Migrazioni. L'Italia, l'UE e il diritto internazionale
Il 2018 ha segnato una radicale inversione di tendenza nella politica italiana di accoglienza ai migranti. In questo contributo si mostra come alla base del problema stia innanzitutto una politica europea insoddisfacente quanto al riparto degli oneri tra gli Stati membri, ed anche una visione per un verso costantemente ispirata ad una logica emergenziale e per altro a un predominio delle strategie statali, rifiutando nella sostanza il contributo delle organizzazioni non governative.
Il 2018 sembra aver segnato una cesura rispetto alle logiche che avevano caratterizzato le scelte politiche del Governo italiano nei confronti della crisi migratoria nel Mediterraneo. Alcune opzioni del 2017 avevano probabilmente già lasciato intravvedere un cambio di strategia, ma indubbiamente alcuni eventi che si verificano nel 2018 danno la sensazione netta che qualcosa stia cambiando. E non solo nelle strategie governative. Il 16 aprile 2018, ad esempio, il Tribunale di Ragusa rigettava la richiesta di sequestro della nave Open Arms ma, pur ritenendo operante la causa di esclusione del reato di cui all’art. 54 c.p., riconosceva comunque sussistente il reato di favoreggiamento della immigrazione clandestina.
La nave, appartenente alla Organizzazione non governativa (di seguito ONG) spagnola Proactiva Open Arms, era stata sopposta a sequestro dal Procuratore di Catania nel quadro di una indagine per i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (art. 12, d.lgs. 25.7.1998, n. 286) e di associazione per delinquere (art. 416 c.p.) per aver condotto in Italia 218 migranti che aveva soccorso nel Mediterraneo, rifiutando invece di condurli in Libia che non riteneva porto sicuro ai sensi della normativa internazionale vigente. La Convenzione di Amburgo del 1979 sulla ricerca e soccorso delle persone in mare prevede infatti che chi effettua il soccorso porti poi i naufraghi nel porto sicuro più vicino1. Il Tribunale di Catania, decidendo in sede di convalida, aveva però stabilito che la competenza si concretava in capo al Tribunale di Ragusa e ciò spiega perché a decidere per il dissequestro sia poi stato il Tribunale di Ragusa2. Il 10 giugno 2018, poi, il Ministro dell’interno e vicepresidente del Consiglio rifiutava l’accesso ai porti italiani alla nave Aquarius, che aveva a bordo 629 migranti, tra cui 123 minori non accompagnati, soccorsi in mare in operazioni svolte sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana. Secondo la posizione del Ministero degli interni italiano, doveva essere il governo di Malta a fornire un «porto sicuro» alla nave, mentre il governo maltese rispondeva di non avere competenza, atteso che l’operazione di salvataggio era avvenuta nell’area di competenza libica e sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana. La vicenda si è poi sbloccata con la disponibilità del governo spagnolo ad accogliere la nave nel porto di Valencia3.
Nel mese di agosto si verifica poi un altro episodio che suscita, se possibile, ancor maggiore clamore mediatico. L’ingresso nei porti italiani viene questa volta rifiutato ad una nave della Guardia costiera italiana, nave Diciotti, che aveva raccolto tra Malta e Lampedusa 190 migranti da un barcone in difficoltà, sbarcandone 13 a Lampedusa perché in gravi condizioni. La nave Diciotti alla fine viene fatta attraccare nel porto di Catania, ma lo sbarco dei passeggeri viene autorizzato solo dopo qualche giorno. Circostanza che induce la magistratura a ipotizzare una imputazione per sequestro di persona in capo al ministro Salvini4. E infine, last but not least, viene adottato il d.l. 4.10.2018, n. 113, meglio noto come “decreto Salvini”, che ha indubbiamente rappresentato il punto di arrivo di una strategia del ministro degli affari interni volta a frenare e limitare con tutti gli strumenti possibili l’arrivo di migranti extracomunitari sul territorio italiano. Il ministro ha inteso chiarire all’opinione pubblica italiana ed europea, a volte con gesti clamorosi come il respingimento della nave Aquarius o il blocco della nave italiana Diciotti alla fonda nel porto di Catania, che l’Italia non era disposta a farsi carico dell’accoglienza dei flussi migratori senza una adeguata collaborazione degli altri Stati europei5. Il decreto Salvini, recante Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata sembra però spingersi oltre la pur legittima richiesta di collaborazione degli altri Stati membri dell’Unione europea. Esso infatti, al suo titolo primo, ridimensiona in maniera assai notevole la possibilità di concedere la cd. protezione o tutela umanitaria, che assai spesso in verità veniva concessa dalle autorità competenti (le commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale) quando non apparivano adeguatamente fondate le motivazioni per il riconoscimento dello status di rifugiato (a termini della Convenzione di Ginevra del 1951) o della protezione sussidiaria prevista dalla normativa dell’Unione. E ciò nel convincimento di stare operando nell’alveo della previsione costituzionale di cui all’art. 10, co. 3, ove si legge che «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge»6. Orbene, il “decreto Salvini” intende dettare condizioni assai restrittive alla concessione della protezione umanitaria che, in difetto di univoche interpretazioni quanto al concetto di asilo, poteva a buon diritto essere vista ed è stata effettivamente considerata come una attuazione (ancorché temporanea) del disposto costituzionale.
Grande clamore mediatico ha così suscitato questo decreto, anche e non solo per la dubbia costituzionalità di alcune sue disposizioni7. In tal senso sembra autorizzare a concludere il fatto che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella abbia ritenuto di inviare al presidente del Consiglio Conte una lettera che così recita: «Signor Presidente, in data odierna ho emanato il decreto legge recante “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”. Al riguardo avverto l’obbligo di sottolineare che, in materia, come affermato nella Relazione di accompagnamento al decreto, restano “fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato”, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo, e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’art. 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia». Si è trattato, come ricordavamo sopra, dell’ultimo episodio di una strategia di limitazione della politica italiana di accoglienza dei flussi migratori provenienti sia attraverso il mar Mediterraneo, sia attraverso altri percorsi.
In verità, ed in apparente paradosso, quanto accaduto sembra essere stato ispirato da un atteggiamento complessivamente inadeguato dei partners europei e, a tratti, delle stesse istituzioni dell’Unione, che sembrano non aver voluto cogliere il carattere di peculiarità e, tutto sommato, di strutturalità del flusso migratorio in atto nel Mediterraneo.
Secondo fonti del Parlamento europeo, nel 2015 il numero di richiedenti asilo nell’Unione è salito a 1,26 milioni segnando l’inizio dell’attuale crisi migratoria nel Mediterraneo. Sulla rotta libica in particolare, i costi in termini di vite umane sono stati altissimi. Solo nei primi sei mesi del 2017 si stimavano oltre 2.257 decessi nel Mediterraneo. Nel 2016 ce ne sono stati 5.022 e 3.771 nel 2015. La crisi migratoria in atto da qualche anno nell’area del Mediterraneo presenta indubbie specificità rispetto ad altri flussi migratori verso l’Europa8. Queste specificità possono ricondursi, in ultima analisi, agli irrisolti problemi nella costruzione di rapporti paritari tra i paesi dell’Unione europea e i Paesi dell’Africa Mediterranea e sub sahariana, fortemente condizionati da dinamiche bilaterali attivate da alcuni Paesi europei, mai realmente multilateralizzate dall’Unione europea, nonostante i tanti tentativi nell’ambito della sua cd. politica di vicinato. Certamente questi flussi, incontrollati e difficilmente controllabili, vista la porosità delle frontiere in Africa imposte a suo tempo dalle potenze coloniali, possono porre problemi anche importanti per la sicurezza nazionale del nostro e di altri Paesi europei, quale che sia il significato che all’espressione “sicurezza nazionale” si voglia dare. Tuttavia, non è accettabile che tale, pur giustificata, esigenza di tutela induca a una caduta del livello di tutela dei diritti umani dei migranti, quali che siano le motivazioni che li inducono a migrare9. Eppure questo è proprio quello che accade. In primo luogo perché, di fronte a questi flussi migratori, la scelta operata dall’Unione europea è stata quella di non voler considerare il fenomeno come una vera e propria crisi, implicante la necessità di misure straordinarie, ma di attenersi ai principi del diritto internazionale in materia, secondo il quale non esisterebbe un diritto a migrare giuridicamente riconosciuto a tutti gli uomini. Solo chi fugge da particolari condizioni di disagio avrebbe diritto ad essere accolto. Va infatti riconosciuto che quanto al profilo della tutela dei diritti umani, non tutti i migranti si trovano nella stessa posizione secondo il diritto internazionale. Una prima distinzione correntemente accettata è quella secondo la quale chi si muove dal proprio paese di origine verso altri paesi spinto solo dal desiderio di migliorare le proprie condizioni economiche (il cd. migrante economico) non ha, secondo il diritto internazionale, un diritto ad essere accolto. Sarà lo Stato alla cui frontiera il migrante economico si presenta a regolarsi secondo quel che ritiene, vuoi perché interessato all’accoglienza, vuoi perché ad essa obbligato da particolari accordi. Al contrario, chi fugge da una condizione di particolare disagio, sia perché perseguitato nel proprio paese di origine, sia perché vittima di conflitti armati o catastrofi naturali, ha diritto, secondo il diritto internazionale, ad ottenere accoglienza nel paese presso il quale si presenta. Ma anche qui occorre procedere ad ulteriori distinzioni. Per cominciare bisogna ricordare che la Convenzione stipulata a Ginevra il 28.7.1951 relativa allo status dei rifugiati riconosce al proprio art. 1.2 che il termine rifugiato si applica ad ogni persona che «… per causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi»10. Si trattava con tutta evidenza di una convenzione stipulata per dare una sistemazione alla condizione degli sfollati in seguito agli avvenimenti della seconda guerra mondiale. Tuttavia, la sua applicazione venne poi estesa anche ad altre situazioni con un protocollo stipulato a New York il 31.1.1967. Essa è però ritenuta da molti studiosi ed anche dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ormai inidonea ad affrontare tutte le complesse problematiche dei movimenti transfrontalieri delle persone11. Eppure l’Unione europea e i governi dei suoi Stati membri non la pensano così. A questa convenzione, infatti, si ispira anche il sistema comune europeo in materia di asilo, pur introducendo alcune modifiche. Infatti, non essendo sempre facile riscontrare le condizioni di persecuzione individuale previste dalla convenzione di Ginevra, va riconosciuto che il sistema europeo ha previsto anche altre condizioni meritevoli del riconoscimento di protezione internazionale. Così, a termini già dell’art. 2, lett. e) della direttiva 2004/83/CE poteva godere dello status di protezione sussidiaria il «cittadino di un paese terzo o apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dall’articolo 15, e al quale non si applica l’articolo 17, paragrafi 1 e 2, e il quale non può, o a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto paese» (previsione ripresa poi nell’art. 2, co. 1, lett. . del d.lgs. 19.11.2007, n. 251 con il quale la direttiva è stata recepita nell’ordinamento italiano)12.
Non si comprende però la specificità del problema migratorio verso l’Europa, e dell’atteggiamento complessivamente inadeguato adottato dalle istituzioni europee nonché da alcuni Stati membri, se non si considera che l’ottica nella quale gli Stati europei non direttamente interessati dai flussi ed anche le istituzioni europee vedono il problema è quella della salvaguardia delle proprie frontiere interne all’Unione (ossia quelle tra i singoli Stati membri). È noto che la liberalizzazione della circolazione delle persone attraverso le frontiere tra gli Stati europei si è faticosamente realizzata a mezzo dapprima di trattati internazionali, l’accordo di Schengen (1985) e la convenzione di attuazione dello stesso (1990), successivamente comunitarizzati con il Trattato di Amsterdam che conferiva alle istituzioni al titolo IV modificato del trattato (artt. 61-69) poteri idonei all’adozione di atti che permettessero la libera circolazione delle persone attraverso le frontiere interne.
La materia è oggi disciplinata dal titolo V del TFUE, ed in particolare dall’art. 77 e dagli atti adottati in applicazione del detto articolo.
Il sistema è retto da un Codice Schengen, approvato con il Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio 2006/562 del 15.3.2006, e dalle sue successive modificazioni; da un sistema comune dei visti (VIS) e da un sistema di scambio di informazioni (SIS) tra le autorità degli Stati membri.
Si tratta di un sistema articolato e complesso attraverso il quale gli Stati assicurano ai propri cittadini, in quanto cittadini europei ai sensi dell’art. 20 TFUE, la piena libertà di circolazione senza controlli alle frontiere interne.
Questo sistema presenta solamente due punti deboli nell’ottica degli Stati membri: il fatto che i controlli alle frontiere esterne sono riservati agli Stati i cui territori si trovano a confinare con gli Stati extra europei (o con il mare come nel caso dell’Italia) e che, in assenza di controlli alle frontiere interne, quanti siano riusciti ad entrare (legalmente o illegalmente) sul territorio di uno di questi Stati possono poi liberamente spostarsi da un Paese europeo all’altro13.
Proprio per cercare di limitare i flussi interni conseguenti ai flussi esterni (quella che nel gergo europeo viene chiamata la mobilità secondaria) si stipulò il 15 giugno a Dublino una convenzione che doveva appunto servire alla bisogna. In verità la Convenzione di Dublino aveva il più modesto obiettivo di stabilire criteri per la determinazione dello Stato europeo responsabile dell’esame delle richieste di protezione internazionale. E ciò al fine di evitare che due o più Stati decidessero in maniera difforme sulla richiesta che eventualmente fosse stata sottoposta a più di uno Stato. Il trattato entrò in vigore nel 1997 e stabiliva una serie di criteri in base ai quali fosse possibile identificare uno e uno soltanto tra gli Stati europei come competente ad esaminare la richiesta (artt. da 4 a 8). L’art. 4 prevedeva ad esempio l’esclusiva competenza dello Stato ove risiedesse legalmente un membro della famiglia del richiedente. Ma l’articolo più importante era l’art. 8 secondo il quale, non potendo funzionare altri criteri, esclusivamente competente sarebbe stato lo Stato nel quale era stata presentata la prima domanda di protezione internazionale.
Il trattato non funzionò in maniera ottimale (anche perché esso permetteva agli Stati una certa discrezionalità nella sua interpretazione) e così la Commissione prese l’iniziativa di predisporre una serie di atti europei che diedero vita al cd. sistema di Dublino o sistema comune europeo di asilo, formalmente avviato a Tampere nell’ottobre 1999 (Dublino II, essendo il trattato la versione Dublino I). I primi atti furono la direttiva 2001/55/CE sulla protezione temporanea in caso di flussi massivi di migranti; la direttiva 2003/09/CE sulle condizioni minime dell’accoglienza, poi sostituita dalla direttiva 2013/33/UE (nel quadro del pacchetto Dublino III, attualmente in vigore); la direttiva 2004/83/CE sulle condizioni per l’ attribuzione della protezione internazionale, poi sostituita dalla 2011/95/UE; la direttiva 2005/85/CE sugli standard minimi e sulle procedure per l’attribuzione della protezione internazionale, poi sostituita dalla direttiva 2013/32/UE; il regolamento (CE) 343/2003, il cosiddetto regolamento Dublino II che riprende i criteri di cui alla convenzione di Dublino, poi sostituito dal regolamento Dublino III, il 604/2013 entrato in vigore da gennaio 2014; e il regolamento 2725/2000 (Eurodac) che detta regole per la raccolta e la conservazione delle impronte digitali14.
Il sistema Dublino è andato incontro a importanti critiche. Innanzitutto per la sua sostanziale inefficacia nel realizzare una vera condivisione tra gli Stati europei (il cd. burden sharing). Esso ha poi prodotto importanti e diffuse violazioni dei diritti umani delle persone coinvolte, violazioni che sono state puntualmente riconosciute e condannate sia dalla Corte europea dei diritti umani, sia dalla Corte di giustizia dell’Unione europea.
La Corte europea si è in particolare soffermata sul sistema di Dublino per quel che riguarda i diritti delle persone coinvolte nella prassi dei trasferimenti tra i vari Paesi europei, come ad esempio nel caso M.S.S. c. Belgium & Greece (sentenza del 21.1.2011); o ancora nel caso Tarakhel c. Switzerland (sentenza del 4.11.2014) che riguardava il trasferimento in Italia di una coppia afgana e dei suoi sei figli; A.M.E. c. the Netherlands (sentenza del 13.1.2015), nella quale la Corte ha negato che un trasferimento verso l’Italia avrebbe comportato conseguenze contrarie all’art. 3 della Convenzione che vieta i trattamenti disumani e degradanti; similmente decidendo nel caso A.S. c. Switzerland (sentenza del 30.6.2015)15. Anche la Corte di giustizia dell’Unione europea, per parte sua, ha ravvisato numerose violazioni dei diritti umani connesse all’operare del sistema Dublino. Ad esempio, nel caso N.S. c. Secretary of State for the Home Department (sentenza del 21.12.2011), ha affermato che uno Stato membro non può trasferire un asilante verso un altro Stato membro quando sia ragionevolmente certo di sistematiche carenze nel sistema di protezione dei diritti umani in quello Stato. Nella decisione nel caso MA, BT, DA c. Secretary of State for the Home Department (sentenza del 6.6.2013) ha poi risolto dubbi scaturenti da alcune incertezze nel testo del regolamento Dublino II concernenti la determinazione dello status di un minore straniero non accompagnato. Ma la Corte di giustizia si è pronunciata anche, nella sentenza del 6.9.2017 nei casi riuniti C-643/15 e C-647/15 Slovacchia e Ungheria contro il Consiglio, stabilendo che i due Stati non potevano sottrarsi ai doveri di solidarietà scaturenti dalla decisione del Consiglio (UE) 2015/1601 del 22.9.201516. La Commissione ha proposto, già nel 2016, una riforma del sistema di Dublino volta ad assicurare un miglior funzionamento delle procedure di ricollocamento dei rifugiati, riforma che nel 2017 è stata oggetto di un importante presa di posizione del Parlamento europeo. Ma la discussione sembra non aver fatto progressi da quel momento17.
In un clima per varie ragioni difficile si è verificato l’incidente della nave Aquarius. In relazione ad esso l’Italia è stata accusata di aver negato l’ingresso nei propri porti alla nave Aquarius che trasportava un carico di migranti verso il porto sicuro più vicino, ossia un porto italiano.
Va chiarito preliminarmente che il dispositivo a tutela dei migranti e a prevenzione degli incidenti di navigazione in atto nel Mediterraneo è stato ed è tutt’ora estremamente composito e articolato quanto a provenienza delle imbarcazioni impiegate e varietà delle specifiche missioni Sono attive sia le agenzie europee di contrasto all’immigrazione illegale, quali FRONTEX e per la sua parte di competenze anche l’EUROPOL, come anche le imbarcazioni delle Operazioni europee TRITON ed EU Nav For Med. A queste si aggiunge la Guardia costiera italiana che esercita i poteri di coordinamento operativo delle attività a presidio della zona Search and Rescue italiana.
A questo importante dispositivo si sono aggiunte fin da subito navi private armate da organizzazioni internazionali non governative quali la spagnola Proactiva Open Arms, la francese Médécins sans frontières, o la tedesca SOS Méditerranée, per citare solo le più note. Queste navi private hanno utilmente collaborato alla difficile missione umanitaria del salvataggio in mare di migliaia di persone in pericolo di vita su imbarcazioni spesso fatiscenti, ma sono state anche sospettate di intralciare le attività “ufficiali” delle agenzie statali o europee, e financo di vera e propria connivenza con le organizzazioni criminali che organizzano questi viaggi. Il ruolo italiano in questa complessa vicenda è stato ovviamente assai importante e l’operazione EUNAVFORMED è stata sempre (fin dalla sua istituzione nel 2015) sotto il comando italiano assicurato dall’ammiraglio di divisione Enrico Credendino. Nel 2016 poi il mandato dell’operazione (nota anche come operazione Sophia dal nome di una bimba nata su una nave impegnata nell’operazione) è stato esteso anche all’addestramento del personale della Guardia costiera e della Marina libiche. Negli anni successivi poi, il mandato dell’operazione Sophia è stato ulteriormente arricchito da compiti ulteriori di contrasto e di intelligence sia nell’ambito della lotta alla tratta degli esseri umani sia contro le illecite esportazioni di armi e petrolio dalla Libia (in applicazione delle risoluzioni 2146 (2014) e 2362 (2017) del Consiglio di Sicurezza ONU18. L’operazione ha dunque rappresentato lo snodo centrale sia delle strategie europee di contrasto ai traffici illegali nel Mediterraneo sia delle iniziative di empowerment delle forze libiche in vista di un affidamento a loro della gran parte di queste attività19. L’impegno delle organizzazioni non governative è stato così visto come un intralcio allo svolgimento delle attività “ufficiali” quando non addirittura sospettato di connivenza con i trafficanti di esseri umani20. Così nel luglio del 2017, l’allora ministro italiano degli interni, Minniti, emanò un codice di condotta sulla partecipazione delle ONG alle attività di soccorso in mare, chiedendo alle organizzazioni di sottoscriverlo impegnandosi a rispettarne le disposizioni. Esso suscitò non pochi clamori, anche perché molte organizzazioni si rifiutarono di firmarlo. Esso constava di tredici punti, chiaramente volti a regolamentare le operazioni, a riportarle (ma molte ONG dichiararono di aver sempre operato in sintonia con la Guardia costiera italiana) sotto il controllo ufficiale italiano e a ribadire la priorità delle competenze libiche in materia. Si precisava altresì che: «La mancata sottoscrizione di questo Codice di Condotta o l’inosservanza degli impegni in esso previsti può comportare l’adozione di misure da parte delle Autorità italiane nei confronti delle relative navi, nel rispetto della vigente legislazione internazionale e nazionale, nell’interesse pubblico di salvare vite umane, garantendo nel contempo un’accoglienza condivisa e sostenibile dei flussi migratori. Il mancato rispetto degli impegni previsti dal presente Codice di Condotta sarà comunicato dalle Autorità italiane allo Stato di bandiera e allo Stato in cui è registrata l’ONG»21. In questo clima si arrivava nel mese di giugno 2018 al rifiuto di far attraccare ad un porto italiano la nave Aquarius. La misura della chiusura dei porti appariva infatti sproporzionata alla reale minaccia che la nave Aquarius poteva rappresentare e francamente contraria al diritto internazionale, come ricordato nello loro Lettera aperta del 12.6.2018 dai docenti italiani di diritto internazionale del mare, secondo la quale «Tale misura non è di per sé esclusa dal diritto del mare, ricadendo i porti nell’ambito dell’esclusiva sovranità dello Stato. La possibilità di attuarla dipende tuttavia dall’esistenza (o meno) di accordi bilaterali tra lo Stato del porto e quello di bandiera (e dal contenuto di tali accordi) nonché dalle specificità di ciascun singolo caso. Il rifiuto di accogliere in porto una nave potrebbe quindi configurare una violazione del dovere di salvaguardare la vita umana in mare qualora la nave in oggetto si trovi in difficoltà, se non addirittura una forma di respingimento di massa, anch’esso vietato dal diritto internazionale (nella specie, dalla Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali)»22. In verità, molteplici sono i profili della questione, e il governo italiano sembra non farsi scrupolo di aprire vari fronti polemici. I principali, a parte quello con le ONG, sembrano essere quelli con il governo maltese e con l’establishment della Unione europea. Il primo viene accusato di non rispettare gli obblighi che gli derivano dall’essere parte della Convenzione di Amburgo. Il secondo, talvolta includendo anche gli altri Stati membri, di voler lasciare solo all’Italia la complessa gestione della crisi migratoria nel Mediterraneo. Non sono poi mancate posizioni sostenute anche da chiara dottrina, secondo cui la complessa vicenda che abbiamo qui tentato di ricostruire schematicamente potrebbe anche determinare la responsabilità internazionale del Governo italiano per il supporto logistico e finanziario apprestato alle autorità libiche, certamente a loro volta responsabili di massive violazioni dei diritti umani sul loro territorio23.
La stretta del “decreto Salvini” interviene dunque, va riconosciuto, su una situazione già pregiudicata. Quanto abbiamo detto sugli effetti restrittivi del “decreto Salvini” deve infatti inquadrarsi all’interno di una situazione che stava già evolvendo nella direzione di una forte limitazione della politica di accoglienza. La procedura per il riconoscimento della protezione internazionale è sempre stata piuttosto complessa e svolgendosi in maniera da mettere a volte in pericolo i diritti delle persone coinvolte. Le domande di protezione internazionale vengono presentate ad una speciale Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale.
Le Commissioni sono presiedute da un funzionario della carriera prefettizia (con la qualifica di viceprefetto) e sono composte da un funzionario della Polizia di Stato, da un rappresentante degli enti locali e da un rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
La Commissione può concludere con un diniego o può accogliere secondo diversi gradi di protezione, come abbiamo visto: la protezione internazionale ai sensi della Convenzione del 1951 e il conseguente riconoscimento dello status di rifugiato; la protezione sussidiaria ed infine la protezione per gravi motivi umanitari.
Sia la condizione di rifugiato sia quella di beneficiario della protezione sussidiaria danno diritto ad ottenere un permesso di soggiorno, ossia un documento che autorizza lo straniero a soggiornare appunto sul territorio dello Stato che rilascia il permesso stesso.
Tale permesso ha la durata di cinque anni, ed è rinnovabile senza ulteriore verifica delle condizioni, nel caso del rifugiato. Anche il permesso di chi gode della protezione sussidiaria è rinnovabile, però previa verifica della sussistenza delle condizioni che consentirono la concessione della protezione stessa. La legislazione italiana prevede poi che uno speciale permesso di soggiorno della durata di due anni può essere concesso per gravi motivi umanitari.
Anche questo permesso di soggiorno è rinnovabile, previa però verifica della sussistenza delle condizioni che determinarono la concessione del permesso stesso.
Questa complessa procedura era stata oggetto di modifiche in Italia nella passata legislatura con interventi che avevano già suscitato non poche perplessità.
La l. 13.4.2017, n. 46, recante Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale (di conversione del d.l. 17.2.2017, n. 13), contiene norme che non sono esenti da critiche proprio in relazione alla loro compatibilità con la tutela dei diritti umani24.
La novella del 2017 non intende incidere sulla normativa sostanziale come risultante dai d.lgs. 7.4.2003, n. 85, n. 251/2007 e del 18.8.2015, n. 142 adottati in attuazione delle direttive europee 2001/55/CE (relativa alla Concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati ed alla cooperazione in ambito comunitario); 2004/83/CE (contenente Norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta); 2013/33/UE, “Accoglienza” (recante Norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale); 2013/32/UE, “Procedure” (che dispone per le Procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale).
Essa detta invece norme per l’accelerazione degli iter procedurali. Ed in particolare, ove la Commissione territoriale per l’esame delle domande di riconoscimento della protezione internazionale dovesse rigettare la richiesta, l’impugnativa della decisione di rigetto potrà avvenire solo davanti alle sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea che la stessa legge istituisce presso i Tribunali ordinari del luogo nelle quali hanno sede le Corti d’Appello.
Data l’elevata complessità delle questioni giuridiche che si pongono in materia, l’istituzione delle sezioni specializzate può senz’altro approvarsi.
Non si può invece condividere l’altro elemento caratterizzante la riforma e cioè l’eliminazione del doppio grado di giudizio nei procedimenti in materia di riconoscimento della protezione internazionale.
Fino a prima dell’emanazione di questa legge, infatti, chi si vedeva negato il riconoscimento della protezione internazionale poteva presentare ricorso contro la decisione di diniego davanti alla magistratura. Si apriva così una fase giudiziaria caratterizzata dalle garanzie apprestate dalla possibilità di ricorrere in appello contro la decisione del giudice di prima istanza che avesse confermato il diniego.
La legge 47 prevede invece che si possa ricorrere solo davanti a un giudice, privando il ricorrente della garanzia dell’appello.
Questa soluzione, che indubbiamente accelera le procedure, priva però i richiedenti asilo di una fondamentale garanzia processuale e, in ultima analisi, nega loro la tutela di un diritto.
Problemi diversi si pongono praticamente da sempre poi per l’accoglienza dei migranti. Il già citato decreto n. 142/2015 prevede tre livelli di accoglienza. Appena arrivati sul territorio nazionale, i migranti vengono accolti in Centri di primo soccorso e accoglienza per l’espletamento delle prime pratiche e l’eventuale richiesta della protezione internazionale. Vengono poi avviati a un secondo livello, detto della prima accoglienza, costituito dai Centri di accoglienza (CDA) o dai Centri di accoglienza per i richiedenti asilo (CARA). Il terzo livello è rappresentato dalla seconda accoglienza, assicurata dallo SPRAR, ovvero il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, costituito a cura degli enti locali che lo richiedono e nel quale l’accoglienza mira a promuovere una vera e propria integrazione. Orbene, anche questo sistema di accoglienza presenta non pochi problemi. Per cominciare, i livelli di preparazione e formazione del personale addetto non sono sempre adeguati, anche perché spesso si è costretti a fare ricorso all’ospitalità presso centri organizzati dal cosiddetto privato sociale, ossia organizzazioni di volontariato che si candidano a svolgere funzioni di prima e talvolta anche seconda accoglienza.
Inoltre va rilevato che l’ottica che muove e ispira in Italia il sistema dell’accoglienza è sempre quella securitaria: si tende cioè non tanto a garantire l’accoglienza, quanto piuttosto a contenere e controllare il migrante, in quella che a volte può configurarsi come una condizione di vera e propria detenzione. In terzo luogo va ancora evidenziato che il sistema dell’accoglienza tende a funzionare meglio in quelle realtà caratterizzate da una generale efficienza del sistema di welfare, mentre situazioni di inefficienza del sistema tendono a riverberarsi sull’accoglienza ai migranti. Da ultimo va detto che la logica complessiva del sistema rimane quella dell’emergenza, funzionale anche a una visione politica e culturale che mira a rappresentare il fenomeno migratorio attuale non come un dato collegato a mutamenti strutturali degli assetti geopolitici, ma appunto come un’emergenza che va … fronteggiata, combattuta e alla fine superata.
1 Può vedersi in argomento la guida pratica Soccorso in Mare pubblicata a cura dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e dall’Organizzazione Marittima Internazionale che si legge all’indirizzo www.unhcr.it.
2 Vedi l’accurata ricostruzione del fatto e un condivisibile commento in De Vittor, F., Soccorso in mare e favoreggiamento dell’immigrazione irregolare: sequestro e dissequestro della nave Open Arms, in Diritti Umani e Diritto Internazionale, 2018, 443 ss.
3 La vicenda è accuratamente ricostruita sulle pagine del quotidiano la Repubblica nelle edizioni di quei giorni.
4 Anche per questi fatti può rinviarsi alle cronache del quotidiano la Repubblica ed anche a Vassallo Paleologo, F., Un mare di abusi, il consenso contro le leggi, prima la salvaguardia della persona, in Progetto Melting Pot Europa, in www.meltingpot.org.
5 Il decreto si legge sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 4.10.2018, n. 231.
6 Vedi, per queste tesi, Bonetti, P., Il diritto di asilo nella Costituzione italiana, in Favilli, C., a cura di, Procedure e Garanzie del diritto di asilo, Padova, 2011, 55 ss. e, più recentemente, Acierno, M., La protezione umanitaria nel sistema dei diritti umani, in Questione giust., 2/2018, 99 ss.
7 A parte la problematica della compatibilità delle restrizioni in materia di protezione, dubbi di costituzionalità sono stati avanzati anche in relazione al fatto che il decreto difetterebbe di quella omogeneità di materia trattata che dovrebbe caratterizzare la decretazione. Può vedersi al riguardo il parere pro veritate del professor Alessandro Pace pubblicato sul sito dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) che si legge all’indirizzo www.asgi.it.
8 Un’accurata analisi della problematica in Panebianco, S., a cura di, Sulle onde del Mediterraneo. Cambiamenti globali e risposte alle crisi migratorie, Milano, 2016.
9 I flussi migratori dall’Africa e dal Medio Oriente si sono indubbiamente intensificati negli ultimi anni, ma sono cominciati già negli anni novanta, cogliendo gli Stati europei del tutto impreparati. Su questi primi sviluppi della problematica in esame, sia consentito rinviare ai miei scritti Report on “Europe of 1992 and Migration Policies” to the Parliamentary Assembly of the Council of Europe, Doc. 6412, 12.4.1991; Il difficile cammino verso una politica comunitaria dell’immigrazione, in Agg. soc., 1999, 773 ss.; La politica comunitaria dell’immigrazione, in Macioce, F., a cura di, Immigrazione. Fra accoglienza e rifiuto, Cinisello Balsamo, 2005, 30 ss.
10 Per il testo della Convenzione di Ginevra si veda www.unhcr.org.
11 Sharma, B., Revisiting the United Nations’ 1951 Convention Relating to the Status of Refugees: A Critical Analysis of the International Refugee Law, in Social Development Issues, 2015, 80 ss.
12 Vedi sulla protezione sussidiaria Albano, S., La protezione sussidiaria tra minaccia individuale e pericolo generalizzato, in Questione giust., 2/2018, 71 ss.
13 Sia consentito rinviare qui al mio commento all’art. 77 TFUE, in AA.VV., Smit and Herzog on the Law of the European Union, Matthew Bender, ad vocem.
14 Sia consentito rinviare qui al mio commento all’articolo 78 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea in AA.VV., Smit and Herzog on the Law of the European Union, Matthew Bender, ad vocem.
15 La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è liberamente consultabile al sito della banca dati HUDOC https://hudoc.echr.coe.int.
16 La giurisprudenza della Corte di giustizia UE si legge sul sito della Corte stessa al seguente indirizzo https://curia.europa.eu.
17 Si veda Da Strasburgo via libera alla riforma di Dublino: l’accoglienza non solo nel primo Paese d’arrivo, in EU-News. L’Europa in Italiano www.eunews.it ed anche www.europarl.europa.eu.
18 Il sito dell’operazione è www.operationsophia.eu.
19 Butler, G.Ratcovich, M., Operation Sophia in Uncharted Waters: European and International Law Challenges for the EU Naval Mission in the Mediterranean Sea, in Nordic Journal of International Law, 2016, 235 ss.; Licastro, G., L’Operazione Sophia e la formazione della guardia costiera e della marina libica: profili che suscitano perplessità da allontanare, in Diritti dell’Uomo. Cronache e battaglie, 2016, 371 ss.; Annoni, A., Il ruolo delle operazioni Triton e Sophia nella repressione della tratta di esseri umani e del traffico di migranti nel Mediterraneo centrale, in Il Diritto dell’Unione Europea, 2017, 829 ss.; D’Argent, P.Kuritzky, M., Refoulement by Proxy? The Mediterranean Migrant Crisis and the Training of Libyan Coast Guards by EUNAVFORMED Operation Sophia, in Is. YBHR, 2017, 233 ss.
20 Smith, A., Uncertainty, Alert and Distress: the precarious Position of NGO Search and Rescue Operations in Central Mediterranean, in Paix et Sécurité Internationales, 2017, 5, 29 ss.
21 Il testo del Codice di Condotta si legge sul sito www.interno.gov.it. Vedi a commento Mussi, F., Sulla controversa natura giuridica del codice di condotta del Governo italiano relativo alle operazioni di salvataggio dei migranti in mare svolte da organizzazioni non governative, in Osservatorio sulle fonti, 3/2017, che si legge all’hurl www.osservatoriosullefonti.it e poi ancora Ferri, F., Il Codice di condotta per le ONG e i diritti dei migranti fra diritto internazionale e politiche europee, in Diritti Umani e Diritto Internazionale, 2018, 189 ss.
22 La lettera aperta si legge sul sito del Gruppo di interesse sul diritto del mare della Società Italiana di Diritto Internazionale e di Diritto dell’Unione Europea https://sidigimare.wordpress.com.
23 Vedi per tutti De Vittor, F., Responsabilità degli Stati e dell’Unione europea nella conclusione e nell’esecuzione di “accordi” per il controllo extraterritoriale della migrazione, in Diritti Umani e Diritto Internazionale, 2018, 23 ss.
24 Vedi per tutti Agosta, S., La disciplina in tema di protezione internazionale e contrasto all’immigrazione illegale. Osservazioni a prima lettura, in Federalismi, 22/2017, www.federalismi.it.