda; complessivamente, una quota pari a due terzi del saldo è stata registrata a partire dagli anni settanta. L'accelerazione verificatasi a partire da questa data è evidente per entrambe le aree geografiche, anche se il processo appare differenziato nei diversi periodi: in Nordamerica, dopo un raddoppio negli anni settanta rispetto agli anni sessanta, il saldo si è ridotto a metà negli anni ottanta rispetto al decennio precedente, mentre nei paesi europei nel loro insieme, dagli anni sessanta in poi l'incremento è all'incirca raddoppiato in ogni decennio successivo.
La situazione europea è però tutt'altro che omogenea. Fino agli anni settanta, come è noto, nei paesi meridionali il saldo è stato ampiamente negativo: secondo le stime riportate (v. tab. I), un saldo negativo di 6 milioni di individui indica che un numero almeno altrettanto elevato ha lasciato questa parte del continente per recarsi nei paesi d'oltreoceano o in quelli dell'Europa settentrionale. Per l'intero quarantennio considerato, in questa stessa area, è stato registrato un saldo migratorio netto superiore ai 14 milioni e mezzo di individui: la Germania Federale e la Francia ne sono state le vere protagoniste, con un tasso migratorio positivo che, soprattutto per la prima, è stato mediamente del 4‰ annuo, mentre l'incremento naturale è stato solo del 2‰ (v. Macura, 1994). Nel Nordamerica, benché l'aumento di popolazione sia stato sempre ampiamente garantito dalla crescita naturale, l'apporto delle migrazioni, tra il 1950 e il 1989, con tassi del 4 e del 3‰, rispettivamente, per Canada e Stati Uniti, ha contribuito al 25% della crescita demografica dei due paesi.
I dati più recenti, anche se incompleti e frammentari, e non sempre comparabili con i precedenti, evidenziano per i primi anni novanta un'ulteriore crescita dei movimenti migratori: ad esempio, in Canada, nel 1992, sono immigrate 253 mila persone contro le 214 mila del 1990 e le 138 mila in media annue del periodo 1985-1989; analogamente, nel 1992 sono entrati negli Stati Uniti 974 mila stranieri contro una media annua di 606 mila del periodo 1985-1989 (v. UN-ECE, 1996). I paesi europei non contraddicono l'andamento nordamericano: le stime per il periodo 1990-1994 forniscono per l'Europa occidentale una migrazione netta di poco più di un milione di individui contro i 500 mila del quinquennio precedente; in particolare, per la Germania la stima per il periodo 1990-1994 è di 567 mila unità, contro le 332 mila del 1985-1989, e anche per l'Italia le migrazioni nette sono valutate per l'ultimo quinquennio in 132 mila unità, a fronte delle 66 mila del quinquennio precedente.
Nei paesi dell'Europa orientale (ex Unione Sovietica, paesi del centro e dell'est europeo), l'evoluzione delle migrazioni nel secondo dopoguerra ha subito variazioni ben diverse da quelle degli altri paesi europei (v. tab. II). L'era della guerra fredda aveva favorito il consolidarsi del regime comunista sovietico, contribuendo quindi, fino alla fine degli anni sessanta, e nonostante la partenza di numerosi gruppi etnici e religiosi, a far registrare un saldo positivo per i paesi dell'ex Unione Sovietica. Nel ventennio successivo gli ingressi non hanno bilanciato le uscite, sicché circa 700 mila persone hanno lasciato il loro paese tra il 1950 e il 1989; in particolare, 370 mila Ebrei sono partiti nel periodo 1973-1979 e molti dei rimanenti durante gli anni della presidenza di Gorbačëv, tra il 1986 e il 1987 (v. Münz, 1995).
Per gli altri paesi dell'area, appartenenti o meno al blocco sovietico, il saldo negativo fu una costante per tutti gli anni della guerra fredda: un ammontare netto di circa 6 milioni nel primo ventennio (1950-1969) e di 3,2 milioni nel secondo (1970-1989); occorre considerare tra l'altro che una parte consistente passò dalla Germania dell'Est a quella dell'Ovest.
Come si è detto, dopo il crollo del comunismo e la crisi economica che ha investito tutti i paesi dell'area di influenza sovietica, si è avuto un vero e proprio esodo: in soli 4 anni (1990-1993) l'Europa orientale nel suo insieme ha registrato un saldo migratorio negativo superiore a 3 milioni e mezzo di individui, rispettivamente 1,4 milioni dall'ex Unione Sovietica e 2,3 dai restanti paesi dell'area.
Il quadro appena descritto evidenzia l'esistenza di due Europe contrapposte: una, quella dei paesi occidentali nel loro insieme, che riceve popolazione; l'altra, quella dei paesi orientali, caratterizzata da un continuo e crescente esodo dei suoi abitanti che, come si vedrà in seguito, si dirigono prevalentemente verso la prima, cioè verso i paesi europei più ricchi.
4. Gli immigrati nei paesi europei alle soglie del 2000
Il saldo migratorio è il risultato di due componenti spesso non note separatamente: immigrazione ed emigrazione. Entrambe sono prevalentemente costituite da tre tipi di flussi difficilmente distinguibili: le persone che migrano alla ricerca di un'occupazione, quelle che chiedono asilo politico e infine coloro i quali si ricongiungono ai loro familiari.
In quest'ultimo decennio, al continuo aumento di flussi di popolazioni provenienti dal Terzo Mondo alla ricerca di un lavoro, si è aggiunto il problema dell'accoglienza dei rifugiati. Per i paesi ospiti è ormai indispensabile conoscere l'entità di questi flussi, al fine di poter adottare misure legislative adatte alle nuove caratteristiche del fenomeno. Per poter disporre di statistiche attendibili è necessario ‛regolarizzare' i diversi contingenti per categorie di flusso, tenendo in considerazione molti fattori, quali, ad esempio, i bisogni dei mercati nazionali del lavoro, l'integrazione dei migranti sul territorio, la capacità di sostenere i costi sociali derivanti da una crescente domanda di servizi da parte della popolazione straniera, e, non ultimo, l'impegno di evitare che la presenza degli immigrati costituisca un elemento catalizzatore di conflitti e di scontri sociali (v. Golini e Bonifazi, 1987). Nonostante le innumerevoli difficoltà di rilevazione, gli organismi ufficiali e i singoli ricercatori, a livello nazionale e internazionale, hanno prodotto numerose stime delle migrazioni con informazioni molto disaggregate relativamente al tipo e alla direzione dei flussi e alle diverse caratteristiche strutturali dei migranti.
Nel commentare i dati disponibili, è necessario esaminare, prima delle suddette stime, l'entità della presenza straniera sul territorio, ottenuta attraverso i dati ufficiali disponibili che, pur essendo solo parzialmente rappresentativi della realtà migratoria, sono un punto di riferimento statisticamente attendibile, in grado di fornire un'immagine interessante dell'evoluzione del fenomeno. Nella tab. III, si può rilevare come nel secondo dopoguerra, per l'insieme dei paesi dell'Europa occidentale, la proporzione di popolazione straniera su quella autoctona sia più o meno raddoppiata ogni ventennio, passando dall'1,3% al 2,3% tra il 1950 e il 1970 e dal 2,3% al 4,5% tra il 1979 e il 1990, con ritmi di crescita più sostenuti negli anni più recenti. Oggi, in questi paesi europei risiedono 18 milioni di stranieri, a fronte dei 5 milioni del 1950 e degli 11 milioni del 1970; è interessante notare che l'entità di questi contingenti sarebbe più elevata se nel computo fossero inclusi i figli degli stranieri nati nel paese ospite, i rifugiati naturalizzati, tutti i cittadini delle ex colonie e, ovviamente, gli immigrati illegali.
Nel periodo 1991-1992, tra gli Stati dell'Europa occidentale Lussemburgo e Lichtenstein hanno la proporzione di stranieri più elevata (rispettivamente 29,6% e 38,5%), anche se l'ammontare assoluto è molto basso (rispettivamente 115 e 10 mila unità), soprattutto se confrontato con quello della Germania (circa 7 milioni di stranieri) e della Francia (più di 3 milioni e mezzo di stranieri). La Germania, in particolare, detiene il primato europeo per il numero degli stranieri: determinatosi tra il 1960 e il 1970, con l'ingresso dei rifugiati dalla Germania dell'Est, esso si è consolidato nei primi anni novanta, con l'arrivo di emigrati dai paesi dell'ex blocco sovietico. Dal 1970 a oggi, in Germania gli stranieri residenti sono aumentati da 3 a 7 milioni; in Francia e nel Regno Unito il numero di stranieri è invece meno elevato, perché nel computo non sono stati considerati i cittadini delle ex colonie, giunti numerosi soprattutto nei primi decenni del secondo dopoguerra, dopo la fine dell'era coloniale.
Da una lettura più attenta della tab. III è possibile individuare le modificazioni nell'evoluzione del fenomeno. I rallentamenti e le inversioni di tendenza verificatisi dagli anni settanta sono evidenti: molti paesi sviluppati, per reagire alla recessione economica seguita alla crisi petrolifera del 1973, attuarono misure restrittive per l'ingresso degli immigrati. In Svizzera e in Svezia, ad esempio, si è verificata una diminuzione della presenza straniera, con proporzioni sul totale che sono passate, per la prima nazione dal 17,2% degli anni 1970-1971 al 14,7% del 1982, e per la seconda, nel medesimo periodo, dal 5,1% al 4,9%. In Francia e Germania la stessa inversione di tendenza si è verificata nel decennio successivo. Infatti, tra il 1980 e il 1990 il peso della popolazione immigrata è passato, rispettivamente, dal 6,8% al 6,4% e dal 3,9% al 3,4%. Questo ‛ritardo', almeno in Francia, è il risultato dell'avvio di politiche tese a favorire i ricongiungimenti familiari che hanno consentito gli ingressi anche in periodo di crisi economica, oltre a rispondere alle esigenze di un alto numero di immigrati. I risultati di questa apertura sono stati benefici da un punto di vista demografico poiché, accrescendo la presenza di donne e di bambini, hanno favorito il processo di omogeneizzazione delle caratteristiche per età e per sesso della popolazione immigrata con quelle della popolazione autoctona.
A partire dagli anni settanta, anche nei paesi dell'Europa meridionale - che tradizionalmente rappresentavano aree di emigrazione - si è verificata un'inversione di tendenza dei flussi migratori: in Italia, in particolare, gli effetti della chiusura delle frontiere dei paesi dell'Europa settentrionale ai flussi di mano d'opera meridionale sono stati attutiti da una rapida crescita economica, che ha consentito sia il rientro in patria di molti emigrati (i ritorni divennero presto superiori alle partenze), sia lo sviluppo di nuove aree di occupazione, le quali sono poi divenute una meta per molte popolazioni dei paesi poveri del Mediterraneo, dell'Africa subsahariana e dell'Asia e, dalla seconda metà degli anni ottanta, anche per le popolazioni dei paesi europei dell'ex area socialista.
Per approfondire l'analisi dei cambiamenti avvenuti dopo gli anni ottanta nei modelli migratori dei paesi europei, si può fare riferimento alle tabb. IV e V e alla fig. 3, in cui vengono riportate, per ogni anno, le entità degli ingressi e delle richieste di asilo politico. Pur in presenza di esigue informazioni sulle migrazioni illegali, e tenuto conto dei diversi metodi di raccolta dei dati nei vari paesi che possono limitarne la comparabilità, si può tuttavia avere un'idea delle differenze geografiche esistenti. Queste differenze sono l'effetto sia dei provvedimenti politici adottati all'interno di ogni paese, sia del susseguirsi degli avvenimenti politici ed economici che hanno coinvolto l'intero continente. Nel periodo 1980-1985, in quasi tutti i paesi tradizionalmente a elevata immigrazione si è verificata, come già accennato per Francia e Gran Bretagna, una flessione degli ingressi, mentre negli anni successivi si è avuta una ripresa, proprio in coincidenza con l'aumento delle domande di asilo politico. Alla fine degli anni ottanta e agli inizi degli anni novanta per Francia e Svezia, ad esempio, l'ammontare delle migrazioni sembra determinato esclusivamente dagli ingressi per richiesta d'asilo (v. fig. 3).
Il risultato appena illustrato è scontato se si considera che tra il 1980 e il 1993 dai paesi dell'Europa orientale e da quelli dell'ex Unione Sovietica sono emigrati più di 6 milioni di individui (saldo netto), di cui 3,6 milioni nei soli tre anni 1990-1993, e che una proporzione molto elevata si è diretta verso i paesi dell'Europa occidentale. Nella sola Germania, ad esempio, tra il 1985 e il 1992, il flusso di migranti dall'Est per motivi di lavoro è stato di circa un milione e mezzo, in aggiunta a un milione di ingressi per domande di asilo (v. Fassmann e Münz, 1994). Osservando i dati della tab. VI è possibile arricchire l'analisi sulla consistenza e sulla direzione dei flussi più recenti. In primo luogo, è confermato quanto è stato appena detto per la Germania, dove la proporzione di coloro che nel 1992 provenivano dagli ex paesi socialisti costituisce più della metà degli immigrati totali. Questa particolare composizione dei flussi non viene invece confermata per gli altri paesi, che sembrano richiamare prevalentemente popolazione dall'Europa occidentale; fanno eccezione a questa regola solo Francia, Italia (v. anche la tab. VII) e Portogallo. In Francia, infatti, nel 1992 il 44% del totale degli immigrati proveniva dall'Africa, mentre in Italia il 53% degli immigrati proveniva dai paesi africani e asiatici; in Portogallo, invece, prevaleva il flusso proveniente dalle Americhe, che costituiva il 52% del totale.
La realtà è certamente diversa da quanto emerge dai dati disponibili - almeno riguardo ai flussi provenienti dai paesi dell'ex area socialista, dall'Africa e dall'Asia - che sono al netto dell'immigrazione illegale; quando si parla di migrazione illegale è bene, però, ricordare che la sua proporzione differisce notevolmente a seconda del paese di destinazione. Nell'Europa meridionale, e in particolare in Italia, l'immigrazione illegale è più elevata che altrove, poiché numerosi fattori - quali la conformazione geofisica dei confini, la vicinanza ai paesi di emigrazione, il ritardo nella legislazione, la mancanza di politiche adeguate, la scarsa capacità di controllo - hanno contribuito a facilitare l'ingresso dei ‛clandestini'. Molte stime confermano, ad esempio, che nei paesi dell'Europa meridionale i flussi provenienti illegalmente dai paesi poveri del Mediterraneo e dall'Africa subsahariana superano quelli registrati ufficialmente: secondo alcune stime del Consiglio d'Europa, in Italia, Spagna, Grecia e Portogallo ci sarebbero circa un milione e mezzo di illegali provenienti da paesi extraeuropei, tra i quali più di mezzo milione proverrebbe dall'Africa del nord (v. Schoorl e altri, 1997). La stessa fonte fornisce anche le stime sull'evoluzione del flusso migratorio africano nei vari paesi europei distinto nelle due componenti, legale e illegale. Nel 1985 l'entità degli immigrati, secondo i dati censuari, era di circa 2,3 milioni di unità; invece l'entità stimata con l'aggiunta degli illegali ammontava a circa 2,7 milioni di individui. Solo nove anni dopo il divario tra le due quantità era più che raddoppiato: nel 1994, in Europa, gli immigrati registrati superavano i 3 milioni e se ne stimavano oltre 4 milioni illegali; inoltre, tra i paesi europei il maggiore divario tra l'entità registrata e quella degli irregolari era stato rilevato in Italia, in cui l'entità numerica dei due contingenti era rispettivamente uguale a 288 e 935 mila unità (v. Schoorl e altri, 1997).
Com'è noto, nel nostro paese spesso si sono accesi vivaci dibattiti sul numero degli immigrati illegali. Il perpetuarsi dei dibattiti è dovuto all'incapacità di trovare un accordo sulla valutazione del contingente illegale, poiché la farraginosa prassi amministrativa italiana rende difficile, se non addirittura impossibile, stimare questa componente, anche per la complicata suddivisione degli immigrati in ‛regolari', ‛irregolari' e ‛clandestini', che raramente permette di separare la parte legale da quella illegale. Lo straniero presente in Italia può essere, ad esempio, regolare per quanto concerne il permesso di soggiorno, ma non essere registrato nell'anagrafe (ciò è previsto dalla legislazione); al contrario, potrebbe essere regolare per l'anagrafe - e anche per le liste di collocamento - pur essendo irregolare o clandestino, perché sprovvisto di permesso di soggiorno (questo non è contemplato dagli attuali regolamenti). Inoltre, l'applicazione delle disposizioni giuridiche varia da un'area all'altra del nostro territorio. Fortunatamente, in questi anni, le difficoltà e le incongruenze determinate dalle complicazioni giuridiche e amministrative non hanno impedito ai ricercatori di produrre numerose stime che sembrano concordare su alcuni importanti aspetti (v. Strozza, 1994), primo fra tutti quello relativo al numero degli immigrati presenti sul nostro territorio, che dovrebbe attualmente aggirarsi attorno a 1,2-1,4 milioni di individui (una cifra più che doppia rispetto a quella rilevata nel censimento del 1991: v. Natale, 1990; v. CENSIS, 1993; v. ISTAT, 1994; v. ISMU, 1995).
Nel nostro paese più dell'80% degli immigrati censiti è stanziato nell'area centro-settentrionale, e il solo nord ne ospita il 48%. Valutazioni più puntuali evidenziano, inoltre, che nel Mezzogiorno l'immigrazione non è solo più ridotta, ma ha assunto anche caratteristiche diverse, tanto da far ipotizzare un carattere di temporaneità: le regioni del sud potrebbero, infatti, rappresentare per gli immigrati la prima tappa, facilmente raggiungibile, in vista di successivi spostamenti (v. Ferruzza e altri, 1996). Le statistiche dei permessi di soggiorno concessi nel 1991 e nel 1994 confermano la tendenza a una crescita progressiva della popolazione straniera nel nord e nel centro del paese. Può essere interessante sottolineare che dei 649 mila permessi di soggiorno validati entro la fine del 1991, il 65% era costituito da richieste per motivi di lavoro: un valore molto elevato e una tendenza controcorrente rispetto a quanto avviene in gran parte dei tradizionali paesi europei di immigrazione (v. fig. 4, A e B).
Per quanto riguarda le modificazioni delle caratteristiche dei flussi e dei migranti, si è detto come negli ultimi anni in molti paesi europei il panorama sia completamente mutato, soprattutto in seguito agli effetti prodotti da interventi politici e legislativi tesi a limitare i nuovi ingressi per motivi di lavoro. Nel nostro paese, per l'inconsistenza degli interventi, gli effetti non sono evidenti, ma là dove le misure politiche datano da più tempo, l'impatto sulle caratteristiche dei flussi e dei migranti è notevole. Si è detto come in Francia, ad esempio, la tendenza sia da tempo quella di contrastare i nuovi ingressi, a eccezione dei ricongiungimenti familiari (v. fig. 4B); questa prassi è stata seguita un po' ovunque e ha contribuito a determinare, tra l'altro, una delle più interessanti modificazioni nelle caratteristiche della popolazione migrante, vale a dire la ‛femminizzazione'. Oggi, in tutti i paesi dell'Europa settentrionale le donne costituiscono mediamente il 45-46% del totale della popolazione immigrata, anche se la loro presenza assume intensità variabile a seconda del paese di provenienza. Inoltre, se è vero che la partenza delle donne dipende dal contesto socio-culturale in cui esse vivono, dagli avvenimenti e dalle circostanze del momento (guerra, crisi alimentari, repressione politica, ecc.), è ancor più vero che la partenza è anche il riflesso della situazione esistente nel paese di arrivo, sia per le politiche che favoriscono i ricongiungimenti familiari, sia per le opportunità offerte dal mercato del lavoro. Dalla fig. 5, si può vedere, ad esempio, quale sia l'eterogeneità della presenza femminile a seconda del paese di origine (per cinque nazionalità) e, nello stesso tempo, a seconda di quello di destinazione (per cinque paesi, più l'Europa): si può notare come le donne delle Isole Mauritius superino gli uomini (valori superiori a 1.000) in ogni zona di arrivo e siano addirittura quasi 3 volte più numerose in Germania; ciò sta a indicare sia l'acquisizione di una sicura autonomia dall'uomo nel progetto migratorio, sia la presenza di opportunità, nei paesi ospiti, per l'occupazione femminile in alcuni settori lavorativi. Al contrario, l'emigrazione delle donne egiziane è notevolmente più contenuta di quella dei connazionali, perché il progetto migratorio, deciso in genere in ambito familiare, prevede spesso la rinuncia della donna a emigrare.
5. Le recenti immigrazioni in Canada e Stati Uniti
Analogamente all'analisi condotta per l'Europa, si descriverà anche per Canada e Stati Uniti la consistenza della presenza straniera facendo riferimento ai censimenti più recenti. Nel primo paese il numero degli immigrati, al censimento del 1990, superava i 4 milioni, costituendo il 16% della popolazione totale; rispetto al decennio precedente la crescita è stata di circa 400 mila unità, mentre il peso sulla popolazione totale ha subito un incremento di soli 0,7 punti percentuali (da 15,4% a 16,1%). L'evoluzione del fenomeno è stata più rilevante negli Stati Uniti, dove gli immigrati, secondo i dati degli ultimi due censimenti, sono passati da poco più di 14 milioni nel 1980 a quasi 20 milioni nel 1990, e il loro peso sul totale della popolazione è passato dal 6,2% al 7,9%. Questa crescita sembra ancor più sorprendente se confrontata con i circa 9 milioni di immigrati rilevati dal censimento del 1970: la popolazione immigrata è infatti raddoppiata in un solo ventennio.
L'analisi dettagliata dei flussi annuali evidenzia differenze e similitudini nel processo migratorio delle due realtà nordamericane. Negli Stati Uniti, durante gli anni settanta, sono stati rilevati in media 450 mila ingressi annui, con valori prossimi a quelli del periodo precedente, mentre durante gli anni ottanta il loro ritmo è stato più sostenuto e pari in media a circa 650 mila unità annue (v. Castels e Miller, 1993). Per il Canada, al contrario, gli anni settanta costituirono un periodo importante per l'immigrazione: gli ingressi, che nel decennio precedente erano stati in media di circa 100 mila unità, raddoppiarono; in seguito, nella prima metà degli anni ottanta, il numero di immigrati è diminuito, mantenendosi per alcuni anni assai più basso dei livelli precedenti (v. tab. IX). Ovviamente queste differenze evolutive sono determinate da una diversa storia migratoria e dal riflesso di decisioni politico-amministrative (v. Papademetriou, 1994).
Solo dalla seconda metà degli anni ottanta si registra per questi due paesi una vera e propria convergenza per l'aumento repentino dei flussi migratori, che nei primi anni novanta hanno superato le 200 mila unità annue in Canada e il milione negli Stati Uniti. Questa convergenza è la conseguenza di un insieme di misure politiche adottate da entrambi i paesi, come quelle volte a favorire i ricongiungimenti familiari, la regolarizzazione degli illegali e gli ingressi per alcune categorie di rifugiati; ovviamente, almeno per gli Stati Uniti, la maggiore apertura delle frontiere è stata favorita anche da una forte ripresa economica.
Le misure legislative per la regolarizzazione degli immigrati e l'autorizzazione ai ricongiungimenti familiari hanno permesso di avere maggiori e più precise informazioni, sia sull'intensità dei movimenti migratori sia, soprattutto, sulla composizione della popolazione straniera. Dalla fig. 6 si evince l'impatto di tali misure sulla crescita del numero degli immigrati, mentre osservando i dati della tab. IX si può vedere il ruolo giocato dalla composizione degli immigrati per area di origine. Al riguardo, tra il 1980 e il 1991, in Canada i flussi provenienti dall'Africa e dal Medio Oriente sono passati dal 6% al 18% del totale, con un aumento in valore assoluto di circa 30 mila unità; inoltre, nel medesimo decennio, è aumentata anche la proporzione dei Sudamericani, passando dal 9% al 16%, mentre - nonostante l'aumentata consistenza dei flussi - è diminuito il peso degli immigrati provenienti dal continente europeo (dal 29% al 21%). La composizione dei flussi è mutata anche per gli Stati Uniti (soprattutto negli anni successivi alle regolarizzazioni del 1986 e del 1990): dal 1980 al 1991 la proporzione di Messicani è passata dall'11% al 51%, mentre quella europea, pur aumentando l'intensità del fenomeno, si è ridotta dal 14% al 7%. Sul finire degli anni settanta le proporzioni di Europei, Asiatici e Americani del centro-sud erano rispettivamente del 18%, 44% e 35%; dopo la regolarizzazione del 1986 (IARC, Immigration reform and control act) tali proporzioni sono passate rispettivamente all'11%, 38% e 47%, e dopo le nuove misure di regolarizzazione del 1990 (IA, Immigration act) le tre componenti erano uguali al 7%, 22% e 67%.
I risultati a cui mirava il Congresso americano con la nuova legislazione del 1990 non si sono fatti attendere: con le regolarizzazioni, dal milione di immigrati del 1989 si è passati al milione e 800 mila del 1991. Il succedersi degli interventi legislativi a favore delle immigrazioni avrebbe dovuto sanare la situazione precedente e regolamentare, se non eliminare, il flusso di illegali, ma ciò non si è verificato, e le stime sulla presenza straniera valutano che negli Stati Uniti vi siano circa 3 milioni e mezzo di illegali (per l'80-90% Messicani) e che, nonostante le misure per il controllo dei confini, entrino clandestinamente almeno 200 mila persone l'anno.
Per quanto riguarda le richieste di asilo, gli Stati Uniti favorirono negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, come è ben noto, l'ingresso di molti immigrati dall'Europa e, in particolare, dai paesi del blocco sovietico: si calcola che tra il 1946 e il 1980 siano entrati negli Stati Uniti, per rimanervi definitivamente, circa due milioni di rifugiati. Purtroppo, il confronto con i dati relativi agli anni recenti è pressoché impossibile, poiché nel 1980 una nuova legislazione ha modificato sostanzialmente la definizione di ‛rifugiato'; tuttavia, si può affermare che a partire da questa data gli ingressi per domanda di asilo siano stati ogni anno circa un sesto del totale dei flussi (v. fig. 6).
È interessante sottolineare che nel 1990 Canada e Stati Uniti, nel definire le politiche migratorie, hanno programmato il numero massimo di immigrati da accogliere fino al 1995, stabilendo una quota notevolmente più elevata di quella degli ingressi degli anni precedenti: il primo paese, in base all'entità del fenomeno migratorio rilevata nel 1990, indicò come limite massimo di accoglienza un numero annuo di immigrati non superiore ai 250 mila individui, tra i quali quelli in cerca di un'occupazione non dovevano essere più del 50%; gli Stati Uniti hanno invece fissato, per il periodo 1992-1994, un numero medio annuo di ingressi pari a 714 mila, e per il 1995 una cifra non superiore ai 738 mila (nel 1995, inoltre, la percentuale di ingressi per motivi di lavoro è stata ristretta al 16-17%, in modo che i ricongiungimenti familiari potessero costituire il 70% del totale). Oggi, da un confronto a posteriori si può dire che gli ingressi legali hanno superato i limiti fissati. Infatti, in Canada nel 1993 sono stati registrati circa 254 mila immigrati e negli Stati Uniti, negli anni 1992 e 1993, rispettivamente 974 e 904 mila.
6. La conclusione di un percorso: l'integrazione
La realtà delle migrazioni statunitensi rimette in discussione le certezze di chi vede nella programmazione degli ingressi la via sicura per il controllo dei flussi. La realtà storica e l'attuale situazione sociale, politica, economica e demografica dimostrano che nel prossimo futuro i paesi ricchi continueranno a essere la meta di un numero crescente di immigrati; per i paesi del Terzo Mondo non è infatti ipotizzabile alcuna crescita economica che possa consentire di colmare nel breve periodo il divario che li divide dai paesi ricchi. Anche sul fronte della cooperazione internazionale, nonostante gli sforzi di questi anni, gli innumerevoli interventi non hanno dato risultati tangibili. Gli attuali accordi economici che prevedono la libera circolazione delle merci e dei capitali non sono certo sufficienti a dare una risposta alla pressione demografica dei paesi meno sviluppati, anche se possono avere un effetto indiretto nel limitare la libera circolazione di mano d'opera illegale. Per lo più, nel futuro, in molti paesi ricchi, in particolare in quelli europei, se l'incremento demografico naturale non dovesse essere in grado di garantire una quantità di popolazione in età lavorativa compatibile con lo sviluppo desiderato, non si potrà fare a meno della mano d'opera straniera; l'Italia, con l'attuale forte declino della fecondità, potrebbe essere uno di questi paesi. Inoltre, non è detto che molti paesi europei, che a livello comunitario si dichiarano disposti a chiudere le loro frontiere, non continuino di fatto ad alimentare un certo flusso utile alle loro economie.
Nei confronti dell'immigrazione l'atteggiamento dei governi d'oltreoceano è certamente diverso da quello dei paesi europei. Da tempo è noto che gli Stati Uniti, ad esempio, si preoccupano soprattutto di bloccare l'ingresso alle merci e ai capitali piuttosto che all'immigrazione, al contrario dei paesi europei che, pur perseguendo politiche diverse, trovano un punto di convergenza attorno a una posizione di fondo che mira a un controllo quantitativo e qualitativo dei flussi (v. Bonifazi e Gesano, 1994). La forte pressione migratoria esercitata dalle popolazioni dei paesi africani e l'afflusso inarrestabile di individui provenienti dai paesi dell'ex area socialista hanno certamente contribuito a rafforzare le misure di chiusura all'ingresso di nuovi immigrati; esistono, tuttavia, atteggiamenti diversi in relazione al tipo di flusso e, in particolare, sulla necessità di favorire o meno i ricongiungimenti familiari per gli stranieri già regolarmente presenti sul territorio e sull'accettazione delle richieste d'asilo.
Al di là delle differenze nelle politiche migratorie, tutti i governi europei sono concordi sul fatto che per coloro ormai immigrati da tempo si debbano creare le condizioni per una completa integrazione economica, politica e sociale (v. Tapinos, 1994). Ovviamente, questo è solo un accordo sul ‛principio', poiché sui mezzi per realizzarlo la questione rimane completamente aperta, non solo tra paesi differenti, ma anche all'interno delle singole nazioni. È evidente, del resto, che la completa integrazione dipende dall'uguaglianza delle chances che ogni individuo ha in tutte le società, senza alcuna discriminazione culturale, religiosa o razziale. Il processo che porta all'integrazione è però estremamente complesso e, come ricordano Bonifazi e Gesano (v., 1994), "ha diversi esiti possibili al mutare dei modelli di riferimento in base ai quali viene organizzato e si struttura il rapporto tra immigrati e società d'arrivo. Un nodo politico fondamentale del processo immigratorio, ma anche un problema ancora aperto e dalle molteplici soluzioni, come dimostra il fatto che delle diverse strade scelte in passato dai paesi d'immigrazione europei ed extraeuropei, nessuna ha realizzato pienamente i suoi obiettivi, mentre generali rimangono le difficoltà di inserimento per gli immigrati". Pur nella mancata attuazione dei modelli di integrazione seguiti dai diversi paesi, le linee guida segnate dal legislatore sembrano essere ovunque quelle di favorire l'inserimento degli immigrati regolari, avendo cura di preservare la loro cultura di origine e le loro tradizioni, compatibilmente con quelle nazionali (v. Cagiano de Azevedo e altri, 1993 e 1994). Tra i punti fondamentali, previsti anche nelle misure legislative adottate nel 1986 dal nostro paese, sono presenti il riconoscimento agli immigrati della parità di trattamento e dell'uguaglianza di diritti con i lavoratori autoctoni, il diritto all'uso dei servizi sociali e sanitari, alla scuola e alla disponibilità di un'abitazione (v. Coleman, 1993).
Anche se le misure adottate per garantire agli immigrati, se non una vera e propria integrazione almeno un adeguato inserimento, sono quelle appena richiamate, notevole è a livello geografico la variabilità nell'intervento e nell'applicazione. Inoltre, permangono o si accrescono ovunque le difficoltà di intervento, anche nei campi in cui le politiche di integrazione sembrano aver abbattuto tutte le barriere. Gli esempi di disagio sono tanti: si pensi soltanto al fatto che, come in passato, gli immigrati sono prevalentemente occupati nei settori di attività più svantaggiati, e occupano in genere le posizioni marginali (v. Entzinger, 1990), oppure alla circostanza - rilevata dall'ultimo rapporto sulle migrazioni internazionali dell'OECD - per cui in tutti i paesi occidentali i tassi di disoccupazione sono aumentati in questi ultimi anni più velocemente per la popolazione immigrata (v. OECD, 1995).
Inoltre, se l'occupazione facilita l'inserimento dell'immigrato nella comunità di accoglienza, non meno importante è la possibilità di disporre di un'abitazione adeguata; è ben noto, tuttavia, che in tutti i paesi del mondo le condizioni abitative in cui vivono gran parte degli immigrati sono spesso tanto precarie da essere lontane anche dagli standard richiesti a una società civile. Purtroppo tale problema non è facilmente risolvibile, poiché richiede politiche di intervento mirate, difficili da attuare quando, come nel nostro paese, la mancanza di un alloggio accomuna gli immigrati e una parte della popolazione autoctona.
L'istruzione è un altro elemento fondamentale su cui poggia il processo d'inserimento degli immigrati nella società ospite. Le prime misure a riguardo, come l'istituzione di corsi di lingua per gli immigrati e di corsi d'istruzione particolari per i loro figli, sono del tutto ovvie. In tutti i paesi di immigrazione la seconda generazione degli immigrati ha sempre acquisito una scarsa formazione culturale. Nonostante l'ovvietà, vale la pena ricordare che nei paesi di recente immigrazione il diritto allo studio per i figli degli immigrati spesso non è del tutto garantito e, quando lo è, la mediocrità della formazione rimane ancora tra le costanti più critiche (v. Coleman, 1994). Si potrebbe pensare che la scarsa formazione sia dovuta alle difficoltà della lingua e alla povertà del tessuto culturale in cui il bambino vive; purtroppo, tuttavia, si deve spesso constatare che tale situazione dipende in modo considerevole da fattori quali una inadeguata preparazione del personale insegnante e la carenza di programmi scolastici pluriculturali.
Il riconoscimento della cittadinanza (e/o della nazionalità) costituisce forse la tappa fondamentale dell'intero processo integrativo, perché rappresenta la conclusione del percorso migratorio e costituisce l'elemento necessario per l'acquisizione dei diritti politici e, quindi, per la piena partecipazione dell'immigrato alla vita civile del paese d'arrivo. In Italia, ad esempio, l'acquisizione della cittadinanza è un problema particolarmente complesso, poiché sulla materia vige una normativa particolarmente restrittiva e intricata, sia per la lunghezza del periodo di permanenza richiesto all'immigrato per ottenerla, sia per la natura del relativo iter amministrativo, il quale termina con un decreto del presidente della Repubblica, su proposta del Ministero dell'Interno, sentito il parere del Consiglio di Stato. Alcuni paesi cercano, anche in assenza di naturalizzazione dell'immigrato, di favorire almeno la sua integrazione politica, concedendo il voto alle elezioni amministrative: questo provvedimento rientra già tra le proposte del Trattato di Maastricht per gli immigrati dell'Europa comunitaria, ma sarebbe opportuno estenderlo anche agli altri, almeno a quelli che da tempo sono inseriti nella comunità ospite, per metterli nelle condizioni di poter esercitare il principio democratico della difesa dei propri interessi.
La conclusione ideale del percorso migratorio per le ultime generazioni di immigrati è, dunque, ben lontana dall'essere realizzata. I tempi attuali, di crisi economica e occupazionale, rendono ancora più difficile e improbabile tale realizzazione, in quanto i problemi degli immigrati coincidono spesso con quelli delle fasce più deboli della popolazione autoctona. L'immigrato, quindi, può essere visto dai cittadini più disagiati come un potenziale concorrente, e l'intervento delle autorità in suo favore può far emergere comportamenti xenofobi e razzisti molto pericolosi che, oltre ad alimentare atteggiamenti aggressivi e violenti, sono in contraddizione con i principî fondamentali della democrazia. In questo caso verrebbe distolta l'attenzione da uno dei problemi fondamentali da risolvere, ossia quello di cercare soluzioni che siano in grado di regolamentare i flussi di immigrazione senza traumi per alcuno: quanto detto vale per i paesi di recente immigrazione - in particolare per il nostro - che debbono affrontare non solo i tradizionali problemi suscitati dalle immigrazioni, ma anche quelli che stanno emergendo a livello mondiale, a seguito dell'inarrestabile processo di globalizzazione del fenomeno migratorio. Si deve considerare che oltre due terzi dell'umanità possono contare soltanto su meno di un terzo delle risorse mondiali e che questa parte della popolazione del globo è destinata, entro qualche decennio, a un aumento notevole, in ragione della sua forte crescita demografica, mentre i paesi ricchi conoscono già un notevole declino delle nascite.
Anche nei prossimi anni il mondo sviluppato difficilmente potrà contrastare la pressione immigratoria dai paesi poveri, tanto più se si cercherà di risolvere questo problema attraverso l'attuazione di politiche restrittive, miranti alla chiusura dei confini, le quali non fanno che incrementare il fenomeno dell'immigrazione clandestina. Ormai è opinione diffusa che nulla sarà fatto per intensificare e migliorare la cooperazione tra Nord e Sud del mondo, anche perché nei paesi sviluppati le prospettive del mercato del lavoro non lasciano sperare in possibili reclutamenti di grandi proporzioni di mano d'opera internazionale. È certo altresì che molti dei fattori influenti sulla limitazione del flusso migratorio sono legati al processo di integrazione e di mondializzazione dell'economia; un processo che è in grado di favorire i movimenti di capitali dai paesi ricchi verso i paesi poveri aumentando i commerci internazionali e portando così i capitali là dove è presente la forza lavoro (v. Malacic, 1997; v. Tapinos, 1997). Se tale prospettiva è auspicabile, essa non sarà peraltro attuabile - né sul breve, né sul lungo periodo - se fin d'ora i governi di tutto il mondo non lavoreranno per questo obiettivo, che può evitare o ridurre gli effetti devastanti di una crescita incontrollata delle pressioni migratorie provenienti dai paesi più poveri del mondo.
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