Migrazioni
di Bruno Paradisi e Otto von Frisch
MIGRAZIONI
Migrazioni umane
di Bruno Paradisi
sommario: 1. Considerazioni generali. 2. Gli effetti delle migrazioni. 3. Le migrazioni forzate. 4. Limitazioni e programmi relativi all'emigrazione oltremare. 5. Le migrazioni intraeuropee. 6. Le migrazioni interne. □ Bibliografia.
1. Considerazioni generali
Le migrazioni umane sono un fenomeno attestato fin dalle epoche più antiche. Legate in primo luogo a bisogni elementari e primari dell'esistenza, si può supporre che esse si siano sempre verificate e abbiano avuto luogo anche nelle età più remote delle quali non si conserva alcuna testimonianza. Tale fenomeno può essere considerato sotto un triplice aspetto: quello della mobilità umana considerata in sé e nel suo complesso; quello della mobilità osservata sotto l'angolo visuale del paese di provenienza (emigrazione); quello, infine, di tale mobilità esaminata in riferimento al paese ospitante. Se è vero che questi due ultimi costituiscono a prima vista aspetti parziali del fenomeno generale della migrazione, occorre anche riconoscere che non per questo la migrazione può riassumere i problemi propri dell'emigrazione e dell'immigrazione. In realtà, ciascuno di quei tre modi di essere della mobilità umana ha una problematica propria, mentre riassume necessariamente in sé gli altri due. Tuttavia la migrazione in sé e per sé considerata si presenta come un fenomeno comune a tutte le epoche storiche e conserva, per questa ragione, non soltanto una certa genericità e generalità problematica, ma anche un significato connesso alle scienze biologiche che sembra attenuarne la specificità quando sia riferito a un'epoca storica determinata e in particolare alla nostra. I termini ‛emigrazione' e ‛immigrazione' non esprimono invece soltanto una determinazione del movimento della migrazione, ma comprendono necessariamente i problemi specifici relativi a quel duplice suo comportamento, riferiti all'epoca moderna e contemporanea.
Le questioni connesse con lo spostamento di masse umane o di individui in cerca di migliori condizioni di vita sono di una complessità che si è andata rivelando soltanto gradualmente dinanzi agli occhi della scienza moderna. Le nostre conoscenze sono in questo caso condizionate dai rilevamenti statistici, ma richiedono una valutazione economica, sociale e politica che a sua volta, e soltanto di recente, ha sollevato la necessità della determinazione della dimensione storica per un apprezzamento soddisfacente di quanto è accaduto e sta accadendo nel nostro mondo in relazione ai movimenti migratori. L'interesse sempre maggiore dimostrato dalla scienza storica nei confronti di questo argomento è uno dei risultati dell'influsso esercitato dall'economia e dalla statistica sulla scienza storica contemporanea e anche del maggiore interesse che la scienza economica è andata mostrando per la storia. Questo incontro tra discipline un tempo divise è destinato a rivelare, anche per quanto concerne i fenomeni migratori, vasti campi d'indagine finora ignorati o trascurati. In primo luogo, l'uomo con la sua volontà, con i moti dell'animo, con la sua capacità, va riconquistando nella considerazione scientifica delle migrazioni e perciò in quella, immediatamente pratica, dell'economia e del diritto, il ruolo che gli compete. Egli non è più soltanto l'elemento di una serie numerica, un'espressione statistica giustificata dalla vastità dell'oggetto e dalla necessità di una sua analisi, ma un essere vivente, che, di fronte alle leggi dell'economia e agli schemi della sociologia, afferma i diritti connessi alla sua autonomia individuale e alla sua libertà.
Sotto questo profilo si devono anche considerare i motivi che spingono l'uomo a mutare la sua sede originaria. La considerazione generale che, almeno in astratto, l'economia mondiale è un'unità turbata soltanto dalle divisioni politiche o ideologiche e che, per conseguenza, il benessere del mondo è strettamente legato a un'equilibrata distribuzione della mano d'opera e dei capitali, in modo tale che la prima possa trovare la migliore collocazione possibile e i secondi il massimo rendimento, è sottoposta in concreto alla verifica della realtà storica. Questa realtà non è composta soltanto di elementi fenomenici e non è valutabile solo con la legge dei grandi numeri, ma soggiace anche ai sentimenti dei quali l'uomo si nutre, se è vero che non si vive di solo pane. Perciò la valutazione delle cause reali delle migrazioni può subire qualche modifica e qualche ulteriore specificazione, anche quando ci si limiti a contrapporre alle migrazioni forzate, perché determinate dalla violenza, le migrazioni ‛libere', cioè quelle dovute a una scelta non determinata da invasioni e persecuzioni. D'altra parte, che la libertà non sia soltanto quella che il diritto sancisce, è una verità che si è sempre meno disposti a contestare; e v'è senza dubbio una differenza profonda tra chi consideri l'opportunità di emigrare sul metro della pura convenienza, valutando la propria scelta sulla base di un'utilità marginale che non è rapportabile ai minimi di sopravvivenza, e chi è costretto da necessità primarie (coactus tamen voluit) ad abbandonare il proprio paese d'origine.
La misura di questa costrizione deve essere valutata socialmente col metro dell'alea che ciascun emigrante assume con la sua decisione. Il rischio non dipende soltanto dalle capacità individuali, ma dalle condizioni economiche e politiche del paese d'immigrazione e dalla disciplina giuridica che tutela i diritti degli immigrati. Esamineremo in seguito anche questi aspetti.
È affermazione ovvia che le migrazioni, pur mutando il loro carattere e le loro motivazioni nelle varie epoche, non sono cessate nell'età moderna, nonostante i cambiamenti intervenuti nella vita economica e l'enorme accrescimento della ricchezza. Al contrario, esse assunsero fin dagli inizi dell'età moderna un'importanza e una grandiosità per nulla inferiori a quelle avvenute in età primitive, o presso le popolazioni germaniche, celtiche e asiatiche in piena epoca storica, o nel periodo della crisi dell'Impero romano, in Occidente e in Oriente. Alla fine del sec. XV, la scoperta del continente americano inaugurò un'era nuova per la storia dell'Europa. Dapprima la Spagna e il Portogallo, poi la Francia, l'Inghilterra e l'Olanda videro nel Nuovo Mondo ricchezze senza fine; non solo per i metalli preziosi che dovevano restaurare le finanze dello Stato, ma anche per le immense terre non sfruttate e per le inesauribili forze di lavoro. Soltanto l'emigrazione inglese, dapprima nella Virginia, poi nella Nuova Inghilterra, verso la fine del sec. XVII, nel Maryland e nella Pennsylvania, ebbe un carattere diverso. Ciò che i coloni inglesi cercavano nelle nuove terre era, in primo luogo, la libertà religiosa che non avevano nel loro paese. Questa emigrazione, che anteponeva la libertà alla convenienza economica, rappresentò la conferma dell'esigenza dell'uomo di disporre di se stesso per affermare e difendere i beni del suo spirito.
Tuttavia, non soltanto il Nuovo Mondo fu terra d'emigrazione. Per quanto l'immigrazione europea e sudamericana negli Stati Uniti e quella europea nell'America Centrale e Meridionale siano state l'oggetto esclusivo dell'analisi scientifica statunitense e abbiano avuto una netta prevalenza nella letteratura meno recente, negli ultimi decenni l'indagine si è allargata alle migrazioni europee verso altri continenti e a quelle, sempre più importanti, avvenute all'interno dell'Europa stessa. Per quanto riguarda il continente africano, si ricorderà che l'immigrazione europea cominciò con i Portoghesi, sostituiti poi, a partire dal 1652, dagli Olandesi nella regione del Capo di Buona Speranza. L'unione di questi allevatori e agricoltori con un certo numero di ugonotti francesi diede luogo alla formazione della popolazione boera, poi travolta nel sec. XIX dal corpo di spedizione inglese inviato nella colonia del Capo, nel Transvaal, nel Natal e nella Rhodesia, seguito da numerosi coloni e avventurieri, questi ultimi affascinati dall'oro e dai diamanti di quelle regioni.
Furono ancora gli Inglesi che, tra la fine del sec. XVIII e i primi del XIX, occuparono le terre vergini dell'Australia, della Tasmania e della Nuova Zelanda. Con queste colonizzazioni il carattere delle terre vergini del globo andava mutando sempre più rapidamente quanto più ci si avvicinava all'epoca nostra. Ai grandi gruppi di colonizzatori armati, che procedevano alla sistematica distruzione o schiavizzazione degli indigeni, si andò sostituendo un'immigrazione sempre più dominata dalle possibilità della grande industria che si era andata formando nel frattempo.
Preliminarmente, e limitandoci per ora a una classificazione tipologica delle migrazioni, si può dunque affermare che esse possono essere formate da popoli interi o da gruppi più o meno estesi, e che possono essere provocate da guerre, da bisogni elementari e primari, o da esigenze religiose e spirituali; i loro soggetti possono essere emarginati in cerca di condizioni accettabili di vita, oppure operai specializzati, individui provenienti da regioni povere che aspirano a stabilirsi in regioni più ricche, o anche, semplicemente, dove le condizioni di lavoro siano vantaggiose. Le migrazioni possono essere spontanee o forzate; compiute per iniziativa privata o parzialmente organizzate; senza controllo dei poteri pubblici, o organizzate e controllate da questi; infine, possono essere istituzionalizzate, cioè sottoposte alla sorveglianza dello Stato.
Le migrazioni nel mondo contemporaneo, se avvengono spontaneamente, non sono più di popoli guerrieri, che si trasferiscono da un territorio all'altro per sfruttare terre vergini essendo incapaci di condurre un'agricoltura intensiva, oppure per sfruttare terre già coltivate da agricoltori più abili e accorti. Inoltre esse hanno assunto nel periodo più recente una fisionomia diversa da quella che poteva ancora apparire caratteristica a qualche scrittore nei primi trent'anni del nostro secolo, cioè non sono più migrazioni di individui isolati o di gruppi familiari alla ricerca di una sorte migliore. Intanto va notato che sono sempre più frequenti le migrazioni che non sono né familiari, né puramente individuali, ma sono compiute da gruppi di lavoro. Ma il fenomeno più imponente delle migrazioni contemporanee è quello massivo, come è accaduto per i grandi gruppi che si sono trasferiti in Israele, nei quali si sono combinate la libera scelta suggerita dal sionismo con la necessità determinata dalle persecuzioni razziali; o come è avvenuto per le popolazioni costrette a lasciare le loro sedi in seguito agli eventi della seconda guerra mondiale come conseguenza del mutamento di regime politico (come in Egitto e in altri paesi dell'Africa settentrionale); oppure come è avvenuto nel caso di trasferimenti imposti dallo Stato (si pensi ai trasferimenti forzati in Siberia). Cosicché nel riaffacciarsi di un fatto migratorio coinvolgente grandi masse di popolazione, o comunque un grande numero di persone, che sembrava scomparso per sempre nell'età contemporanea, ciò che più tragicamente colpisce è proprio la frequente mancanza di libertà, o almeno di spontaneità nei motivi per i quali viene attuato il trasferimento. Per questa ragione, i caratteri generali, talvolta tra loro contrastanti e opposti, che hanno impresso la loro fisionomia alle migrazioni di epoche lontanissime e meno lontane dell'Europa e anzi di tutto il globo, si ritrovano quasi tutti nel sec. XX, quando sembrava impossibile che potessero ancora attuarsi arcaiche forme di violenza e che ricomparissero avvenimenti apocalittici che la scienza storica meno recente aveva considerato propri di età remote.
Abbiamo così fissato la nostra attenzione sulle migrazioni massive, nel tentativo di stabilire i tipi che corrispondono ai movimenti migratori che si verificano nel nostro secolo. E abbiamo constatato che di esse fanno parte anche le ‛deportazioni'. Che anche questo delle deportazioni sia un fenomeno che debba essere studiato nel quadro generale della mobilità delle popolazioni è dunque accertato, perché gli spostamenti demici, siano essi dovuti a determinazione spontanea o siano invece forzati, devono pur essere considerati sotto l'unico aspetto delle conseguenze che comportano nella società e nell'economia di determinati paesi. Se la Commissione internazionale di storia dei movimenti sociali e delle strutture sociali ha seguito criteri direttivi da ciò difformi in occasione del XIV Congresso Internazionale di Scienze Storiche di San Francisco (22-29 agosto 1975), ciò è accaduto per la difficoltà di comprendere nei suoi lavori anche questo argomento e non per la sua non pertinenza al problema generale.
Detto questo, occorre però aggiungere che i caratteri generali delle migrazioni, sui quali abbiamo ritenuto utile richiamare l'attenzione, sono delle astrazioni che, per acquistare il loro pieno significato, devono essere valutate di volta in volta, nel loro concreto modo di essere. Inoltre, se si vuole giudicare dell'importanza economica, sociale e politica delle migrazioni nel XX secolo, occorre anche valutare il peso che ciascuna delle sue forme ha avuto e ha nella civiltà contemporanea. Se alcune di quelle forme debbono essere giudicate negativamente, altre invece, che rispondono al principio del libero movimento delle persone e al rispetto e anzi alla protezione dei loro interessi, inducono a un maggiore ottimismo e al riconoscimento della funzione, che la maggior parte degli scrittori ritengono fondamentale, che le migrazioni ancora oggi rivestono per la prosperità di vaste plaghe della terra.
Sotto questo aspetto le migrazioni libere hanno segnato un enorme progresso nei confronti di quelle che avvenivano in altri tempi. Intanto, per le condizioni determinate dallo sviluppo dell'economia e della civiltà contemporanea nel suo complesso, le migrazioni non avvengono più sotto il segno di un alto rischio e di un'avventura aperta a ogni risultato. Nella stragrande maggioranza dei casi i movimenti migratori sono provocati dalla differenza di livello economico tra i paesi d'origine degli emigranti e quelli della loro destinazione. Gli emigranti trovano nelle regioni che li ricevono delle condizioni di vita civile, anche se sussistono in tali condizioni differenze enormi a seconda dei paesi ospitanti e anche del mestiere che l'immigrato deve esercitare. Tuttavia, anche coloro che si recano per lavoro in regioni dell'America Meridionale o del Vicino Oriente nelle quali, a parte ogni altro fattore negativo, le condizioni climatiche possono rappresentare da sole un elemento di difficoltà, godono della protezione della legislazione del paese ospite e di quello d'origine, per quanto essa possa ancora essere giudicata insufficiente e manchevole in molti casi, e fanno parte, in qualità di dipendenti, di aziende che ne garantiscono il salario e il tenore di vita.
Tutte queste considerazioni non esauriscono però l'esame generale del fenomeno migratorio, anche se qui non è dato di svolgere in tutti i suoi aspetti un tema tanto complesso e di fronte al quale la scienza contemporanea ha la chiara consapevolezza delle lacune che ancora rendono impossibile una sua trattazione veramente esauriente. Intanto va aggiunto che, sulla traccia delle condizioni economiche, che sono il fondamento ultimo dell'atteggiamento di volta in volta tenuto dai paesi ospitanti, bisogna notare l'esistenza di diverse alternative. C'è l'atteggiamento dei paesi la cui preoccupazione primaria è stata, nel corso del tempo, quella della propria scarsità di popolazione, come è il caso dell'Australia e del Brasile; e c'è l'atteggiamento dei paesi sviluppati, nei quali s'è andata determinando, attraverso considerazioni diverse che vanno dal calcolo economico ai pregiudizi razziali, una tendenza alla richiesta di mano d'opera qualificata. È naturale, d'altronde, che, a parte la valutazione dei motivi addotti di volta in volta e della loro ammissibilità, i paesi altamente sviluppati, come il Nordamerica e l'Europa centrale e settentrionale, abbiano sviluppato una politica più guardinga nei confronti dell'immigrazione che non i paesi costretti ad aumentare mediante l'immigrazione la propria consistenza demografica. È anche evidente che le condizioni economiche proprie degli uni e degli altri hanno inciso in modo determinante sulla qualità della mano d'opera immigrata, causando nei paesi più evoluti un mutamento del genere di attività, e perciò la trasformazione di mano d'opera agricola in mano d'opera destinata all'industria, e in quelli meno evoluti invece il mantenimento dell'attività agricola d'origine. Questa differenza nel tipo di attività, d'altronde, non ha costituito un elemento immutabile, per cui è necessario considerare i mutamenti intervenuti nel tempo a determinare la richiesta da parte del paese ospite. Gli stessi Stati Uniti non hanno sempre dimostrato la netta preferenza attuale nei confronti della mano d'opera industriale, se è vero che nel secolo scorso, e specialmente nella sua prima metà, nel movimento migratorio verso quel paese la mano d'opera destinata all'agricoltura ebbe un'importanza prevalente. Spostamento dell'ago della bilancia dall'agricoltura verso l'industria significa, inoltre, prevalenza dell'attrazione esercitata dai grandi centri urbani sugli elementi immigrati. A questa questione, relativa alla natura della mano d'opera all'origine e al mantenimento del suo carattere, ovvero alla sua trasformazione nei paesi d'accoglimento, si aggiungono quella delle fluttuazioni cronologiche delle emigrazioni e quella dei loro aspetti locali.
La dottrina contemporanea intorno alle migrazioni si è affaticata a operare distinzioni sulle loro cause e modalità e ha cercato di distinguere col maggior rigore possibile ciò che può essere definito con i termini temigrazione' e ‛immigrazione'. Abbiamo già visto che in questo genere di fenomeni devono essere compresi anche i movimenti forzati delle popolazioni. Ma la ricerca di altri criteri obiettivi per una definizione della mobilità umana si è imposta alla teoria proprio di fronte alla grande varietà con la quale essa di volta in volta si attua. Così s'è sentito anche il bisogno di elencare tutte le cause possibili, accanto alle quali hanno assunto una sempre maggiore importanza i motivi psicologici. Senza voler negare l'importanza di tali distinzioni e classificazioni, e senza voler contestare la necessità di una definizione del fenomeno che delimiti il campo della ricerca a esso dedicata, bisogna però dire che la realtà multiforme e la sua incessante dinamica rappresentano l'oggetto essenziale di qualunque indagine intorno al fenomeno migratorio, realtà che non può essere sostituita da alcuna tipologia. Così, secondo Qualey, le più generali cause delle migrazioni si possono individuare nei ‛fattori d'espulsione' (push factors) e in quelli ‛d'attrazione' (pull factors). Tra i primi si possono enumerare: 1) la povertà del villaggio contadino; 2) i cambiamenti provocati dall'industrializzazione; 3) le condizioni di lavoro nei nuovi centri industriali; 4) l'esistenza di classi privilegiate e il contrasto tra la posizione politica di queste e quella delle masse; 5) le rivolte pietiste contro le chiese tradizionali e la comparsa di nuove sette; 6) le persecuzioni religiose; 7) il servizio militare obbligatorio; 8) la pubblicità fatta dagli agenti di compagnie ferroviarie e di navigazione; 9) l'effetto prodotto dalle lettere degli emigrati alle loro famiglie; 10) l'influsso esercitato dagli emigrati tornati in patria; 11) le pubblicazioni e le guide destinate ai futuri emigranti; 12) l'istinto di aggregazione, che spinge a unirsi con i gruppi che partono. Tra i secondi sono compresi: 1) la fame di terre e la conoscenza di terre ricche e a buon mercato nell'Ovest degli Stati Uniti; 2) il costante bisogno di mano d'opera di quel paese; 3) l'attrazione di un sistema politico liberale; 4) l'egualitarismo degli Americani; 5) l'utopia religiosa e sociale; 6) la febbre dell'oro, specialmente nel caso della California; 7) la pubblicità fatta da organismi ufficiali, quali gli uffici d'immigrazione degli Stati Uniti; 8) la parte avuta dalle ferrovie nel popolamento e nello sfruttamento delle terre; 9) l'invio di risparmi alle famiglie rimaste nel paese d'origine; 10) la costituzione e lo sviluppo delle comunità nazionali negli Stati Uniti.
Si può osservare, a proposito di questa classificazione, che la parte esercitata per lungo tempo dagli Stati Uniti come paese d'attrazione ha avuto un ruolo essenziale. Inoltre, la considerazione dei fattori psicologici da parte di quegli scrittori che hanno ritenuto giustamente di attribuire a essi il loro reale peso, ha assunto il carattere di un elemento distinto, da aggiungersi a quelle cause ma non da considerare come elemento integrante di esse. È questo il caso della ‛febbre' migratoria che s'impossessò dell'Europa fin dall'inizio del sec. XIX, dopo che le prime esperienze vissute dai pionieri dettero la sensazione che immense ricchezze fossero a disposizione del primo occupante nelle terre del Nuovo Mondo, in Africa e in Oceania. Se la considerazione di questo fattore psicologico ha senza dubbio le sue giustificazioni e se è vero che le ragioni economiche non sono sempre sufficienti a spiegare l'impulso a emigrare, poiché esso risente anche del risveglio intellettuale verificatosi su più larga scala al principio del secolo scorso, è anche vero che i moventi psicologici sono onnipresenti nelle cause che spingono all'emigrazione e perciò possono essere tenuti separati da quelle soltanto in virtù d'un artificio. Le condizioni economiche del paese d'origine e le possibilità offerte dal paese ospite rimangono però gli elementi di base se si vuole fare un'analisi dei movimenti migratori. A esse vanno sommati gli effetti dei mutamenti sociali e l'evoluzione delle condizioni culturali, che al desiderio di conquistare condizioni di vita meno precarie aggiungono l'ambizione di una diversa collocazione nella società ospitante.
A questo complesso intreccio di motivi si deve ricollegare anche la questione relativa al carattere temporaneo o permanente dell'emigrazione. Senonché la stessa emigrazione temporanea, che è talvolta difficile distinguere da movimenti non propriamente migratori, presenta aspetti particolari, come quello delle cosiddette ‛migrazioni delle rondini', cioè degli spostamenti di forze di lavoro collegati a determinate colture e quindi a determinate stagioni. Esistono in questo caso, come in quello più generale delle migrazioni temporanee, particolari motivazioni psicologiche, oltre che economiche, che possono riassumersi nell'attaccamento alla propria terra d'origine.
Il carattere temporaneo delle migrazioni riveste una grande importanza. La sua osservazione riconduce a una più esatta proporzione il grandioso movimento migratorio europeo verso gli Stati Uniti nel secolo che precede le restrizioni americane e, soprattutto, dà modo di valutare con maggiore esattezza l'efficacia del movimento d'emigrazione sull'europeizzazione del continente americano e, viceversa, l'influsso esercitato dal Nuovo Mondo sulla vita e sul pensiero dell'Europa. Per quanto le nostre conoscenze di questa complessa fenomenologia siano ancora insoddisfacenti, per un paese come la Svezia - che, come gli altri paesi scandinavi, ha partecipato in misura altissima al movimento di emigrazione verso l'America - è un fatto accertato che l'impatto politico, sociale ed economico dell'emigrazione ne ha condizionato in modo determinante la vita.
La considerazione globale dell'immigrazione europea nel continente americano è però destinata a correggere la tesi della prevalenza degli Stati Uniti come paese di accoglimento, fondata sul rilievo preponderante dato all'immigrazione nella letteratura degli Stati Uniti. È stato giustamente osservato che nell'emisfero occidentale vi sono paesi nei quali l'immigrazione europea è stata più massiva che negli Stati Uniti, almeno dal punto di vista percentuale, in rapporto con la popolazione. Così l'Argentina viene al primo posto, con 5,4 milioni d'immigrati; segue il Brasile con 3,8 milioni e il Canada, con 4,5 milioni.
Tuttavia questi dati statistici devono essere valutati anche sotto l'aspetto della durata dell'immigrazione. Negli Stati Uniti, ma ancor più nei paesi dell'America Latina, l'immigrazione è transitoria, per quanto tale carattere presenti grande variabilità, legata sia al periodo, sia ai gruppi etnici immigrati. La quota di rimpatri, per quanto concerne gli Stati Uniti, è stata valutata a oltre il 30%, mentre per l'Argentina è del 53%; tale quota, relativamente ai gruppi etnici, sale all'86-89% per i popoli balcanici e scende all'11% per gli Irlandesi e al 5% per gli Ebrei. Per quanto riguarda l'Italia, una considerazione globale degli espatri e dei rimpatri relativi ai paesi europei ed extraeuropei per il periodo 1958-1975 fornisce dei dati estremamente interessanti. È possibile infatti constatare che la quota relativa ai rimpatri dai paesi europei è più alta di quella dei paesi extraeuropei e che i rimpatri, sia per gli uni che per gli altri, hanno assunto un ritmo tale da superare gli espatri. È evidente che la tendenza al ritorno è più accentuata quanto minore è la distanza dal paese d'origine e più agevole il rientro. Negli ultimi anni i ritorni sono stati più numerosi a causa della crisi economica in atto nei paesi europei ed extraeuropei.
La congiuntura economica complica la rilevazione dei dati statistici e la loro valutazione per quanto riguarda il fenomeno migratorio nella sua globalità e nelle sue varie specificazioni. Ma, indipendentemente da cause che possono considerarsi contingenti, o comunque comparse negli ultimi anni, una lenta trasformazione si era già manifestata nella direzione assunta dalle migrazioni europee. La visione teorica secondo la quale l'economia mondiale non può non trarre vantaggio da una distribuzione della mano d'opera che avvenga secondo una perfetta corrispondenza tra le condizioni dei paesi di provenienza e quelle dei paesi di accoglimento, ha in parte trovato la sua conferma nelle trasformazioni in atto; in parte invece tale prospettiva subisce i condizionamenti della congiuntura, condizionamenti che danno adito talvolta a discriminazioni tra la mano d'opera immigrata e quella indigena. Il bisogno primario della presenza delle forze di lavoro necessarie allo sfruttamento delle risorse del suolo e del sottosuolo, quale si era rivelato tra il secolo scorso e i primi due decenni del nostro, nei paesi d'oltremare, ricchi di terre vergini e ancora insufficientemente popolati, si è andato a poco a poco esaurendo. Le grandi distese dell'Australia, dell'Argentina, dell'America Settentrionale non offrono più quelle possibilità di sfruttamento che, ancora all'inizio del secolo, erano sembrate inesauribili. L'incremento dell'industrializzazione ha provocato non solo uno spostamento delle forze di lavoro, interne e immigrate, dall'agricoltura all'industria, ma ha fatto sentire i suoi effetti sull'emigrazione di provenienza europea. Si è così determinato uno spostamento sempre più accentuato di forze di lavoro verso la migrazione tra paesi europei, o addirittura tra regioni del medesimo paese, spostamento che ha bilanciato quello dell'emigrazione oltremare, un tempo prevalente. Hanno inciso su questo mutamento fattori diversi: sviluppo industriale, variazioni demografiche, motivi politici; cosicché il fenomeno migratorio verso i paesi extraeuropei, che per la sua imponenza e prevalenza si era presentato all'osservazione come un fenomeno quasi illimitato e irreversibile, si pone ora all'osservazione storica come un grande evento transitorio, che si era inserito nell'epoca della decadenza della vecchia società agricola dell'Europa, prima del consolidarsi nel continente europeo di una moderna società industriale.
In favore delle migrazioni intraeuropee hanno agito anche cause diverse e concomitanti, di carattere culturale, economico e psicologico, che si riassumono nel fenomeno della cosiddetta ‛emigrazione per contiguità'. La preferenza, così naturale, manifestata dalle forze di lavoro per il movimento tra paesi confinanti, è ampiamente dimostrata in Europa dai trasferimenti di unità lavorative dal Belgio in Francia e viceversa, dal Belgio in Germania e dall'Italia in Francia; ma lo è altrettanto nel continente americano, per l'emigrazione di Boliviani, di Paraguaiani e di Cileni in Argentina, di Portoricani e di altri latinoamericani negli Stati Uniti e tra Stati Uniti e Canada.
Per concludere, occorre accennare al tema generale dell'influsso esercitato dalle masse immigrate sul paese d'accoglimento e, viceversa, dalla cultura di questo sul paese d'origine. L'argomento ha dato luogo a pareri diversi e a discussioni, e può essere considerato solo molto limitatamente, perché le influenze reciproche che così hanno luogo risentono delle condizioni culturali, economiche, sociali e politiche dei rispettivi paesi e debbono perciò essere valutate caso per caso. Ai fini di questa introduzione sarà sufficiente aver notato che esse esistono e che in qualche caso sono d'importanza fondamentale; è il caso, come è stato già accennato, della Svezia, paese, come gli altri scandinavi, largamente esportatore di mano d'opera, le cui caratteristiche sono state determinate in modo decisivo dall'emigrazione (Sündberg). Non disponiamo ancora tuttavia di un'elaborazione scientifica sufficiente per valutare esattamente quale sia stato il peso dell'immigrazione europea su un paese come gli Stati Uniti, e viceversa il peso degli Stati Uniti sul continente europeo, se non per l'aspetto economico, per il quale c'è una larga convergenza di vedute. L'influsso della civiltà europea sui paesi dell'America Latina è invece valutabile più esattamente perché la composizione etnica dell'immigrazione è più semplice rispetto a quella degli Stati Uniti. Aspetti della cultura di paesi come l'Argentina e il Brasile dipendono chiaramente dall'immigrazione italiana.
2. Gli effetti delle migrazioni
Lo studio degli effetti delle migrazioni comprende dunque un campo assai vasto, che non si riduce a quello economico e può perciò essere sottoposto a valutazioni divergenti, non soltanto per diversità di vedute teoriche, ma anche a seconda delle condizioni dei singoli paesi presi in esame. Gli stessi aspetti economici del problema possono però avere interpretazioni diverse e una diversa casistica. Se i paesi che hanno già sviluppato la loro economia e hanno scarsità di forze di lavoro ritengono talvolta vantaggiosa l'immigrazione, talaltra i vantaggi possono essere contestati per considerazioni di ordine diverso, per quanto in qualche modo connesse con la vita economica, come, per es., la protezione sindacale o statale delle forze di lavoro indigene. Una forte attrazione è anche esercitata da quei paesi le cui risorse sono ancora allo stato potenziale. Tanto nel primo che nel secondo caso, questa attrazione si esercita sui lavoratori di quei paesi che sono densamente popolati ma che possiedono scarse risorse. Ma può anche accadere che l'attrazione si eserciti dai paesi potenzialmente ricchi sui paesi che hanno già sviluppato la loro potenza economica, perché nella nostra epoca non v'è soltanto migrazione di braccia o di cervelli, ma anche di capitali.
Dal punto di vista teorico vi sono due tesi che si contendono il campo. V'è una visione ottimistica, secondo la quale l'immigrazione produce nuova ricchezza e promuove lo sviluppo sociale così del paese ospitante come di quello d'origine; e v'è una visione pessimistica che si domanda se l'aumento della mano d'opera mediante le immigrazioni non comporti anche un costo sociale e non rappresenti quindi un freno all'innovazione. La mano d'opera nuova, specie se eccedente, comporterebbe infatti un ritardo nello sviluppo economico, perché renderebbe meno attivi coloro che sono già impiegati e ritarderebbe i provvedimenti diretti a creare i mezzi tecnici idonei a ridurre la mano d'opera. Ma è evidente che si tratta anche qui di una questione legata alle condizioni effettuali del paese ospitante, cioè al suo potenziale economico e alla congiuntura.
Comunque si risolvano queste questioni caso per caso, e innegabile che la prosperità economica del mondo occidentale deve gran parte del suo sviluppo all'impulso ricevuto dai movimenti migratori. E ciò non soltanto per l'apporto delle forze di lavoro, ma anche per gli immensi vantaggi che i paesi di accoglimento, e in primo luogo gli Stati Uniti, hanno ricavato sul piano culturale e tecnologico dall'immigrazione di intellettuali europei, specialmente tra la prima e la seconda guerra mondiale. Ma, nonostante che lo sviluppo dell'agricoltura, lo sfruttamento minerario, la costruzione delle reti ferroviarie e stradali e dei grandi centri urbani si siano realizzati in effetti grazie all'apporto delle forze di lavoro immigrate, è proprio negli Stati Uniti che si sono sollevati i dubbi e le obiezioni più insistenti sugli effetti benefici dell'immissione di braccia e di capacità intellettuali straniere. Una delle principali preoccupazioni è nata dal timore per un abbassamento del livello dei salari in seguito a una maggiore offerta di braccia e, più in generale, per un aumento della popolazione pari a quanto era accaduto nella seconda metà del sec. XIX. A parte il fatto che l'immigrazione non è permanente, come abbiamo già visto, è stato obiettato a questa tesi che il territorio degli Stati Uniti, di 8.000.000 di km2, avrebbe raggiunto nel 2000 la densità di soli 50 abitanti per km2, cioè nettamente inferiore a quella della Francia (65 ab. per km2) qualora avesse subito un incremento pari a un raddoppio ogni quaranta anni; il che avrebbe portato la popolazione degli Stati Uniti a 400.000.000 nell'anno 2000. Si noti che nel 1975 la popolazione era di 213.631.000 e la densità di 26,7 per km2.
Fin dal 1862, il Congresso degli Stati Uniti, ritenendo indispensabile per lo sviluppo economico del paese l'immigrazione, aveva emanato la Homestead law che concedeva gratuitamente una superficie di terra (160 acri = 62 ettari) ai coltivatori che volessero stabilirvisi. La crisi agricola europea, che si era determinata in quegli stessi anni, favorì l'immigrazione di lavoratori agricoli, cosicché la popolazione contadina registrò un incremento parallelo a quello dell'immigrazione. Nel 1890 la popolazione degli StatiUniti era di 62.900.000, di cui 5.500.000 immigrati nell'ultimo decennio; nel 1900 di 76.000.000, di cui 3.700.000 immigrati nell'ultimo decennio; nel 1910 di 92.000.000, di cui 8.000.000 immigrati nell'ultimo decennio; nel 1920 di 105.700.000, di cui 5.700.000 immigrati nell'ultimo decennio. Dunque un flusso costante, sebbene l'aumento degli elementi immigrati avesse subito per due volte una brusca diminuzione (nel 1895 e nel 1898), provocata dalla crisi economica di quegli anni. Complessivamente, dal 1820 al 1930, i calcoli più attendibili danno per l'immigrazione europea negli Stati Uniti una cifra complessiva di 65.000.000.
A tanto ammontava la cosiddetta ‛nuova immigrazione', per distinguerla da quella con la quale aveva avuto inizio la penetrazione europea nell'America Settentrionale. I vecchi immigrati, che provenivano dal Nordeuropa, appartenevano ai ceti intellettuali e artigiani, e i motivi che li avevano spinti a emigrare non erano solo economici ma anche ideali. La ‛nuova immigrazione' proveniva invece dall'Europa meridionale e orientale; era formata da Italiani, Austriaci, Ungheresi, Cechi, Russi, Polacchi, Slovacchi, Rumeni, Baltici ed Ebrei provenienti essi pure dai paesi dell'Est europeo. Si trattava di gente umile, non preparata alle difficoltà che sono sempre insite in un mutamento dell'ambiente, del clima, delle abitudini sociali, tenacemente attaccata al proprio paese d'origine e tuttavia spinta dalla forza del bisogno. Non selezionata nei paesi d'origine e nel paese ospitante, l'affermazione di questa gente era affidata esclusivamente alla capacità, al coraggio, alla tenacia, almeno fino a quando non vennero adottati dei provvedimenti che diminuirono l'alea di quell'avventura. Inferiori per livello sociale agli abitanti discendenti dalla ‛vecchia immigrazione', i quali avevano avuto il tempo di impadronirsi delle leve del potere economico e politico, circondati dal disprezzo del ricco per il povero, del potente per il debole, già inclini a chiudersi in difesa delle proprie abitudini e della propria autonomia, quelle comunità nazionali rimasero nelle campagne e nelle città come dei nuclei separati, operosi sempre, non di rado attivissimi. Accanto a cittadini che, pur provenendo da quei gruppi nazionali, riuscirono a conquistarsi solide posizioni, vi fu anche il fenomeno della ‛mafia', che ripeteva la ‛Molly Maguire' irlandese e che fu il prodotto della miseria, della necessità di difesa nei confronti di un ambiente ostile e delle condizioni di vita dei grandi centri urbani, che di quella immigrazione composita recano ancora oggi i segni evidenti. Per limitarci alla sola città di New York, questi sono i dati della sua popolazione per l'anno 1959: Austriaci 150.000; Canadesi di origine francese 15.000; Canadesi di origine inglese 57.000; Cinesi 30.000; Cechi 40.000; Danesi 16.000; Inglesi 150.000; Finlandesi 17.000; Francesi 40.000; Tedeschi 495.000; Greci 55.000; Ungheresi 125.000; Irlandesi 475.000; Italiani 1.100.000; Latinoamericani 20.000; Nordirlandesi 55.000; Norvegesi 53.000; Polacchi 410.000; Rumeni 85.000; Russi 950.000; Scozzesi 65.000; Spagnoli 25.000; Svedesi 55.000; Svizzeri 15.000; Turchi 32.000; Indiani 25.000.
Vecchia e nuova immigrazione si mescolarono dunque, in modo particolarmente accentuato, nei grandi centri urbani. Ma l'incalzare della seconda è reso evidente dall'andamento percentuale registrato dal prospetto che segue.
Nel periodo immediatamente precedente e seguente la prima guerra mondiale, l'immigrazione tedesca ridiede il primato agli immigrati della ‛vecchia immigrazione' di fronte a quelli della ‛nuova immigrazione'. Tale nuovo primato degli immigrati europei provenienti dai paesi settentrionali contribuì forse, anche se non in modo decisivo, al mutamento della politica degli Stati Uniti nei confronti dell'assorbimento della mano d'opera straniera. Ma essenziale fu il progresso economico e industriale che seguì alla partecipazione degli Stati Uniti al primo conflitto mondiale e che è indicato dalla produzione dell'acciaio, che nel 1923 raggiunse negli Stati Uniti i 47.700.000 tonnellate di fronte ai 38.800.000 di tutto il resto del mondo. Il progresso della tecnologia e la necessità di adoperare nell'industria mano d'opera qualificata fecero apparire in una luce negativa l'immissione nel paese di una nuova massa di lavoratori non qualificati provenienti dalle campagne. A questi motivi, discutibili ma fondati su considerazioni concrete, si aggiunsero ragioni ideologiche assai meno giustificabili. Il moralismo puritano dei discendenti di John Winthrop, che a metà del sec. XVII aveva pur considerato l'America come ‟un paese atto alla coabitazione e all'associazione", aveva reagito al contatto diretto con la società europea provocato dall'intervento in guerra nel 1917. L'Europa apparve come una sentina di tutti i mali. La giovane America doveva reagire al suo influsso demoniaco. Ed è singolare che la reazione moralistica identificasse il male non nella ricchezza, ma nella povertà, e che l'umanità fosse divisa in razze inferiori e razze superiori, in evidente contrasto con l'insegnamento evangelico.
Fu la cultura anglosassone e germanica che teorizzò la reazione contro la ‛nuova immigrazione', che avrebbe indebolito la società americana e la razza nordica, dalla quale tale società era stata inizialmente creata; e fu una Commissione del Senato che, operando tra il 1907 e il 1911, pubblicò un Dictionary of races and peoples nel quale la ‛nuova immigrazione' era resa responsabile delle crisi economiche e sociali del periodo che dal 1893 andava fino al 1905. H. H. Laughlin, uno studioso di eugenica, pubblicò a Washington, nel 1922, uno studio dal titolo Expert analysis of the metal and the dross in America's melting pot, termini coi quali, nel suo linguaggio immaginoso, si riferiva ai vecchi e ai nuovi immigrati; questi ultimi sarebbero stati soltanto scorie di fronte al puro metallo dei dolicocefali biondi. A coloro che hanno vissuto gli eventi drammatici che si sono svolti in Europa a partire da quello stesso anno 1922 fino alla seconda guerra mondiale e sono stati testimoni degli orrendi genocidi perpetrati dal nazismo, quel linguaggio e quelle idee fanno un effetto strano e sinistro. Quali misteriose confluenze, quali sotterranei rapporti si andavano fin d'allora determinando, che avrebbero riportato un mondo già civile a un'antica barbarie? Qualunque sia stato il rapporto intercorrente tra lo scritto del Laughlin e il Dictionary della Commissione senatoriale e l'ambiente politico dominante allora negli Stati Uniti, che non si può tuttavia porre negli stessi termini di quello intercorrente tra il regime nazista e le teorie del dr. Rosenberg, è singolare che in una delle patrie della sociologia non si sia verificata una più seria considerazione delle ragioni per le quali gli Italiani e gli Slavi si trovavano in uno stadio sociale meno evoluto degli Europei provenienti dal Nordeuropa.
Il ricorso a una condanna biologica, che traduceva in termini naturalistici l'antitesi tra salvi e dannati per effetto della Grazia, prescindeva da qualsiasi analisi delle condizioni ambientali, in primo luogo quelle offerte dalle città industriali, nelle quali gli appartenenti alla seconda immigrazione si trovavano a vivere, e dallo shock provocato dal contrasto tra queste condizioni e quelle dell'ambiente agricolo e della cultura di provenienza. Ma dietro il pessimismo di una parte influente della cultura e dell'establishment covavano ragioni politiche e interessi economici; covava l'ostilità verso il partito democratico e i presidenti che a esso appartenevano, G. Cleveland e W. Wilson, verso lo sviluppo industriale, che faceva considerare dannosa l'immissione di nuove masse di lavoratori impreparati, e infine verso un elemento che aveva dimostrato un po' dappertutto nei paesi del continente americano, dal Canada all'Argentina, di essere incline all'organizzazione sindacale, agli scioperi e alla propaganda anarchica, socialista e poi comunista. Si aggiunga a ciò la diffidenza della stessa mano d'opera immigrata nei confronti di un'ulteriore immigrazione, che era considerata pericolosa per il mantenimento del livello salariale e, per una efficace resistenza al padronato, e si comprenderà quali formidabili motivi militassero in favore di un regime di restrizioni e di controlli nei confronti del movimento immigratorio. In effetti, si poteva supporre che l'immigrazione di operai destinati all'industria fosse all'origine di quegli inconvenienti, in quanto essa non presentava in modo altrettanto chiaro i vantaggi che aveva dimostrato invece l'immigrazione di mano d'opera agricola diretta verso le campagne. Se è vero che negli Stati Uniti la ‛vecchia immigrazione', e in parte anche la ‛nuova', hanno avuto gli stessi effetti positivi per lo sviluppo dell'economia agricola registrati nell'America Latina - dove il regime della piccola proprietà, determinato dall'immigrazione, ha profondamente modificato il regime terriero, prima esclusivamente latifondista, se è vero che essa ha permesso il passaggio dalla monocoltura, caratteristica del latifondo, alle colture plurime, con l'importazione della coltivazione dei cereali, del tabacco e della vite, aggiunta a quella originaria del caffè - non altrettanto evidente era il vantaggio dell'immigrazione industriale. I suoi effetti benefici potevano essere contestati, o almeno bilanciati, in nome d'interessi ormai consolidati della classe lavoratrice già esistente in loco, nonché con altri argomenti di vario genere che sono stati in parte riferiti.
Tutte queste ragioni furono alla base delle spinte all'isolazionismo assai diffuse negli Stati Uniti. Tale situazione si manifestò nel contrasto insorto tra il Presidente e il Congresso in materia di immigrazione. Questo contrasto ha implicazioni politiche molto interessanti e mostra la diversità delle valutazioni intorno al problema dell'immigrazione a seconda che esse fossero fatte dall'uno o dall'altro. Il discorso porterebbe lontano e non può essere svolto qui. Sarà sufficiente rilevare che il primo atteggiamento ostile all'immigrazione si manifestò nei confronti dell'elemento cinese fin dal 1882, con una legge (Chinese exclusion act) che limitò l'esclusione dei Cinesi dall'immigrazione negli Stati Uniti dapprima a un periodo di dieci anni, per renderlo poi permanente alla scadere di quel periodo, nel 1892. L'immigrazione cinese che, divenuta rapidamente imponente intorno al 1880 con 100.000 unità, aveva mostrato la sua utilità nella costruzione della ferrovia che collega l'Atlantico col Pacifico, non fu premiata nel paese d'accoglimento, dove era interdetta ai Cinesi la naturalizzazione e negati i diritti civili fondamentali. La premessa di un simile atteggiamento era la presunta inassimilabilità dell'elemento cinese e in generale asiatico. Come i Negri ad Harlem, così i Cinesi erano praticamente costretti a vivere nelle China towns di New York e di San Francisco, dove il loro ceto commerciale raggiunse tuttavia una certa floridezza. I provvedimenti ostili ai Cinesi furono però seguiti da una legge del 1897, il Literacy act, non drasticamente proibitiva, ma restrittiva e chiaramente favorevole all'immigrazione inglese, dato che prescriveva per l'ammissione la conoscenza di quella lingua. Vennero poi il Japanese exclusion act del 1908 e infine, nel 1917, il divieto esteso a tutta l'immigrazione asiatica; tale divieto rimase in vigore fino al 1946, quando, per considerazioni politiche nei confronti della Cina nazionalista, furono riaperte le porte a 100 Cinesi ogni anno. Inoltre, alla fine della guerra nel Vietnam, ragioni politiche e umanitarie hanno imposto l'accoglimento dei profughi dal Sud Vietnam.
Il provvedimento più grave fu però adottato nel 1921 dal Congresso, nonostante il veto del presidente Wilson, con il Quota act e poi nel 1924 con un altro provvedimento che riduceva ulteriormente l'aliquota annua degli immigrati stabilita nel 1921, portandola da 357.803 a 164.667.
Il Quota act del 1921 e l'Immigration act del 1924 erano stati formulati in modo da favorire la ‛vecchia immigrazione'. Infatti il primo, basato sul censimento del 1910, restringeva l'immigrazione al 3o% delle persone di ogni nazionalità, nate all'estero e residenti negli Stati Uniti nel 1910; L'Immigration act si fondava sul censimento del 1890 e riduceva la quota al 20%. Rimaneva esclusa l'immigrazione proveniente da altri paesi del continente americano, che crebbe grandemente negli anni compresi tra il 1921 e il 1951. Si consideri la tab. I, relativa ai contingenti nazionali determinati in base alla suddetta legge del 1924.
Tutti questi provvedimenti non raggiunsero però lo scopo che si erano prefisso. La quota dell'81,6o% riservata agli immigranti appartenenti ai gruppi anglosassone, germanico e scandinavo non raggiunse che il 55% mentre il 16% riservato alla ‛nuova immigrazione' fu largamente superato. Inoltre la quota degli operai non qualificati si ridusse al 4o% nel 1937, mentre crebbe enormemente il numero degli ‛immigrati ‛senza occupazione', cioè dei vecchi, delle donne e dei bambini che gli immigrati di recente facevano venire negli Stati Uniti. Mentre nel 1911 questi formavano l'11% del totale annuale, nel 1925 divennero il 45% e nel 1937 il 57%. Anche la proporzione tra i sessi cambiò. Se prima del 1914 gli immigrati erano in maggioranza uomini giovani e spesso scapoli, tra il 1925 e il 1929 ogni 100 donne c'erano soltanto 122 uomini, che scesero a 82,4 a partire dal 1930-1934 e a 78,5 nel 1935-1939. A tutto ciò si accompagnò una improvvisa caduta dell'immigrazione: nel 1930 era ancora di 241.000 unità, ma nel 1932 raggiunse la cifra negativa di 67.000: l'emigrazione dagli Stati Uniti superava ormai l'immigrazione.
Le leggi che limitavano così drasticamente l'immigrazione negli Stati Uniti cadevano in un momento di grave crisi economica, specialmente per la Germania, dove l'inflazione conseguente alla guerra perduta aveva gravemente colpito il ceto operaio e una larga parte della borghesia. Anche gli altri paesi erano però stati colpiti dalla crisi, alla quale si cercava di far fronte con metodi diversi, diretti in Inghilterra e in Francia al risanamento monetario. Ma queste diverse strategie monetarie si risolsero in Inghilterra in un danno per il commercio con l'estero a causa dei prezzi crescenti. Anche i provvedimenti adottati dal governo di Poincaré negli anni 1926-1928 portarono alla speculazione e al rialzo del franco. La stessa politica fu adottata dal cancelliere tedesco Brüning, di fronte a una crisi che aveva certo cause complesse in Germania, ma che fu un elemento determinante nell'arresto dei crediti e degli acquisti amencani.
Negli stessi anni delle restrizioni all'immigrazione, gli Stati Uniti avevano adottato una politica fortemente protezionistica. Inoltre, l'atteggiamento degli Stati Uniti, sempre seguito dagli altri paesi del continente americano, doveva provocare, sia pure a una certa distanza di tempo, una politica restrittiva simile nei grandi paesi d'immigrazione, in Argentina nel 1933 e in Brasile nel 1934, che andava ad aggiungere i suoi effetti a quelli provocati dalle leggi decretate dalla maggiore potenza americana. Le ripercussioni della politica contraria all'immigrazione e favorevole alla restrizione degli scambi commerciali furono disastrose, e la crisi economica, esplosa il 29 ottobre del 1929 negli Stati Uniti, si diffuse rapidamente nel mondo intero. Le potenze europee vedevano diminuire il proprio commercio con l'estero e l'America, in seguito alle sue misure protezionistiche, si trovava di fronte allo stesso fenomeno, mentre la sua produzione industriale e agricola era in piena espansione. Il rimedio che si trovò a questa situazione, consistente nello stimolare al massimo il mercato interno (l'inflazione creditizia raggiunse allora il 35%) non sortì alcun effetto benefico. Le restrizioni apportate all'immigrazione, mentre fecero diminuire il numero dei consumatori, riducendo così il mercato interno, favorirono anche uno spostamento della mano d'opera dalle campagne alle città industriali, che raggiunse tra il 1921 e il 1929 i 6 milioni di unità. Nello stesso tempo l'agricoltura americana, costretta a meccanizzarsi al più alto grado per mancanza di mano d'opera, registrò un aumento straordinario della produzione la quale, tuttavia, non aveva alcuna possibilità di trovare un mercato. D'altro canto i paesi europei, la cui popolazione non aveva più lo sfogo dell'emigrazione, dovettero a loro volta aumentare la produzione agricola. Nel 1930 la produzione di grano aumentò in Europa del 6% rispetto al periodo anteguerra e nell'Est europeo addirittura del 12%. La coltura delle patate crebbe addirittura del 35% nell'Europa occidentale e del 59% in quella orientale. Contemporaneamente le importazioni dell'Europa caddero da 23,6 milioni di tonnellate a 18,8 milioni. L'effetto sul mercato del lavoro fu che negli Stati Uniti la disoccupazione raggiunse i 15 milioni di unità.
L'altro grande paese dell'America Settentrionale, il Canada, deve anch'esso il suo sviluppo economico all'immigrazione. Dopo un lungo periodo di diffidenza, il governo canadese votò la prima legge generale sull'immigrazione nel 1869 e da allora l'afflusso delle forze di lavoro provenienti dall'estero cambiò la situazione. Mediante agenzie aperte all'estero e una legislazione protettiva dell'immigrante, il governo canadese cercò in ogni modo di favorire il movimento immigratorio. Agli inizi di questa politica la maggior preoccupazione fu la salvaguardia della salute nazionale; contemporaneamente ci si preoccupò di rendere sempre migliori le condizioni degli immigrati. Il problema dei trasporti, uno dei più rilevanti tra quelli inerenti alle migrazioni, sia per l'influsso che il costo del trasporto ha avuto sul numero delle persone trasportate, sia per le condizioni igieniche, trovò larga considerazione nella legislazione canadese. Già la legge del 1869 aveva imposto alle compagnie di navigazione il contributo di un dollaro per immigrante, che doveva servire a formare delle somme destinate agli immigranti più poveri. Inoltre si dettarono provvidenze per rendere più accettabili le condizioni della traversata, aggravate dall'esosità delle compagnie di navigazione, che cercavano sempre di aumentare i loro profitti, già rilevantissimi, e rese più disagiate dalle angherie degli equipaggi delle navi.
Ma questa benefica legislazione era anche largamente discriminatoria. Per quanto nel Canada l'immigrazione fosse cominciata molto più lentamente che negli Stati Uniti, essa aveva conosciuto un ritmo crescente, che tra il 1920 e il 1930 arrivò alla rispettabile cifra di 5.300.000 immigranti, di fronte a una popolazione che nel 1930 ammontava a 10.400.000 abitanti. Ma fin dal 1869 fu stabilita la distinzione tra ‛immigrazione desiderabile' e ‛indesiderabile', che doveva essere osservata dalle agenzie di reclutamento all'estero. Nel 1885 fu imposta una tassa di 50 dollari per ciascun immigrante cinese, che arrivò a toccare i 500 dollari nel 1903, fino a quando, nel 1927, il Chinese immigration act chiuse del tutto l'immigrazione da quel paese. Per quanto riguardava l'immigrazione giapponese, un accordo tra i rispettivi governi, stabilito nel 1908, limitò l'immigrazione a 150 unità all'anno.
Per quanto anche il Canada, che nel 1975 contava una popolazione di 22.811.000 abitanti, con una densità di 2,28 unità per km2 su una superficie di 9.976.000 km2, superiore dunque a quella del Brasile, della Cina e degli Stati Uniti e inferiore soltanto a quella della Russia sovietica, debba la sua prosperità all'immigrazione (400.870 immigrati nel solo 1914), tuttavia la politica da esso seguita è stata largamente discriminatoria; tali discriminazioni non si sono manifestate soltanto, come si è visto, nei confronti dei popoli dell'Asia, ritenuti come negli Stati Uniti non assimilabili per la fondamentale diversità di civiltà, ma anche nei confronti dell'immigrazione proveniente dall'Europa del sud e dell'est. Evidentemente l'esempio degli Stati Uniti ha avuto un grande peso nella determinazione dell'atteggiamento canadese. Accanto all'immigrazione più gradita, che era quella dell'Europa settentrionale, alla quale si aggiungeva, per ragioni di composizione etnica del paese, quella francese nonché quella statunitense, l'immigrazione di Slavi, Italiani, Siriani e Turchi era considerata con diffidenza nonostante la sua fondamentale utilità. Nei confronti di ogni altra immigrazione c'era poi una chiusura quasi totale.
Dopo le restrizioni conseguenti alla grande crisi cominciata nel 1929, un mutamento radicale d'indirizzo si è notato dopo la seconda guerra mondiale, quando lo sviluppo economico canadese rese evidente al governo di W. L. M. King che ogni altra considerazione doveva essere subordinata all'economia. Fu però soltanto nel 1962 che il governo Diefenbaker dichiarò esplicitamente che l'immigrazione non sarebbe stata sottoposta a limitazioni dipendenti dalla razza o dall'origine. La politica immigratoria del Canada si è andata dunque progressivamente diversificando da quella degli Stati Uniti, anche se il problema della qualificazione della mano d'opera è rimasto tra le preoccupazioni principali di questo paese e ha trovato la sua espressione nei regolamenti entrati in vigore dal 1967. Occorre tener presente, a questo proposito, che il settore primario non assorbe in Canada che il 14% della mano d'opera disponibile, mentre il settore secondario, industriale e delle costruzioni, ne occupa il 29%. Questo settore, che è in costante espansione grazie alle grandi risorse del paese nel campo delle materie prime, ai mercati interno ed estero e agli investimenti massicci di capitali provenienti dagli Stati Uniti, richiede soprattutto mano d'opera specializzata. Il problema è complicato anche dalle condizioni climatiche, che sono buone nella fascia che corre lungo il fiume San Lorenzo e il confine con gli Stati Uniti, ma divengono difficili e spesso proibitive nelle regioni situate più a nord. Da ciò una disoccupazione fluttuante, alla quale fa riscontro una mancanza di mano d'opera a seconda delle stagioni. Secondo le proposte avanzate dai sindacati, l'immigrazione dovrebbe perciò essere sospesa durante l'inverno per essere ripresa nella buona stagione, o anche interrotta completamente fino al riassorbimento di tutte le forze di lavoro già esistenti. Tutti ammettono, però, che il problema non è affatto di facile soluzione.
Abbiamo già accennato al fatto che i paesi americani hanno in genere seguito l'esempio degli Stati Uniti nelle restrizioni all'immigrazione, sia nei criteri selettivi, sia per le necessità imposte dalla crisi economica degli anni trenta. Anteriormente avevano tenuto a modello gli Stati Uniti anche nella politica della open door. L'importanza dell'America Latina per il fenomeno migratorio, e il fatto che la sua composizione etnica non sia formata da popolazioni provenienti dall'Europa settentrionale ma meridionale, impongono però che ci si soffermi ulteriormente su questi temi.
Anche per l'America Latina sviluppo economico e immigrazione sono andati di pari passo. Ciò può essere con- statato in modo saltuario e nel complesso meno rilevante nel Messico a causa di ragioni politiche interne, anche se proprio il Messico fu il primo paese dell'America Latina a consentire una certa immigrazione fin dal 1854 e accrebbe poi in questo modo la propria popolazione dai 6,5 milioni di abitanti del 1800 ai 16 milioni del 1911. I due grandi paesi dell'immigrazione latinoamericana furono però l'Argentina e il Brasile.
L'Argentina è un immenso paese di 2,7 milioni di km2, che contava nel 1800 soltanto 300.000 abitanti e nel 1850 ne aveva 1.200.000. Da allora, e specialmente dal 1860 con l'apertura all'immigrazione non spagnola, cominciò una rapida crescita. Tra il 1860 e il 1925 vi arrivarono dall'Italia oltre 5.300.000 immigranti, ai quali si aggiunse un numero anche maggiore di Spagnoli.
La situazione del Brasile è anche più caratteristica. Con i suoi 8,5 milioni di km2, una popolazione di 106.976.000 unità e una densità di 12,58 ab. per km2 nel 1972, il Brasile è caratterizzato in particolare da un impetuoso accrescimento naturale del 2,5%, pari a un aumento di 2,6 milioni di abitanti all'anno, sostenuto dall'elevatissimo tasso di natalità, che raggiunge il 4,5%. Nonostante ciò, il Brasile ha bisogno assoluto dell'immigrazione. Abbiamo già accennato come la monocoltura del caffè sia stata modificata dall'introduzione di altre colture in conseguenza dell'immigrazione. Ma dobbiamo ora aggiungere che, fino alla fine del secolo scorso, proprio la coltura latifondistica del caffè ha subordinato l'incremento delle forze di lavoro immigrate alla volontà dei grandi produttori. Però, fin dal 1808, una Lettera Reale rese possibile l'acquisto di terre da parte di stranieri e ciò provocò l'installazione di Tedeschi a Ilhéus, prov. di Bahia, e di Svizzeri tedeschi a Nouvelle Fribourg nella provincia di Rio de Janeiro nel 1819. Dopo l'acquisto dell'indipendenza, un'altra colonia tedesca sorse a São Leopoldo nel 1824, nel 1828 apparvero Tres Forquilhas e Torres nel Rio Grande do Sul, nel 1829 São Pedro de Alcantara e Itajai, Rio Negro al Paraná e Itapecerica nella provincia di São Paulo. Questi centri di colonizzazione incontrarono delle opposizioni, ma l'immigrazione fu di nuovo incoraggiata quattro anni più tardi, mentre lo spirito della politica andò mutando in favore dell'immigrazione e ciò che si chiese non fu più il popolamento, ma forze di lavoro per l'agricoltura.
Al fine di garantirsi le braccia necessarie alle fazendas, a partire dal 1842 i grandi proprietari brasiliani scatenarono una lotta politica contro la piccola proprietà terriera. L'espediente adottato consisteva nell'imporre l'acquisto della terra agli emigranti che volevano formare colonie di piccoli proprietari, il che avrebbe reso praticamente impossibile il soddisfacimento di questa loro aspirazione. Per quanto questo disegno, propugnato dai grandi proprietari dello Stato di São Paulo, fosse sostenuto dal Consiglio di Stato, esso urtava contro la politica ufficiale del governo, che tendeva alla creazione di colonie agricole. La lotta fu combattuta a colpi di leggi. Quella del 28 ottobre 1848 riaffermò il diritto del governo di promuovere la colonizzazione con la concessione di terre, ma un'altra legge del 1850, la cosiddetta ‛Legge delle terre', stabilì il principio che le terre appartenenti allo Stato potevano essere concesse solo mediante il pagamento di un certo prezzo. I programmi relativi alla colonizzazione, che si proponevano anche di sfruttare le immense distese boschive non utilizzate dagli allevatori, nella seconda metà del secolo scorso segnarono una netta vittoria della politica governativa. Ma dal 1891 l'intervento diretto del governo rallentò e l'iniziativa fu lasciata agli Stati, tra i quali si distinse specialmente quello di São Paulo. Questo cambiamento segnò un intensificarsi del movimento immigratorio, che dal 9,2% nel 1878 e dal 17,1% nel 1883 passò bruscamente al 67,0% nel 1897 e all'84,0% nel 1901. Fu questo il periodo della più alta immigrazione in Brasile, con medie annuali di 100.000 unità tra il 1888 e il 1900. La creazione del Ministero dell'Agricoltura, avvenuta nel 1906, avrebbe dovuto segnare la fine della politica semicoloniale che era risultata dalle tensioni tra il governo e i grandi produttori di caffè e che la competenza passata agli Stati non aveva certo eliminato. La creazione del Ministero significò infatti un mutamento nella politica immigratoria, per quanto la legislazione emanata tra il 1906 e il 1911 facesse dipendere immigrazione e colonizzazione dagli accordi tra i governi degli Stati e le compagnie dei trasporti ferroviari e fluviali.
Comunque si vogliano interpretare queste intenzioni, il periodo seguente, a causa delle due guerre mondiali e della grande crisi economica del 1929 vide il prevalere di una legislazione restrittiva e selettiva ispirata a quella degli Stati Uniti. Nel frattempo si era andata determinando in Brasile una grande rivoluzione economica, con la formazione di una economia industriale rivolta non più ai mercati esteri, come quella agricola, ma a quello interno. Questa trasformazione favorì un'imponente migrazione interna dal nord al sud del paese, che si dimostrò un ostacolo all'incremento dell'immigrazione europea, e che indirizzò la richiesta verso la mano d'opera specializzata. L'immigrazione asiatica, così fieramente avversata nel Nordamerica, trovò invece fortuna in Brasile a scapito di quella europea. Tra il 1908 e il 1939 i Giapponesi emigrati in Brasile furono oltre 200.000 e dopo la seconda guerra mondiale il loro numero ha ripreso a salire. Anche gli Italiani sono aumentati, quintuplicando il loro numero, e gli Spagnoli lo hanno addirittura decuplicato. Complessivamente, dal 1817 al 1970, il totale degli immigrati in Brasile è stato di 5.589.667 unità; ed è certo che un paese quale il Brasile, con le sue immense risorse, potrebbe senza danno consentire che il numero degli immigrati aumenti ancora. Ma, come per ogni altro paese moderno, anche per il Brasile il problema della qualità della mano d'opera ha ormai assunto un'importanza prevalente. Un aumento indiscriminato dell'immigrazione non potrebbe risolvere, ma anzi aggraverebbe, i problemi del paese.
Se i paesi dell'emisfero occidentale, per grandi che possano essere state le differenze tra loro, hanno tutti abbracciato una politica discriminatoria nei confronti dell'immigrazione, una politica che ha come denominatore comune le esigenze del loro sviluppo economico e della loro industrializzazione, l'Australia è, tra i grandi paesi d'accoglimento, quello che pone ancora in primo piano il problema, essenziale per la sopravvivenza, dell'accrescimento della popolazione. Per questa ragione l'Australia, che secondo il programma espresso dal ministro H. Holt il 7 novembre 1955 si propone di raggiungere nel 1980 una popolazione di 20 milioni di abitanti, non pone alcuna condizidne all'immigrazione per quanto riguarda la qualità delle forze di lavoro. Il problema primario del popolamento è reso più acuto dal fatto che l'Australia è anche paese d'emigrazione verso la Gran Bretagna, la Nuova Zelanda, l'Africa, ma soprattutto verso gli Stati Uniti, in armonia con l'attrazione, non soltanto economica, che la grande potenza americana esercita da alcuni anni nei suoi confronti. Gli stretti legami che hanno unito l'Australia, come membro del Commonwealth, alla Gran Bretagna, hanno determinato la preminenza dell'immigrazione inglese, almeno fino al 1939, e consigliato una politica di rapporti privilegiati nei confronti di tale paese, stabilendo che non meno del 50% dell'immigrazione complessiva deve essere di provenienza inglese.
3. Le migrazioni forzate
Fino a questo punto abbiamo considerato il fenomeno migratorio come scelta individuale dei soggetti, politicamente libera e condizionata soltanto dalla necessità economica, e abbiamo cercato di mettere in luce il rapporto intercorrente tra queste migrazioni e l'economia non soltanto dei singoli paesi di provenienza o di accoglimento, ma con l'economia mondiale nel suo complesso, chiarendo come il gioco della domanda e dell'offerta della mano d'opera agisse diversamente se avveniva in un regime di libero mercato o se invece era condizionato da considerazioni estranee all'economia, influenzate da motivi politici, dottrinali, o psicologici. Dobbiamo ora esaminare le migrazioni sotto un angolo visuale del tutto diverso e per molti rispetti opposto. Le migrazioni non si sono infatti attuate sempre sotto l'insegna della libertà. Non ci riferiamo alla libertà integrale, che è poi la sola vera, garantita dalle leggi e rispondente alle reali condizioni di vita dell'uomo, ma almeno a quel simulacro di libertà che è la possibilità di scegliere il male minore, l'abbandono del proprio paese in cambio di una speranza di miglioramento delle condizioni materiali di vita e di un elevamento nella scala sociale. Nella nostra epoca infatti, come in quasi tutte le epoche del passato, si sono rinnovati, in proporzioni e circostanze drammatiche, movimenti migratori di altro genere, dipendenti dall'instaurazione di nuovi regimi politici in Europa tra la prima e la seconda guerra mondiale. Questi regimi, considerando la popolazione piuttosto come un aggregato di sudditi che come un insieme di cittadini e ponendo in primo luogo la ragione di Stato, hanno provocato imponenti spostamenti di popoli da una regione all'altra dello stesso Stato o da Stato a Stato, senza che alcuna considerazione umanitaria o giuridica temperasse la crudezza dell'imposizione, ora mossa da considerazioni economiche o politiche, ora dall'utilità generale o da intenti punitivi.
Il periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale segna una crisi profonda della civiltà liberale, che aveva ispirato la vita europea fino agli anni del primo grande conflitto armato, ed è caratterizzato dall'instaurazione di regimi autoritari in Italia, in Germania e nell'Unione Sovietica. La diversa struttura economica di questi tre paesi e una diversa interpretazione politica del fenomeno dell'emigrazione hanno però determinato tra loro differenze profonde, alle quali si devono anche aggiungere le diverse caratteristiche fisiche e la diversa ampiezza dei rispettivi territori. Il fascismo, per esempio, considerò l'emigrazione all'estero contraria agli interessi nazionali e di conseguenza soppresse nel 1927 il Commissariato generale all'emigrazione, attribuendone le funzioni alla Direzione degli Italiani all'estero, col compito di indurre i nostri connazionali a rientrare in patria. Questa politica venne però parzialmente contraddetta quando si volle giustificare la conquista dell'Etiopia nel 1935 con l'acquisizione di territori aperti al lavoro italiano.
Altre proporzioni, altri problemi, altre circostanze politiche e altre questioni econoiniche hanno caratterizzato i movimenti migratori nell'Unione Sovietica. Vogliamo qui prescindere dalle migrazioni avvenute nell'epoca zarista, che avevano sempre incontrato l'ostilità del governo e avevano perciò assunto il carattere della clandestinità. Di particolare rilievo, tuttavia, furono le migrazioni armene, fino alla creazione della Repubblica indipendente dell'Armenia nel 1918-1920. Per un secolo l'Armenia russa aveva accolto i rifugiati armeni provenienti dall'Impero persiano e dalla Turchia, e il movimento per e dalla Repubblica armena è continuato anche nell'epoca sovietica. Ciò che si deve qui considerare è invece l'importanza che la Siberia riveste per l'economia sovietica. In essa infatti, secondo i dati addotti da Chruščëv nel suo discorso al XX Congresso, sono conservati il 75% delle riserve sovietiche di carbone, l'80% delle riserve idriche, l'80% di quelle minerarie e il 41,5% del patrimonio boschivo. L'assoluta necessità di sfruttare queste immense risorse ha indotto il governo dell'URSS a inviare in Siberia con mezzi coercitivi 3 milioni di uomini presi dalla Russia ma anche dagli Stati satelliti. Per rendersi conto, d'altronde, del carattere essenziale attribuito dal governo sovietico allo sfruttamento delle risorse siberiane, nulla è più significativo che il ricordare come fu ordinata la smobilitazione di 1.840.000 soldati, nella primavera del 1956, per trasformarli in forze di lavoro da inviare all'Est.
In certo modo connessa con le migrazioni forzate del tipo ora descritto è la migrazione di coloro che hanno chiesto rifugio in un paese straniero. Naturalmente questa migrazione può essere individuale o massiva. Ci occuperemo di quest'ultima, che ha provocato le conseguenze più evidenti nel mondo contemporaneo e ha promosso i provvedimenti tendenti a diminuirne le conseguenze negative in campo internazionale.
Molti milioni di persone sono state costrette a fuggire in seguito alla Rivoluzione bolscevica e agli eventi che hanno seguito la prima guerra mondiale. Molti altri hanno conosciuto nei decenni seguenti la via dell'esilio, per un totale complessivo di 80 milioni. Secondo Ladame, si distinguono tre fasi di questa migrazione: la prima, che va dal 1920 al 1939, ha provocato 15 milioni di profughi; la seconda, dal 1939 al 1945, 30 milioni circa; la terza, dal 1945 al 1958, altri 35 milioni. Per una visione più analitica si veda il seguente prospetto:
Tra il 1919 e il 1920, 1 milione di persone fuggirono dalla Russia. La gravità del problema era talmente evidente che la questione fu portata davanti alla Società delle Nazioni nella sua XIV sessione del settembre 1921. Il problema di questi rifugiati comprendeva vari aspetti e apparve fin dall'inizio come estremamente delicato per i risvolti politici che presentava, e di non facile soluzione. Bisognava ridare ai rifugiati una protezione giuridica, assicurare loro un'esistenza accettabile e aiutarli a ricostruirsi una vita senza che ciò recasse pregiudizio ai paesi ospitanti. Fu incaricato della soluzione l'esploratore Fr. Nansen, il cui nome era divenuto celebre in seguito alle sue memorabili imprese. Quale Alto Commissario della Società delle Nazioni, egli si preoccupò di dare uno statuto giuridico provvisorio ai rifugiati, valido fino al momento nel quale essi avrebbero riacquistato una nazionalità regolare (il cosiddetto ‛passaporto Nansen'). Ma, esaurito questo aspetto formale, per quanto importantissimo, rimaneva il problema di fondo della sistemazione dei rifugiati (in quel momento 700.000 Russi e 115.000 Armeni fuggiti dall'Unione Sovietica). Le difficoltà che si opposero fin dal primo momento a una soluzione integrale furono, oltre quelle determinate dal fatto che proprio allora gli Stati Uniti avevano adottato una politica restrittiva dell'immigrazione e ridotto a 20.423 la quota degli immigranti provenienti dall'Est europeo, soprattutto quelle provocate dalle difficoltà finanziarie, che apparvero subito imponenti. Il ricorso di Nansen al Bureau Intemational du Travail (BIT) non diede risultati positivi. Erano intanto aumentati i rifugiati dall'Italia e dalla Spagna, ai quali si erano aggiunti quelli dalla Germania hitleriana, nonché gruppi provenienti dall'Europa balcanica e dal Vicino Oriente. Poiché l'Ufficio Nansen non poteva occuparsene per ragioni politiche, nel 1933 fu istituito a Londra un Alto Commissariato per i rifugiati tedeschi. Alto Commissario fu nominato J. C. Macdonald.
Nel 1938, infine, il presidente Roosevelt prese alla conferenza di Evian l'iniziativa di costituire un Comité Intergouvernemental pour les Réfugiés (CIR), allo scopo di negoziare dei trattati per il miglioramento delle condizioni dei rifugiati, per favorire una sistemazione stabile dei perseguitati per motivi razziali, religiosi o ideologici e per proteggerli. Di fronte all'atteggiamento assunto dalla Società delle Nazioni e dall'URSS, che si limitavano a una protezione puramente formale, si era dunque andato delineando un atteggiamento diverso e ben più concreto, che era naturalmente rimasto estraneo alla Russia, all'Italia, alla Germania e alla Spagna. L'importanza della decisione presa a Evian consisteva anche nel fatto che essa segnava un certo mutamento di rotta degli Stati Uniti per quanto riguardava la ripresa dell'immigrazione nel loro territorio.
La seconda fase coincise col patto Hitler-Stalin del 23 agosto del 1939 e con l'inizio della seconda guerra mondiale, che provocò lo sradicamento di 30 milioni di persone proprio quando, per le drammatiche circostanze del conflitto, nessuno, eccezion fatta per la Svizzera, poteva occuparsi del problema. Anche questa volta l'iniziativa fu presa dagli Stati Uniti. Già prima della fine della guerra (9 novembre 1943) fu creata l'United Nations Rehabilitation and Reconstruction Administration (UNRRA), che si aggiunse al CIR, con il compito, tra l'altro, del rimpatrio dei rifugiati vittime dei regimi dittatoriali. Le difficoltà incontrate da questo gigantesco organismo dipendevano, oltre che dal numero elevatissimo delle persone cui provvedere (9 milioni), anche dai loro diversi atteggiamenti e da quelli dei governi interessati. Tra i rifugiati dell'Est europeo, infatti, molti erano quelli che si erano messi al servizio della Germania per odio verso lo Stato sovietico: è naturale che essi si opponessero a un rimpatrio che equivaleva per loro a una condanna. L'URSS, d'altronde, esigeva che coloro che erano stati cittadini sovietici le fossero restituiti. Da ciò sorse un serio attrito, il primo tra gli alleati occidentali e l'Unione Sovietica, in occasione della III sessione dell'UNRRA. Le cifre dei rimpatri, talvolta attuati contro la volontà degli interessati, sono le seguenti: 7.189.213 persone di cui: 6.174.013 Tedeschi; 870.102 Austriaci; 91.132 Italiani; 53.966 del Vicino Oriente.
La terza fase (1945-1958) è quella del dopoguerra e concerne soltanto l'Europa orientale. Le espulsioni e le deportazioni conseguenti alla fine del secondo conflitto mondiale crearono un dramma umano di proporzioni non minori dei precedenti cui s'è accennato e problemi imponenti. Ancora una volta la volontà degli uomini politici, rimuovendo frontiere e sradicando milioni di uomini, ha inciso in modo non lungimirante sulle sorti dell'umanità. Col trattato di Potsdam, per cominciare, fu decisa l'espulsione di 6,7 milioni di Tedeschi dalle regioni concesse alla Polonia; di 2,5 milioni di Tedeschi dalla regione sudetica, accordata alla Cecoslovacchia; di 179.000 Tedeschi dall'Ungheria. La Iugoslavia, a sua volta, espulse 200.000 persone. Inoltre molte migliaia di persone fuggirono in Occidente quando ebbero inizio le deportazioni in Siberia dai paesi dell'Est. Le cifre complessive sono: 15 milioni di individui espulsi, 3 milioni dei quali sono scomparsi, e inoltre 3 milioni di rifugiati nella Germania Occidentale. Le sole deportazioni in Siberia ammontarono a 5 milioni. Si aggiunga il trasferimento di 4,5 milioni di Polacchi, di circa 2 milioni di Cechi e di Slovacchi, di 500.000 Russi e Ucraini, di 120.000 Ungheresi, di 100.000 Greci dopo il tentativo di colpo di Stato del 1947, di 200.000 Italiani e Turchi espulsi rispettivamente dall'Istria e dalla Bulgaria, e di altri 200.000 Ungheresi fuggiti dopo il fallimento della rivoluzione di Budapest del 1956.
Un numero notevole di queste persone, con un ritmo che nel 1956 e 1957 è stato di 600.000 all'anno, ha chiesto asilo alla Germania, all'Austria e agli altri paesi dell'Europa occidentale, nonché a Israele.
La nascita dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) a San Francisco nel giugno del 1945 avrebbe potuto segnare un passo decisivo per la soluzione del problema dei rifugiati. Fu decisa la creazione di un nuovo organismo, l'Organisation Internationale pour les Réfugiés (OIR), resa più necessaria dallo scioglimento dell'UNRRA. Il suo spirito era sintetizzato nella risoluzione dell'aprile del 1946: "Il problema dei rifugiati dev'essere trattato e risolto dall'ONU in conformità dei diritti dell'uomo e del diritto delle genti". Su questo punto la politica delle potenze occidentali si scontrò con quella dell'Unione Sovietica, per la quale tutti i profughi dovevano essere obbligati a rientrare nei paesi di provenienza.
La questione dei rifugiati sembrò venir superata quando il 24 giugno 1948 fu votato dal Congresso degli Stati Uniti il Displaced persons act, col quale quel paese istituiva un organismo incaricato di applicare un nuovo piano per l'immigrazione. Quella legge segnò così il punto d'incontro dei ripetuti tentativi di risolvere il problema dei rifugiati con una risoluzione che modificasse la politica restrittiva fino ad allora seguita. Tuttavia, emendato nel 1950 e nel 1951, il Displaced persons act non contraddisse pienamente la politica selettiva inaugurata tre decenni prima. I lavoratori preferiti erano quelli addetti al settore agricolo, ai quali era riservato il 30% dei permessi. Seguivano gli operai edili e quelli delle confezioni. Ma, contravvenendo a quanto doveva essere eseguito dall'OIR e non tenendo conto del condizionamento sovietico, venivano anche accettati 55.000 rifugiati Tedeschi (la Germania Federale ne aveva accolti 10 milioni) e 2.000 Italiani. La preferenza era però concessa a coloro che avevano combattuto i nemici dell'America e a quelli che all'1 febbraio del 1948 erano ancora nei campi profughi. Nel complesso, le persone che entrarono negli Stati Uniti con il Displaced persons act furono 400.000.
Nel maggio del 1950 i ministri degli Esteri delle tre maggiori potenze occidentali, Acheson, Bevin e Schuman, si riunirono per decidere una politica comune per la difesa dell'Europa. Fu Schuman a sostenere che la cooperazione europea nel campo della produzione industriale doveva mirare anche a reinserire la Germania e l'Italia nel mondo occidentale. Fu ancora Schuman a porre in risalto l'importanza condizionante del problema della popolazione per poter risolvere il problema europeo. La Germania era oppressa da milioni di profughi e l'Italia da una pesante disoccupazione. La soluzione era dunque ancora una volta nell'emigrazione. In seguito a ciò, i tre ministri degli esteri votarono una risoluzione (13 maggio 1950), nella quale si dichiarava: "L'eccesso di popolazione di cui soffrono molti Stati d'Europa è uno degli elementi più importanti delle difficoltà e dello squilibrio del mondo. Uno studio sistematico delle possibilità dell'emigrazione delle popolazioni può contribuire grandemente alla soluzione di tale problema". L'importanza di questa dichiarazione non consisteva solo nell'aver di nuovo messo l'accento sull'emigrazione come strumento essenziale per risolvere i problemi del rilancio europeo, ma nel fatto che questa scelta veniva avallata dal Segretario di Stato americano.
4. Limitazioni e programmi relativi all'emigrazione oltremare
In seguito alla Conferenza di Londra del 1950, il Consiglio d'Europa nominò un Comité d'Experts sur le Problème des Réfugiés et des Excédents de Population, che indicò nella cifra di 5 milioni la popolazione eccedente in Europa, e nell'emigrazione verso i paesi d'oltremare il mezzo per rimediarvi. Contemporaneamente anche il BIT aveva studiato un piano particolareggiato a quello stesso fine e, ciò che più conta, il Congresso degli Stati Uniti, dopo avere a sua volta esaminato a fondo il problema, aveva dichiarato la sua disponibilità di principio nei confronti delle migrazioni, e votato un primo credito di 10 milioni di dollari per un'istituzione che rimpiazzasse l'OIR. Così la Conferenza di Bruxelles (5 dicembre 1951) diede vita al Comité Intergouvernemental Provisoire des Mouvements Migratoires d'Europe (CIPMME o PICMME), che avrebbe dovuto funzionare a titolo sperimentale per 11 mesi. Dei 23 Stati partecipanti, 14 sottoscrissero l'atto di nascita del nuovo organismo, tra cui l'Italia. La risoluzione di Bruxelles si fondava sulla persuasione che esistesse uno stretto rapporto tra il problema dello sviluppo economico e quello dell'emigrazione, ribadendo così una posizione teorica già largamente condivisa, e dava mandato al nuovo organismo di trovare rimedio all'eccedenza della popolazione europea e alla penuria di mano d'opera nei paesi d'oltremare; non soltanto dunque in America, ma anche in Oceania, in Africa e in Asia.
Trascorso il periodo sperimentale previsto, il PICMME si trasformò nel Comité Intergouvernemental pour les Migrations Européennes (CIME o ICEM). Intanto un imponente movimento favorevole all'immigrazione si andava determinando nel continente americano. Nell'agosto del 1953 il presidente Eisenhower firmò il Refugee relief act (RRA), in base al quale 209.000 rifugiati europei avrebbero potuto essere accolti negli Stati Uniti; il Brasile presentò un piano per l'immigrazione di 3.370 famiglie d'agricoltori nel periodo di un anno; l'Argentina mise a disposizione dei coloni europei 250.000 ettari di terra e proposte analoghe vennero dal Venezuela e dal Cile.
Il problema assumeva così proporzioni tali da superare le possibilità del CIME. Intanto l'attuazione di questo complesso di piani esigeva la disponibilità di capitali ingentissimi, che avrebbero dovuto essere forniti dai governi interessati. Inoltre altri problemi di straordinaria complessità si aggiungevano a quello dei mezzi finanziari necessari allo sfruttamento delle terre dell'America Latina. I trasporti si dimostravano ancora una volta importanti; ma ancora più importante era la questione dei profughi, che si andavano nel frattempo moltiplicando, e della non corrispondenza tra la qualità della mano d'opera disponibile e quella richiesta.
Nell'atto costitutivo del CIME, ratificato il 30 novembre 1954, i compiti del nuovo ente venivano identificati in due punti essenziali. In primo luogo esso doveva assicurare il trasporto degli emigranti; in secondo luogo doveva incrementare l'emigrazione europea con l'organizzazione dei servizi e delle provvidenze necessarie. Tuttavia il CIME non aveva poteri propri. Composto dai rappresentanti degli Stati che si erano obbligati a sostenere l'onere finanziario dell'emigrazione, ogni decisione era rimessa all'accordo tra i vari governi. Tra questi Stati possono distinguersi due gruppi diversi. Il primo, formato dai paesi d'oltremare interessati all'immigrazione (Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Federazione rodesiana, Nyassaland, Nuova Zelanda, Paraguay, Unione dell'Africa del Sud, Venezuela) riceveva tradizionalmente immigranti dalla Spagna, dall'Italia e, per il Brasile, dal Portogallo, oppure dalla Gran Bretagna, a seconda che si trattasse dei paesi dell'America Latina o del Commonwealth. Tutti questi paesi desideravano incrementare la loro immigrazione. Facevano eccezione gli Stati Uniti, che pure erano aderenti al CIME, e lo Stato d'Israele, l'unico che, essendo già sovrappopolato, desiderasse un ulteriore incremento di popolazione. Il secondo gruppo era formato da Stati europei (Belgio, Danimarca, Francia, Lussemburgo, Norvegia, Svezia e Svizzera).
La questione dei trasporti è quella che ha impegnato più severamente il CIME ed è stata risolta con la partecipazione dei vari Stati mediante contributi di diverso tipo (servizi, versamenti di somme corrispondenti al numero dei trasportati o forfettarie). All'emigrante è stata in genere richiesta una partecipazione alle spese, sia per alleviare l'onere sopportato dallo Stato, sia per accertare quanto fosse seria la determinazione di coloro che decidevano di abbandonare il proprio paese. Tuttavia questo calcolo non si è rivelato del tutto fondato, come dimostrano le statistiche, se con esso si volevano evitare il più possibile i ritorni dopo un certo periodo di permanenza all'estero. Il concorso degli interessati alle spese di trasporto non può mai controbilanciare efficacemente il desiderio di ritornare in patria. L'unica ragione che possa impedire tale ritorno è la convenienza a restare all'estero per le condizioni economiche e ambientali e per la possibilità di integrarvisi. Un elemento molto importante a questo fine è perciò la preparazione professionale e la conoscenza della lingua, alle quali provvedeva pure il CIME nei limiti delle sue possibilità finanziarie.
Sotto il profilo dell'assistenza, si sogliono distinguere gli emigranti in più categorie: coloro che sono assistiti dallo Stato di appartenenza (come nel caso dell'Italia, della Gran Bretagna, dell'Olanda); coloro che sono assistiti da un accordo internazionale bilaterale o da organismi internazionali quale il CIME (che dava il suo aiuto esclusivamente a coloro che altrimenti non avrebbero potuto emigrare); infine i cosiddetti ‛spontanei', che non richiedono l'aiuto di alcuno. Per rendere più evidenti le modalità dell'emigrazione sotto questo profilo, si esaminino i prospetti che seguono:
Per quanto riguarda l'Italia si deve ricordare che, con la fine della seconda guerra mondiale, le disposizioni che avevano regolato l'emigrazione durante il fascismo vennero radicalmente modificate. Il 26 dicembre 1946 viene istituita la Direzione generale dell'emigrazione, con competenza per la stipulazione degli accordi internazionali concernenti l'emigrazione e il lavoro, la previdenza e l'assistenza sociale, in collegamento col Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, e la vigilanza sui servizi di tutela e di collocamento degli emigranti. Un Ispettorato di frontiera per gli Italiani all'estero esercita la tutela e il controllo degli emigranti all'imbarco e vigila sui servizi delle navi addette al trasporto. Presso le ambasciate italiane all'estero vi sono dei ‛consiglieri per l'emigrazione', al fine di studiare il mercato del lavoro e vigilare sull'osservanza degli accordi relativi al lavoro e alle assicurazioni sociali. L'assistenza ai lavoratori e alle loro famiglie per quanto riguarda le pratiche relative all'emigrazione, nonché l'esame delle domande di espatrio, sono di competenza degli uffici regionali e provinciali del lavoro in base al DLL del 15 aprile 1948. Il 19 marzo 1955 venne istituito un servizio per l'avviamento e la tutela degli emigranti, poi soppresso nel 1962. Il Ministero del Lavoro provvede anche a organizzare visite selettive e di controllo, a predisporre viaggi gratuiti ai centri d'emigrazione, a fornire vitto e alloggio gratuito durante il viaggio e la sosta nei centri d'emigrazione e durante il viaggio di ritorno dai detti centri per coloro che non sono stati accettati e il vitto e il viaggio gratuito ai rimpatriati. Anche agli ‛spontanei' che espatrino con atti di chiamata e contratti individuali di lavoro, viene garantita la stessa assistenza e così ai lavoratori organizzati in cooperative destinate a operare all'estero. La legislazione italiana detta anche norme per il trasporto degli emigranti nei paesi d'oltremare per quanto riguarda i noli, il rilascio dei biglietti e le condizioni igieniche e sociali del viaggio.
La politica degli Stati Uniti è stata parte determinante per il movimento migratorio mondiale e deve essere perciò oggetto di una particolare attenzione. Ciò è dipeso da alcune circostanze, e in primo luogo dal peso economico e politico della grande potenza d'oltre Atlantico. Ma altre circostanze vi hanno concorso. Intanto l'impotenza dimostrata dagli organismi internazionali, la Società delle Nazioni prima e l'Organizzazione delle Nazioni Unite poi, a dare una soluzione a un problema che ha tanta incidenza sulle condizioni economiche e sociali del mondo intero; in secondo luogo l'imitazione della politica degli Stati Uniti in questo settore da parte di molti altri paesi.
Gli Stati Uniti, come sappiamo, furono indotti a mutare radicalmente la loro politica nei confronti dell'immigrazione dalla grande crisi del 1929. Ma la crisi non fu il solo fattore che contribuì a modificare un atteggiamento che non era più compatibile con lo sviluppo industriale del paese. Anche se le restrizioni più drastiche furono in parte adottate per motivi ideologici e psicologici senza fondamento reale, il criterio di una selezione nell'ammissione della mano d'opera straniera si fondava su valide ragioni ed era irreversibile. Ciò ha del resto promosso nei singoli paesi d'emigrazione una più seria considerazione delle condizioni di preparazione degli emigranti, il che è stato certo vantaggioso per tutti. L'adozione di criteri selettivi venne imposta dal Congresso americano, e non sempre le giustificazioni di tale politica sono apparse accettabili. Gli sforzi dei capi dell'esecutivo per contrastare questa tendenza hanno ottenuto, nella maggior parte dei casi, soltanto dei risultati parziali e temporanei. Se il Congresso votò, per iniziativa presidenziale, il Displaced persons act nel 1948 e il Refugee relief act nel 1953, ciò accadde sotto la pressione di eventi eccezionali e di particolari emozioni. Anche l'United States Escapee Program (USEP), promosso dal presidente Truman nel marzo 1952 e giustificato con gli aiuti da prestare ai fuggiaschi dall'Unione Sovietica, fu accettato per le ragioni politiche che sottendeva e non rappresentò in alcun modo l'indizio di un mutamento di rotta dell'atteggiamento nei confronti dell'immigrazione.
La conferma di ciò si ebbe quando, scaduta la legge fondamentale del 1924, il Congresso approvò il 27 giugno 1952 la legge McCarian-Walter (Immigration and nationality act), che rinnovava la disciplina allora scaduta. Per reazione a questo atteggiamento del Congresso, che non tenne conto del veto espresso dal presidente, Truman creò una commissione presieduta da Ph. B. Perelman per la redazione di un piano d'immigrazione fondato su nuovi criteri. Questi criteri possono essere così formulati: 1) il sistema delle quote avrebbe dovuto essere abolito e sostituito con un unico contingente che non prevedesse alcuna discriminazione; 2) il contingente avrebbe dovuto corrispondere all'1% della popolazione degli Stati Uniti; 3) un'amministrazione autonoma avrebbe dovuto curare le questioni dell'emigrazione e della naturalizzazione; 4) i visti sarebbero stati annualmente distribuiti secondo questi cinque criteri: diritto d'asilo; riunione delle famiglie; bisogni degli Stati Uniti; bisogni del mondo libero; immigrazione in generale; 5) nei primi tre anni avrebbe dovuto essere concessa la priorità all'ammissione di 100.000 profughi; 6) l'approvazione dei visti avrebbe dovuto essere riveduta ogni tre anni.
Nel novembre del 1952 diventò presidente Eisenhower e il 7 agosto 1953 firmò un progetto di legge che avrebbe permesso l'ingresso negli Stati Uniti a 209.000 profughi entro il 31 dicembre 1956 e avrebbe concesso uno statuto permanente a 5.000 persone che si trovavano già nel territorio degli Stati Uniti (Refugee relief act). La legge fu aspramente osteggiata, anche se l'emozione suscitata dai fatti di Budapest facilitò la concessione di tutti i visti preventivati.
Inoltre, in un messaggio del 31 dicembre 1957, un anno dopo la scadenza dell'RRA, Eisenhower proponeva il ritorno a una politica immigratoria liberale, che non facesse distinzioni tra ‛rifugiati' e normali immigranti, tra leggi eccezionali e temporanee e leggi fondamentali e permanenti, tra interessi interni e protezionistici e interessi mondiali e liberali. Ciò non significava, tuttavia, il ritorno a un'immigrazione libera. Nel messaggio si raccomandava infatti che il livello dell'immigrazione fosse elevato a 219.000 visti all'anno; che il calcolo dei contingenti fosse fatto sull'ultimo censimento del 1950 e che tali contingenti fossero distribuiti proporzionalmente in base alla media dell'immigrazione effettiva tra il 1924 e il 1955; infine che i visti non utilizzati non andassero perduti.
Che questo indirizzo dell'esecutivo non fosse arbitrario ma corrispondesse alla formazione di una nuova coscienza sociale è del resto confermato dal mutato atteggiamento della potentissima CIO (Congress of Industrial Organization). Il suo presidente, Ph. Murray, criticando la legge McCarran-Walter, rilevava che essa era contraria agli interessi degli Stati Uniti in quanto si fondava sul pregiudizio che l'immigrazione diminuisse le possibilità di lavoro ed ostacolasse lo sviluppo economico. Murray sosteneva invece che l'immigrazione era stata uno dei fattori che avevano rafforzato lo slancio dell'economia americana e che perciò il suo livello doveva essere elevato da 300.000 a 600.000 unità annue, a seconda della congiuntura. Contemporaneamente a questo atteggiamento sindacale si è andata formando una nuova e autorevole corrente dottrinale (O. Handlin, M. L. Hansen, M. Konvitz, W. Petersen) per la quale la ‛nuova immigrazione' non ha snaturato la ‛vecchia', ma si è adeguata a essa e il pluralismo culturale derivante dalla molteplicità delle fonti immigratorie non ha costituito un inquinamento della cultura degli Stati Uniti, ma un suo arricchimento.
5. Le migrazioni intraeuropee
Ancora oggi il problema del rapporto tra le migrazioni oltremare e quelle intraeuropee è oggetto di valutazioni diverse. Soprattutto l'istituzione del MEC ha indotto molti a pensare che una maggiore integrazione delle economie europee avrebbe avuto per effetto di ridurre drasticamente l'emigrazione europea oltremare. Queste considerazioni sono state vivacemente contestate da alcuni autori, che ritengono invece che migrazioni intraeuropee ed emigrazioni extraeuropee siano complementari. A riprova di ciò si è notato che nel 1957 i movimenti intraeuropei sono raddoppiati rispetto all'anno precedente, e contemporaneamente il movimento dell'emigrazione oltremare è cresciuto del 15%. La valutazione di questi due movimenti migratori, già estremamente complessa in sé, lo è ancor più quando si voglia metterli in relazione tra loro. Vi concorrono infatti fattori economici, politici e psicologici che, a parte ogni altra considerazione sulla loro validità e consistenza, non sono delle costanti, ma delle variabili in rapporto a situazioni di volta in volta diverse.
È però comunque necessario rilevare le considerevoli dimensioni del fenomeno migratorio all'interno dell'Europa. Queste dimensioni dipendono dal grande divario che esiste tra le diverse economie dei paesi europei. Tali differenze erano ancora esistenti quando il MEC fu istituito, anche se la situazione dell'Europa nel suo complesso, e considerata paese per paese, era certamente diversa da quella dell'immediato dopoguerra. Uno sguardo al tasso di disoccupazione nel 1958 è istruttivo a questo riguardo. L'Italia aveva un tasso di disoccupazione del 10% (3,3% nel 1975), l'Olanda dello 0,9% (3,2% nel 1975), la Francia dello 0,5% (3,2% nel 1975), la Svizzera dello 0,1%. Accanto all'Italia altri paesi, come la Spagna, il Portogallo e la Grecia soffrivano di un eccesso di popolazione mentre gli altri paesi qui ricordati, avendo una disoccupazione al di sotto del 3%, presentavano una mancanza di mano d'opera tale da incidere negativamente sulla loro produttività.
L'importanza della Francia (49.800.000 abitanti secondo il censimento del 1968) come paese d'immigrazione è stata di recente posta in rilievo dagli studiosi. Tuttavia la valutazione delle conseguenze dell'immigrazione è stato un tema vivamente dibattuto nell'opinione pubblica francese e ha provocato contrasti di fronte ai quali il governo non ha mai preso una posizione netta. Insomma, non v'è stata in Francia una politica nei confronti dell'immigrazione. V'è stata, invece, una spiccata ostilità popolare, che si è andata accentuando nei periodi economicamente più difficili. Anche il padronato industriale non ha avuto un atteggiamento univoco. Le difficoltà che si incontrano per sostituire una mano d'opera già sperimentata hanno condizionato, per es., l'industria mineraria, che si è sforzata in ogni modo di favorire la stabilità degli elementi Italiani, Spagnoli e Polacchi che vi erano impiegati. Dal punto di vista sociale, però, i metodi adottati per raggiungere questo fine non si sono dimostrati efficaci, perché la creazione di vere e proprie città autonome, per es. di immigrati polacchi, è apparso un ostacolo molto serio all'assimilazione di quei lavoratori al resto della popolazione. La Francia, dopo la prima guerra mondiale, era diventata il secondo paese del mondo per l'immigrazione, avendo raggiunto intorno al 1920 circa 2 milioni di immigrati e, dopo l'U. S. restriction act, addirittura il più importante. Nel 1931 v'erano in Francia 900.000 Italiani, 500.000 Polacchi, 330.000 Spagnoli e oltre 300.000 Belgi. Dopo la seconda guerra mondiale la Francia ha adottato una politica restrittiva, limitando l'immigrazione alle branche d'attività nelle quali la mano d'opera si dimostrasse insufficiente (agricoltura, miniere, edilizia, siderurgia e servizi domestici) e condizionandola al possesso di una qualificazione professionale. Non pochi studiosi ritengono questa politica restrittiva il risultato di considerazioni non prettamente economiche. Se si prescinde dalla grande recessione che affligge attualmente tanta parte del mondo industrializzato, la Francia ha sempre avuto un notevole deficit di forze di lavoro, che ha agito da freno al suo sviluppo. Nonostante ciò l'opinione pubblica francese ha costantemente manifestato una certa xenofobia e i sindacati operai hanno motivato la loro ostilità all'immigrazione non solo con l'argomento corrente che essa provocherebbe un ribasso dei salari, ma anche col fatto che gli stranieri sarebbero pericolosi per la sicurezza nazionale. Ciò ha determinato in un primo periodo la riluttanza degli operai italiani a far parte dei sindacati, riluttanza che fu poi superata attraverso l'opposizione al fascismo. Così, dopo la seconda guerra mondiale, gli Italiani, prima assimilati e poi naturalizzati, sono diventati parte attiva della Confédération Générale du Travail.
L'atteggiamento della Repubblica Federale Tedesca (61.670.000 abitanti nel 1972) nei confronti del problema dell'immigrazione e dell'emigrazione è stato ed è molto diverso da quello della Francia. L'accrescimento naturale della sua popolazione è inferiore a quello francese (0,7% secondo le cifre del 1972), ma l'affluenza dei profughi è stata imponente anche durante gli anni cinquanta, determinando un tasso di incremento della popolazione superiore a quello di qualsiasi paese dell'Europa occidentale. Nel 1957 vi si rilevava una carenza di mano d'opera, dato che il numero dei disoccupati (500.000 circa) era inferiore al 3% delle forze di lavoro. La politica della Germania non è mai stata favorevole all'emigrazione. Mentre prima della seconda guerra mondiale la Germania esportava un alto numero di lavoratori, dopo la sua divisione in Repubblica Federale e Repubblica Democratica Tedesca sono intervenuti dei motivi psicologici ed economici che hanno frenato il movimento migratorio. Allo sforzo affrontato dalla Germania Federale per accogliere i profughi dall'Est si è aggiunto l'impegno di reintegrare i rifugiati nella loro patria. Ciò si è tradotto in aiuti e incoraggiamenti continui rivolti a quei profughi che decidevano di restare, o almeno di non emigrare oltreoceano, mentre l'emigrazione in Europa non è stata ostacolata con lo stesso impegno, evidentemente perché la si considerava come non permanente. Inoltre la Germania, la quale, come si è detto, ha penuria di mano d'opera, ha continuato ad accogliere lavoratori stranieri.
Anche l'Olanda (12.720.000 abitanti nel 1972), che ha la più alta densità di popolazione in Europa (326 abitanti per km2 nel 1972), è favorevole all'emigrazione, sia perché sovrappopolata, sia perché la perdita delle colonie d'oltremare, altermine del secondo conflitto mondiale, ha portato in Olanda una massa di profughi ai quali il governo si è impegnato a trovare lavoro; in alcuni momenti l'arrivo dei profughi è proceduto al ritmo di 7.000 unità al mese. Il programma d'emigrazione, che avrebbe dovuto comprendere 40.000 unità all'anno, era dunque inferiore all'incremento di popolazione dovuto al rientro dei profughi; inoltre l'attuazione del programma è rimasta notevolmente al di sotto degli obiettivi fissati, in quanto il movimento migratorio è stato quasi controbilanciato, nonostante l'ottima preparazione professionale dei lavoratori olandesi, dal ritorno in patria di una parte notevole di quanti erano emigrati.
La situazione dell'Italia è radicalmente diversa. Nel 1972, la popolazione italiana era costituita da 54.350.000 abitanti, con una densità di 180 ab. per km2. Nello stesso anno la popolazione attiva era formata da 19.733.000 unità, delle quali il 19,5% era impiegato nell'agricoltura e il 44,1% nell'industria; nonostante ciò, vi erano nello stesso periodo 697.000 disoccupati, senza contare i sottoccupati e i lavoratori stagionali. Questo spiega lo sforzo del governo italiano per incrementare l'emigrazione.
L'emigrazione italiana si è svolta e si svolge sia come trasferimento temporaneo di lavoratori stagionali che si recano in altri paesi europei, sia come emigrazione oltremare. Le tabelle che seguono possono dare un'immagine di questo andamento.
Dal 1958 al 1975 si veda la tab. III.
A questi dati si possono aggiungere, a titolo indicativo, alcuni rilievi di cui disponiamo per il 1967 relativi agli espatri e ai rimpatri, distinti a seconda dei paesi e delle professioni.
Gli espatriati sono stati 229.264 e si possono distinguere percentualmente nel modo seguente a seconda del paese di destinazione: Francia 6,8; Repubblica Federale Tedesca 20,6; Svizzera 39,0; altri paesi europei 6,3; paesi extraeuropei 27,3.
I rimpatriati sono stati 169.320 e anch'essi si possono così suddividere: Francia 6,1; Repubblica Federale Tedesca 33,6; Svizzera 47,5; altri paesi europei 6,7; paesi extraeuropei 4,1.
Gli espatriati si possono così distinguere a seconda delle professioni: agricoltori e lavoratori forestali 12,4; meccanici 5,5; edili 35,1; altri 21,1; casalinghe 11,5; altri lavoratori non professionali 14,4.
Per quanto riguarda i rimpatriati: agricoltori e lavoratori forestali 12,6; meccanici 6,3; edili 43,8; altri 22,6; casalinghe 5,7; altri lavoratori non professionali 9,0.
Queste cifre invitano a qualche considerazione. Intanto sappiamo, completando con quelli dei primi 8 anni i dati che si riferiscono al movimento migratorio e distinguendo tra quello verso i paesi europei e quello verso le terre d'oltremare, che gli emigrati dall'Italia dal 1869 al 1975 ammontano a 21.445.000, di cui 11.829.000 in Europa e 9.616.000 oltreoceano. La prevalenza degli Stati Uniti come paese di destinazione, ancora attuale nel 1930, ha subito una brusca flessione fino al 1946, per risalire progressivamente fino a superare quella verso l'Europa dal 1948 (110.146 contro 89.038) al 1956 (135.372 contro 85.674). Da quel momento, però, essa è andata perdendo costantemente terreno e si è verificata una netta inversione di tendenza a favore dell'emigrazione europea, per quanto anch'essa abbia cominciato a declinare nettamente dal 1967, seguendo la generale contrazione, ulteriormente acutizzata di recente (1973-1975), a causa della recessione dell'economia. Dei mutamenti notevoli possono inoltre segnalarsi nella distribuzione del flusso dell'emigrazione verso i paesi europei, con una certa tendenza, tra il 1958 e il 1970, a una riduzione dell'emigrazione verso la Francia e la Svizzera e a un aumento di quella verso la Germania. Altissime sono, però, le cifre relative ai rimpatri, il che costituisce una caratteristica dell'emigrazione italiana (ma non soltanto italiana) e una tendenza costante, almeno a partire dal 1958.
6. Le migrazioni interne
Una descrizione del fenomeno migratorio nel suo complesso non sarebbe esauriente se, oltre alle migrazioni oltremare e a quelle intraeuropee, non comprendesse anche le migrazioni interne. Ciò non dipende soltanto da motivi connessi alla completezza dell'informazione ma da ragioni sostanziali. I movimenti migratori, siano essi della prima, della seconda o della terza specie, sono causati prevalentemente da motivi economici quando, come normalmente avviene, la migrazione riguardi le forze di lavoro in cerca di una situazione economica e psicologica più soddisfacente. La differenza tra sviluppo demografico e sviluppo economico delle aree tra le quali avviene lo spostamento di popolazione è il comune fondamento di ogni fenomeno di migrazione; inoltre, tra migrazioni oltremare, intraeuropee e interne v'è una relazione di interdipendenza, mentre tra quelle che avvengono tra i paesi del Mercato Comune e quelle che si verificano all'interno di ciascuno di essi v'è una più stretta assimilazione, dovuta alla libera circolazione della mano d'opera nell'uno e nell'altro caso.
Le migrazioni interne provocano una redistribuzione della popolazione che è particolarmente rilevante laddove lo sviluppo economico connesso con la civiltà industriale ha fatto dei grandi centri urbani dei poli di attrazione per la popolazione delle campagne. Ciò ha sollevato problemi imponenti, connessi alla possibilità stessa dei centri urbani di ospitare convenientemente un numero sempre crescente di persone. L'economia urbana non è stata di solito in grado di assorbire questo flusso, più rapido delle sue possibilità di sviluppo e causa di gravi difficoltà economiche e amministrative, nonché di profonde crisi sociali e morali. Per questa ragione molti paesi del mondo occidentale, la Gran Bretagna, la Francia, la Repubblica Federale Tedesca, l'Olanda, gli Stati Uniti e l'Italia, hanno adottato una politica intesa a disciplinare la distribuzione interna della popolazione pur nel rispetto della libertà individuale. Tali provvedimenti restrittivi, ad esempio quelli adottati dalla legislazione italiana fino al 1961, hanno creato tuttavia essi stessi gravi inconvenienti, come l'aumento delle migrazioni clandestine, della delinquenza e così via. La fenomenologia connessa agli spostamenti interni della popolazione è però diversa a seconda che si tratti di paesi ad alta pressione demografica, come l'Italia, o di altri altamente industrializzati che appartengono pure all'Europa occidentale, nei quali il lento incremento della popolazione e il conseguente elevamento dell'età media hanno funzionato da freno rispetto alle esigenze dell'economia. Nonostante ciò vi sono paesi, come la Svezia, nei quali l'inurbamento da parte della popolazione delle campagne in pochi grandi centri ha assunto dimensioni preoccupanti.
Le migrazioni interne in Italia, modeste nel periodo anteriore al 1902, che è peraltro l'anno a partire dal quale si cominciano ad avere dati certi, sono andate da quel momento crescendo, se si eccettuano gli anni corrispondenti alle due guerre mondiali, fino a raggiungere il livello massimo nel 1962, con 2.196.000 unità; dopo tale data ha avuto inizio un lento declino.
Un'analisi delle migrazioni interne italiane deve muovere anzitutto dalla determinazione delle unità territoriali tra le quali il movimento si verifica: province, regioni e ripartizioni (tra regioni nordoccidentali, nordorientali e centrali, meridionali e insulari).
Secondo i dati offerti da G. Galeotti (v., 1971), nel 1962, anno in cui più intense furono le migrazioni interne, il movimento intraprovinciale era costituito da 1.077.000 unità, pari al 49%; quello intraregionale 1.440.000, pari al 65,6% (ridotto a 363.000 = 16,6% se depurato del precedente); quello intraripartizionale 1.641.000, pari al 74,7% (ridotto a 201.000 = 9,1% se depurato di quello intraregionale). La migrazione di proporzioni più imponenti è quella che si verifica tra l'Italia meridionale e l'Italia nordoccidentale. Segue quella tra l'Italia orientale e centrale e quella nordoccidentale.
La corrente proveniente dall'Italia nordorientale e centrale diretta verso l'Italia nordoccidentale era prevalente fino al 1960; ma da quell'anno il Mezzogiorno ha preso il sopravvento, fino a raggiungere nel 1970 il 75,9% del totale. Questa prevalenza esprime il fenomeno che va sotto il nome di ‛meridionalizzazione' della popolazione italiana, che segue quello detto di ‛venetizzazione'. Il fenomeno, legato a cause complesse che possono riassumersi nello squilibrio demografico e nel divario economico esistente tra nord e sud, è stato stimolato dal grande sviluppo industriale dell'Italia settentrionale verificatosi dopo la seconda guerra mondiale. Per quanto l'apporto di nuove forze di lavoro là dove ve n'era maggior bisogno abbia provocato un incremento del reddito globale, gli aspetti positivi e negativi di questa migrazione sono stati sottoposti a una critica che non ha trovato tutti concordi e che per molti aspetti richiama le polemiche sollevate nei paesi di immigrazione. In particolare, le polemiche sull'abbassamento del livello dei salari nelle regioni di immigrazione a causa della maggiore offerta di forze di lavoro, ricordano le obiezioni sollevate a più riprese negli Stati Uniti e in certi paesi europei di fronte all'immigrazione proveniente dall'Europa meridionale. Per quanto riguarda le migrazioni interne italiane, si può concludere che l'aumento della produzione nelle regioni di arrivo ha rappresentato un vantaggio per l'economia italiana nel suo complesso; ma si deve anche aggiungere che un più equilibrato sviluppo economico e sociale dell'Italia è legato a quello delle regioni meridionali e insulari e specialmente all'incremento della loro industria agricola.
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Migrazioni degli animali
di Otto von Frish
sommario: 1. Introduzione. 2. Insetti. 3. Pesci. 4. Anfibi e Rettili. 5. Uccelli. 6. Mammiferi. a) Mammiferi marini. b) Mammiferi terrestri. c) Mammiferi volanti. 7. Il vagabondaggio. 8. L'orientamento. 9. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Le migrazioni degli animali sono antiche come gli animali stessi. Molto probabilmente, da quando la terra si è popolata di animali capaci di muoversi, questi animali, o perlomeno molti di essi, hanno compiuto migrazioni, piccole o grandi, così come avviene ancora oggi.
Le migrazioni degli animali sono determinate da leggi biologiche. Esse sono dirette alla conservazione della specie. Per questo fine, non ha importanza che gli spostamenti siano di migliaia di chilometri, oppure brevi. Fino a oggi non è stata fissata una distanza precisa al di sotto della quale uno spostamento da un luogo a un altro non possa essere definito una vera e propria migrazione. In genere gli uomini vengono maggiormente colpiti e impressionati dagli animali che compiono lunghe migrazioni, tra i quali si annoverano soprattutto alcune specie di uccelli e di animali marini. Tuttavia dobbiamo considerare come piccole migrazioni anche gli spostamenti che gli animali compiono dal luogo dove dormono a quello dove trovano il cibo, o dal luogo dove bevono alle zone di pascolo, perché queste forme di migrazione sono determinate dallo stesso tipo di istinto che provoca quelle su distanze maggiori.
Molti problemi riguardanti le migrazioni degli animali sono stati chiariti negli ultimi decenni, molti però sono ancora insoluti e continuano a creare grosse difficoltà agli studiosi. Il testo che segue può solo offrire una rapida sintesi dei risultati raggiunti in questo campo di ricerca e dei problemi ancora insoluti. I quattro principali fattori che determinano le migrazioni sono: spazio, cibo, clima e riproduzione. Come vedremo, non è sempre possibile separare questi fattori l'uno dall'altro. Assai spesso, essi sono strettamente intrecciati e reciprocamente connessi. In altri casi, invece, anche un fattore solo può essere determinante. Lo ‛spazio' di cui un animale ha bisogno per vivere viene determinato dalla disponibilità di cibo, dai nemici naturali e dai fabbisogni particolari della specie cui l'animale appartiene (per es. in rapporto all'ampiezza del territorio o al comportamento sociale). Se mutano le condizioni ambientali, se, per esempio, vengono eliminati i nemici di una specie, o se eventuali mutamenti del clima provoca- no una certa scarsezza di cibo, si determinerà un incremento della specie stessa che esorbita dalle condizioni dell'equilibrio naturale. Si può parlare di incremento effettivo soltanto qualora siano stati eliminati i nemici di una specie. Quando invece si determina una carenza di cibo, la popolazione di individui risulta eccedente unicamente rispetto al nutrimento disponibile. In entrambi i casi, sia di sovrappopolamento, sia di condizioni di esistenza sfavorevoli, gli animali sono costretti a spostarsi in luoghi più ricchi di cibo.
Anche un incremento naturale, restando immutate le condizioni dell'ambiente, può essere causa di migrazione, ed è anzi un fatto che si verifica spesso. Dopo essere diventati indipendenti, gli animali giovani hanno spesso l'abitudine di abbandonare il luogo d'origine e di distribuirsi nelle zone circostanti, per stabilirsi poi in località completamente diverse. In questo modo essi contribuiscono, da un lato, alla diffusione della specie e, dall'altro, al popolamento di zone non ancora sfruttate, le cosiddette nicchie ecologiche.
L'esempio più noto di migrazione determinata da un aumento eccessivo della popolazione è quello del lemming (Lemmus lemmus) degli altopiani scandinavi. L'ultima sua migrazione in massa si ebbe nel 1963; in quella occasione il numero degli animali in movimento era talmente grande che si verificarono dei blocchi stradali e i corpi degli animali morti inquinarono l'acqua potabile.
In casi di sovrappopolamento, la carenza di cibo ha, in genere, un ruolo secondario. In altri casi, il cibo è la causa principale che determina la migrazione. Gli uccelli, che in autunno si spostano in zone a clima temperato o tropicale, ma che covano nei paesi nordici, nel semestre invernale non riuscirebbero a trovare in questi paesi sufficiente nutrimento. Non è tanto il freddo in sè che li spinge a migrare, quanto la mancanza di insetti e di altri piccoli animali di cui si nutrono, dovuta alla bassa temperatura. Anche la siccità o i periodi di pioggia possono influire sulla disponibilità di cibo e possono spingere gli animali a evitare una zona per cercarne altre. La ricerca dell'acqua, specialmente nelle zone aride, costituisce un ulteriore motivo di migrazione.
Il clima varia col variare delle stagioni, in particolare nelle zone temperate degli emisferi. In tali zone si riscontra uno spostamento degli animali dalle aree di residenza estiva ai luoghi di svernamento, e questo può essere determinato direttamente dalla carenza di cibo, ma anche, indirettamente, dagli stessi mutamenti del clima. Al sopraggiungere dell'inverno, gli animali delle alte regioni alpine si spostano in zone più basse, dove trovano miglior riparo dalle valanghe, dalle tempeste di neve e dal freddo pungente. Gli animali acquatici scendono invece dagli strati superficiali dell'acqua in quelli più profondi, meno esposti al raffreddamento.
Gli animali che vanno soggetti a letargo invernale (o estivo) cercano in genere luoghi con microclima più o meno costante e talvolta compiono anche lunghi percorsi alla ricerca di località che presentino queste caratteristiche. Questo avviene, ad esempio, per certi tipi di pipistrelli o di insetti.
Il quarto fattore che molto spesso determina le migrazioni è la riproduzione. Lo scopo di queste migrazioni non è soltanto la ricerca di un compagno con cui accoppiarsi ma, anche e soprattutto, la ricerca di luoghi adatti per la prole. Alcune specie di pesci che vivono in acqua dolce vanno a deporre le uova in mare, altre fanno il contrario. Alcuni rettili, come le tartarughe marine, per deporre le uova devono uscire dall'acqua. I pinguini e le foche migrano fino alle coste e alle isole per deporre le uova o per partorire i piccoli.
Questa breve esposizione dovrebbe servire a chiarire in quale misura i quattro fattori: spazio, cibo, clima e riproduzione determinino l'istinto migratorio degli animali e in quale misura, per lo meno nella maggior parte dei casi, essi siano concatenati fra loro. Naturalmente, vi sono molti altri fattori ambientali che influenzano la vita comunitaria degli animali e determinano il loro comportamento; ma non è compito di questo saggio esaminare a fondo tali fattori e non sarebbe neppure possibile farlo.
2. Insetti
Le formiche che volano soltanto per un breve periodo della loro vita sono, tra gli insetti viventi sul suolo, quelli che compiono migrazioni. Molte specie di formiche nidificano in un posto fisso, dove portano materiale e cibo da luoghi vicini e lontani. Spesso questo traffico si svolge lungo vere e proprie ‛strade', che vengono sgomberate dalle stesse formiche per potersi spostare col loro carico più in fretta e con maggiore agilità. Le formiche americane del genere Atta percorrono distanze di 800 metri, trasportando al nido pezzetti di foglie che masticano per fare delle coltivazioni di funghi, i quali poi servono loro come cibo. Le formiche mietitrici (Messor), presenti anche nell'Europa meridionale, trasportano dai campi e dai prati semi di frumento e di erba nei loro nidi sotterranei. Numerosi sono gli esempi di questo tipo di migrazione, che ha la caratteristica di ricondurre gli individui sempre al punto di partenza, cioè al nido. Destano ancora più impressione i vagabondaggi delle formiche girovaghe, come quelle del genere Eciton in Sudamerica e quelle del genere Dorylus in Sudafrica. In queste migrazioni l'intera popolazione è perennemente in viaggio e porta con sè la covata. Pause di riposo si hanno soltanto quando la regina depone le uova e le larve si impupano (Eciton), o nel periodo che intercorre tra l'uscita delle larve dall'uovo e il raggiungimento del loro stato ninfale (Dorylus). Nel corso dei loro vagabondaggi le formiche migratrici assalgono tutto ciò di cui possono impadronirsi e nell'ambito di due settimane percorrono distanze di oltre 2.000 metri. Mentre le formiche del genere Eciton migrano solo di giorno, quelle del genere Dorylus viaggiano anche di notte.
Le migrazioni delle cavallette non sono affatto regolari, nè sono legate a determinate stagioni. Oggetto di particolare attenzione sono state soprattutto la cavalletta dei deserti (Schistocerca gregaria) dell'Africa Orientale e la cavalletta migratrice (Locusta migratoria) che vive in Africa e in Medio Oriente. Le loro eventuali migrazioni dipendono dal numero dei nati in un anno, fatto che a sua volta dipende dal cibo disponibile e dalle condizioni climatiche. Le larve crescono in costante contatto tra loro e sviluppano una maggiore attività già durante l'accrescimento e le mute, iniziando a migrare già a terra. Dopo l'ultima muta, le cavallette cominciano a sollevarsi da terra e la migrazione continua in volo. Uno sciame di cavallette in volo può comprendere diversi miliardi di individui e può essere lungo e largo parecchi chilometri, a seconda della direzione del vento e della sua intensità. Se non c'è vento, lo sciame può raggiungere la velocità di circa 16 km/h. Dove irrompe uno sciame di simile portata, viene distrutta tutta la vegetazione e si verificano quindi gravissimi danni ai raccolti; non c'e da meravigliarsi se oggi si ricorre all'impiego di qualsiasi mezzo per debellare la piaga delle cavallette.
Molto meno temibili per gli uomini sono le migrazioni delle farfalle: quando si raccolgono, le farfalle variopinte offrono spesso uno spettacolo affascinante. Le più note sono le farfalle monarca (Danaus plexippus) del Nordamerica, dalle ali di colore ruggine e nero. Esse trascorrono i mesi estivi nel Canada e nelle regioni settentrionali degli Stati Uniti. In settembre si spostano verso sud, e precisamente a oriente verso la Florida e il Texas, fino ad arrivare, lungo la costa occidentale, in California. Una volta giunte in luoghi con un clima particolarmente favorevole, le farfalle svernano in massa. Nei pressi di San Francisco vi sono degli alberi talvolta interamente ricoperti di farfalle, tanto che vengono chiamati ‛alberi delle farfalle'. In primavera, verso il mese di aprile, le farfalle monarca migrano di nuovo verso il nord, tornando ai loro luoghi di riproduzione. Le correnti migratorie si possono seguire contrassegnando le farfalle con pezzetti di carta colorata.
Ogni anno le farfalle testa di morto (Acherontia atropos) migrano dal sud verso l'Europa centrale e settentrionale, attraversando le Alpi; esse volano isolate e infine muoiono senza riuscire a tornare indietro. Oltre alle formiche, alle cavallette e alle farfalle, numerosi altri insetti compiono migrazioni. Come ultimo esempio ricordiamo la coccinella americana (Hippodamia convergens), che parte dai frutteti della California e sverna a circa 150 chilometri dal luogo di residenza estivo, a un'altezza di 1.700 metri circa s.l.m. Spesso milioni di questi insetti si concentrano in luoghi favorevoli per il letargo invernale, sotto legni o pietre.
3. Pesci
Se pensiamo alle migrazioni dei Pesci, vengono in mente soprattutto due esempi famosi. Il primo è quello dell'anguilla (Anguilla anguilla), il secondo quello della famiglia dei salmonidi (Salmonidae). L'anguilla europea cresce per alcuni anni in acqua dolce e nei ruscelli, fino a che non diventa adulta e matura per la riproduzione. Poi, seguendo i corsi d'acqua, raggiunge il mare dove inizia un viaggio che oscilla tra i 5.000 e i 10.000 chilometri, attraversando l'Atlantico per arrivare fino al Mare dei Sargassi, davanti al Golfo del Messico. Nella zona del Mare dei Sargassi galleggiano enormi distese di alghe (sargassi). A 400-500 metri di profondità le anguille trovano le migliori condizioni per la deposizione e lo sviluppo delle uova. A questo punto le anguille adulte muoiono, esauste per il lungo viaggio, durante il quale non si sono nutrite, e per la fatica della deposizione delle uova. Da queste hanno origine le larve, i leptocefali, che per la loro forma piatta e allungata prendono anche il nome di larve fogliformi; essi vengono presi e trasportati dalle correnti marine. La Corrente del Golfo li porta così, in circa tre anni, fino alle coste europee. Qui raggiungono un'ulteriore fase della loro vita, sono sottili e trasparenti e vengono chiamate ‛cieche'. Dalle coste marine le giovani anguille risalgono i fiumi per compiere la loro crescita nelle acque dolci, come tutte le generazioni che le hanno precedute.
Alcuni leptocefali vengono spinti anche verso le coste americane; pertanto l'anguilla nordamericana assomiglia molto a quella europea. Non è ancora stato accertato se le anguille europee raggiungano effettivamente il Mare dei Sargassi, o se, data la distanza più breve, soltanto gli esemplari provenienti dal Nordamerica arrivino a deporvi le uova; in questo caso tutte le anguille discenderebbero dagli esemplari nordamericani.
Il ciclo vitale dei salmonidi è l'opposto di quello delle anguille. I salmonidi crescono in mare e si riproducono in acqua dolce, nei corsi d'acqua freddi e limpidi di fiumi e ruscelli. All'età di un anno i piccoli salmoni migrano verso il mare, seguendo la corrente. Dopo alcuni anni, diventati adulti e sessualmente maturi, essi tornano al luogo d'origine. Il problema di come facciano a ritrovarlo è discusso più avanti nel cap. 8 (v. anche orientamento degli animali). Negli anni passati, ricercatori giapponesi e americani hanno catturato in mare aperto e contrassegnato migliaia di salmonidi. Una parte di questi pesci resi così chiaramente riconoscibili, vennero successivamente catturati di nuovo nei luoghi di riproduzione, o lungo il viaggio di ritorno; essi avevano superato, in mare, distanze fino a 5.000 chilometri.
Oltre alle migrazioni dei salmonidi e delle anguille sono state esaminate con particolare attenzione quelle di alcuni pesci di cui si nutre l'uomo. Fra questi, la passera di mare (Pleuronectes platessa) e l'aringa (Clupea harengus). Le passere di mare vivono nel Mare del Nord, vanno a deporre le uova allo sbocco orientale del Canale della Manica e poi tornano indietro. Le larve vengono trascinate verso il Mare del Nord da una corrente marina che va verso oriente e in prossimità delle coste passano poi nelle acque interne. Parte delle aringhe che vivono nel Mare del Nord e nell'Atlantico settentrionale si riproducono davanti alla costa norvegese. La Corrente del Golfo spinge le larve ancora più a nord, esse crescono e dopo circa quattro anni migrano verso il Mare del Nord, davanti all'Islanda, per ritornare poi, raggiunta la maturità sessuale, al luogo di riproduzione. In certi punti le correnti migratorie di alcune popolazioni di aringhe si incrociano. In questi luoghi, la pesca è particolarmente abbondante. Anche le migrazioni del tonno (Thunnus thynnus) sono state oggetto di studio degli zoologi fin dai tempi antichi: Aristotele ritenne che questi pesci entrassero nel Mediterraneo, attraverso lo stretto di Gibilterra, per andare a riprodursi nel Mar Nero, per poi ritornare nell'Atlantico donde erano venuti. Ricerche compiute nei primi decenni di questo secolo confermano questa ipotesi, pur ammettendo che molti individui compiono migrazioni più limitate (sempre in rapporto con la riproduzione) lungo le coste del Mediterraneo.
4. Anfibi e Rettili
Sono noti pochi autentici movimenti migratori degli Anfibi e dei Rettili terrestri, e quei pochi si verificano di rado. Si tratta per lo più di migrazioni trofiche e genetiche, come quelle dei rospi (Bufo bufo), che ogni anno, all'epoca della riproduzione, vanno alla ricerca di particolari stagni e laghetti. Una volta deposte le uova, i rospi abbandonano l'acqua e si spostano fino a tre chilometri nell'entroterra, trascorrendo il resto dell'anno in zone prevalentemente boscose. Analoghe migrazioni di portata ridotta vengono compiute da alcuni tritoni e salamandre (Salamandridae). L'iguana marina (Amblyrhynchus cristatus) e le due specie di iguane (Conolophus suberistatus e Conolophus pallidus) delle isole Galapagos migrano avanti e indietro tra le zone dove trovano il cibo e i luoghi di riposo. L'iguana marina si ciba di alghe che crescono sulle scogliere, per questo deve andare alla ricerca dell'acqua di mare e immergersi; altre specie di iguane si spostano invece dalle grotte in cui vivono ai luoghi dove possono nutrirsi di erbe e viceversa.
Migrazioni molto più estese vengono compiute dai rettili marini, in particolare da alcune tartarughe acquatiche come la ben nota tartaruga di mare (Chelonia mydas). Questi animali, perfettamente adatti alla vita acquatica, lasciano il mare esclusivamente per la deposizione delle uova. Esse si nutrono di alghe e di erbe marine che crescono nelle insenature dove l'acqua è poco profonda; i fondali dove trovano il cibo e le spiagge sabbiose pianeggianti dove depongono le uova sono spesso molto lontani fra loro. Le tartarughe marine che vivono davanti alle coste del Brasile compiono un viaggio di circa 2.000 chilometri, talvolta contro forti correnti, per arrivare all'isola di Ascensione, dove sotterrano le uova nella sabbia. È stato possibile studiare le loro correnti migratorie contrassegnando alcuni esemplari.
Anche le tartarughe d'acqua dolce sono animali migratori. Già gli indiani d'America notavano come, nell'epoca della riproduzione, enormi masse di tartarughe si concentrassero su certi banchi di sabbia del Mississippi e dell'Orinoco. Ciò che spinge queste tartarughe a risalire e a discendere a nuoto i fiumi, coprendo anche distanze molto lunghe, è con ogni probabilità la ricerca di zone particolarmente favorevoli allo sviluppo delle uova. Questa specie di tartarughe (Podocnemis expansa) viene oggi intensamente protetta, in quanto la caccia che era stata data in passato a questi animali e alle loro uova ne aveva ridotto il numero in maniera preoccupante.
5. Uccelli
Quasi tutti gli Uccelli volano e possono quindi superare, più facilmente di altri animali legati alla terra, le frontiere geografiche. Alcune specie di uccelli percorrono nelle loro migrazioni distanze superiori a quelle percorse da qualsiasi altro tipo di animale; oltre un terzo degli uccelli migrano con i cambiamenti di stagione. Da sempre i loro voli hanno affascinato gli uomini, ponendoli di fronte a una serie d'interrogativi, di cui solo pochi sono stati chiariti.
Sull'origine dei movimenti migratori le teorie principali sono due. La prima sostiene che, nel periodo glaciale, gli uccelli che vivevano nell'emisfero settentrionale sarebbero stati costretti a migrare in regioni più meridionali a causa del clima e della scarsezza di cibo. Col successivo ritrarsi verso il nord del limite delle nevi, gli uccelli si sarebbero nuovamente spinti in quella direzione. Ma occorre tenere presente che si verificano anche migrazioni dall'emisfero meridionale verso il nord, anche se sono poche le specie che oltrepassano l'equatore. La seconda teoria sostiene che gli uccelli si sarebbero spinti gradualmente dalle regioni meridionali verso nord, alla ricerca di cibo e di nuovi luoghi di cova, ma che, al sopraggiungere della stagione fredda, sarebbero stati nuovamente costretti a tornare a sud. Non è possibile dare una spiegazione sicura e univoca del fenomeno.
Oggi, grazie all'applicazione del metodo dell'‛inanellamento', che venne praticato per la prima volta e su vasta scala verso la fine del secolo scorso, disponiamo di maggiori informazioni sulle correnti migratorie, sulla durata delle migrazioni, sulle mete e sui luoghi di sosta degli uccelli. Dopo la cattura, si contrassegnano gli uccelli con un anellino metallico, applicato a una zampa, che porta inciso il nome dell'osservatorio ornitologico e un numero d'ordine; in caso di ritrovamento, quanto è scritto sull'anello permette di acquisire informazioni sull'età, la provenienza ecc.
Fattori esterni, come la durata del giorno e l'intensità della luce, e fattori interni, come la funzione delle ghiandole sessuali, concorrono nel determinare, nei singoli individui, l'epoca della migrazione. Quanto più l'area di cova di una determinata specie è spostata a nord, tanto minore sarà il tempo a disposizione per la cova e per l'allevamento dei piccoli. Nella tundra artica l'estate dura soltanto tre mesi. Gli uccelli vi approdano, dunque, solo a estate inoltrata e ben presto lasciano il luogo dove hanno covato, poiché le giornate si accorciano e il cibo comincia a scarseggiare. La sosta estiva è, in genere, più lunga nelle zone più meridionali, sebbene, anche qui, alcuni tipi di uccelli facciano soltanto una breve apparizione al tempo della cova. Il rondone (Apus apus) ne è un esempio; esso arriva soltanto in maggio nell'Europa centrale e in agosto riparte nuovamente.
Nel Sudamerica, alcune specie di uccelli che covano a terra, come diversi trampolieri delle famiglie dei pivieri (Caradriidae), delle beccacce (Scolopacidae) o delle rondini di mare (Sternidae), col sopraggiungere dei periodi di alta marea si vedono costretti, ogni anno, ad abbandonare i propri luoghi di cova. Essi migrano in altre zone per ritornare soltanto con la bassa marea. Nel viaggio che li porta ad allontanarsi dai luoghi di cova o di svernamento, gli uccelli mantengono, in genere, una precisa direzione di volo. Quelli che covano nel nord, volano in autunno da nord a sud o da nord-est a sud-ovest, e in primavera compiono il percorso inverso. La maggioranza degli uccelli vola in stormi a fronte largo (‛migrazione a fronte largo'), mentre singole specie continuano a seguire delle precise ‛vie di migrazione' più ristrette, tramandate da migliaia di generazioni (‛a fronte ristretto'). Quest'ultimo tipo di migrazione si osserva, per esempio, nella gru europea (Grus grus).
In determinate località geografiche (lungo le coste, nelle valli alpine o vicino ai paesi montani), le formazioni di uccelli a fronte largo si concentrano e possono assottigliarsi per formare delle apparenti ‛vie' di migrazione a fronte ristretto. Il fronte largo si restringe fino a formare un cono e successivamente torna ad allargarsi.
La maggioranza degli uccelli che viaggiano di notte volano isolati. I richiami sono l'unico mezzo di cui dispongono per mantenere con i loro compagni un debole collegamento. Gli uccelli che viaggiano di giorno hanno una maggiore inclinazione a volare in gruppi o in stormi. Le migrazioni degli uccelli avvengono ad altezze che variano da specie a specie. Raramente superano il chilometro, benché si sia osservato che anche piccoli uccelli possono raggiungere i 6.000 metri di altezza. La velocità che raggiunge un uccello nelle migrazioni dipende essenzialmente dalle condizioni atmosferiche e, soprattutto, da quelle del vento, oltre che, naturalmente, dalla dimensione corporea e dalla tecnica del volo caratteristica di ciascuna specie. I falchi volano a una velocità di 45-65 km/h, i pivieri e altri trampolieri a 60-80, le anatre a 85. Un voltapietre (Arenaria interpres) impiega 25 ore per percorrere un tratto di 800 chilometri; l'oca azzurra (Chen caerulescens) copre in sessanta ore la distanza di 2.700 chilometri, dalla Baia di James, nel Canada, fino alle coste della Louisiana.
Sono davvero sorprendenti le distanze che percorrono alcune specie di uccelli dalle zone di nidificazione alle aree di svernamento. La berta dal becco sottile (Puffinus tenuirostris) cova sulle isole tra l'Australia e la Tasmania. Terminata la cova essa traccia volando un gigantesco otto intorno all'Oceano Pacifico, in parte lungo le coste, ma, soprattutto, sorvolando il mare aperto. Per fare questo giro percorre 40.000 chilometri circa. La rondine di mare (Sterna paradisaea) cova nella regione artica del continente nordamericano, arriva ogni anno fino all'Antartide e torna poi indietro, compiendo un percorso di circa 15.000 chilometri. Queste specie di uccelli volano soprattutto lungo le coste; ma ne conosciamo altre che non traggono nutrimento dal mare e che, per raggiungere la loro meta, devono percorrere lunghi tragitti sul mare aperto, senza nessuna possibilità di nutrirsi o riposare. Il chiurlo tahitiano (Numenius tahitiensis) sverna nelle piccole isole di Tahiti, in mezzo al Pacifico. I suoi luoghi di cova si trovano nelle tundre montane dell'Alasca. Per giungervi e per tornare successivamente a Tahiti, questi uccelli devono percorrere circa 8.000 chilometri sul mare.
Anche gli uccelli europei che svernano in Africa compiono migrazioni di diverse migliaia di chilometri, a seconda della regione europea da cui partono e di quella africana a cui sono diretti. Le vie migratorie della cicogna (Ciconia alba) sono molto diversificate e dipendono dalla posizione geografica delle rispettive zone di cova europee. Le cicogne dell'Europa occidentale, in autunno, si spostano in Africa passando per la Francia occidentale, la Spagna e Gibilterra, mentre quelle dell'Europa orientale compiono un giro intorno al Mediterraneo verso est e, attraverso l'Egitto, raggiungono il Nilo. La linea di demarcazione che divide le due popolazioni corre all'incirca dall'Olanda alla Baviera. Nelle giovani cicogne la rispettiva direzione di volo è innata, come dimostrò a suo tempo un esperimento condotto dall'osservatorio ornitologico di Rossitten. L'esperimento si fece portando alcune giovani cicogne dell'Europa orientale nell'Europa occidentale, per poi lasciarle libere di volare, quando ormai le altre cicogne erano già ripartite. Le giovani cicogne si misero a volare istintivamente in direzione sud-est e, attraverso le Alpi e l'Italia, presero una via che le portò direttamente nel Mediterraneo, via che le cicogne non sono solite prendere, poiché, in genere, nelle loro migrazioni evitano il mare aperto.
Si può aggiungere ancora qualcosa sulle migrazioni dei pinguini (Sphenisci), uccelli che hanno perduto la capacità di volare e si sono adattati alla vita in mare. Essi vivono prevalentemente nell'Antartide, anche se, attraverso le correnti fredde del mare, alcune specie hanno potuto spingersi molto a nord, arrivando alle coste occidentali dell'Africa e del Sudamerica, e addirittura fino all'Australia e alle isole Galapagos, in prossimità dell'equatore. Questi animali si cibano soprattutto di pesci e di crostacei che trovano nelle acque fredde. Il pinguino imperiale (Aptenodytes forsteri) e il pinguino Adelia (Pygoscelis adeliae) covano sul continente antartico e sulle isole circostanti. In ottobre - la primavera antartica - i pinguini Adelia si spostano dalle zone del pack situate al di là dei tratti di mare solidamente ghiacciati, ai luoghi di cova. Se il mare è libero dai ghiacci fino alle coste, essi possono raggiungerle a nuoto, altrimenti devono affrontare delle marce sul ghiaccio lunghe dai 20 ai 100 chilometri. Una volta che le femmine hanno deposto le loro due uova, sono i maschi a portare avanti la cova, mentre le femmine tornano al mare, coprendo, a loro volta, distanze più o meno lunghe. Le femmine trascorrono circa due settimane in acqua, nuotando e mangiando a sazietà; poi tornano indietro e sostituiscono i maschi nella cova. C'è in questo periodo un continuo andirivieni; quando, a metà dicembre, i piccoli escono dalle uova, il ghiaccio è oramai abbastanza sciolto da permettere agli anziani di raggiungere il mare aperto dalle colonie di cova senza dover compiere ulteriori migrazioni.
Il pinguino imperiale cova il suo unico uovo sul ghiaccio, durante l'inverno antartico, tenendolo sulle zampe e riscaldandolo con l'aiuto di una tasca incubatrice. Questi uccelli, alti circa 1,20 m, raggiungono anch'essi il luogo di cova muovendo dalla zona del pack. Il periodo degli amori dura quasi due mesi, poi viene deposto l'uovo. In questo periodo, e anche dopo, i pinguini resistono al freddo pungente e alle violente tempeste di neve. Dopo aver deposto l'uovo, le femmine partono nuovamente verso il mare, percorrendo a volte più di 200 chilometri; lì mangiano a sazietà e tornano poi dal loro compagno solo quando il piccolo è già uscito dall'uovo. In loro assenza è il maschio che nutre il piccolo con una particolare secrezione del gozzo. Soltanto quando le femmine sono tornate, i maschi possono muoversi per andare a caccia. Anch'essi si assentano per un periodo di tre o quattro settimane e tornano col gozzo pieno di cibo per nutrire i piccoli. All'età di sei settimane i piccoli pinguini imperiali lasciano la tasca incubatrice dei genitori e, stringendosi l'uno all'altro, trovano riparo dal vento e dal freddo. Finalmente tutta la colonia si mette in marcia verso il limite dei ghiacci e il mare aperto.
6. Mammiferi
a) Mammiferi marini
I più grandi mammiferi oggi viventi sono le balene. La balenottera azzurra (Balaenoptera musculus) può raggiungere una lunghezza di 35 metri e un peso di 130 tonnellate. La balenottera comune (Balaenoptera physalus) raggiunge una lunghezza massima di 25 metri e un peso massimo di 70 tonnellate. Questi giganti e altre specie, come il delfino comune (Delphinus) e il delfino maggiore (Tursiops), abitano i mari e avevano una grande importanza economica già nell'antichità. La caccia alle balene su scala industriale ha reso concreto il pericolo dell'estinzione delle specie più colpite e ha determinato ricerche sempre più approfondite sui movimenti migratori di questi grossi mammiferi marini. Le balene polari migrano verso i luoghi ricchi del loro alimento principale, il cosiddetto Krill, costituito da piccoli crostacei lunghi 6 cm circa, che le balene filtrano dall'acqua attraverso i fanoni. Il Krill si trova in grossi banchi situati principalmente nelle fredde acque dell'Antartide; verso questa meta migrano appunto le balene polari, giungendovi al tempo dell'estate antartica. Quando, nell'inverno antartico, vaste zone di mare sono ricoperte dal ghiaccio, le balene devono spostarsi verso nord, poiché lo strato di ghiaccio impedisce loro di prendere aria in superficie. Esse migrano quindi fino alle zone tropicali e subtropicali, dove si accoppiano e mettono al mondo i piccoli; col ritrarsi del pack, possono nuovamente tornare al polo Sud. La megattera (Megaptera novaeangliae) migra rasentando le coste dei continenti. Queste sono anche le zone dove la pesca è più abbondante. La balenottera azzurra e la balenottera comune migrano entrambe in mare aperto. Con l'estendersi del pack, la balena azzurra, la balena comune e la megattera, si spostano dai mari nordici verso il sud. La balena grigia (Eschrichtius gibbosus) partorisce i piccoli nelle zone della costa messicana, dove l'acqua è poco profonda. Dopo qualche settimana abbandona questi luoghi per raggiungere il Mare di Bering attraverso il Pacifico settentrionale. Essa percorre una distanza approssimativa di 11.000 chilometri in 80-90 giorni circa.
Al contrario delle balene, le foche possono muoversi anche sulla terra e proprio sulla terra vanno quando devono partorire; anche questi mammiferi marini nuotano con grande agilità e quindi affrontano le lunghe migrazioni senza difficoltà. I maschi delle otarie orsine (genete Callorhinus) passano i mesi invernali nel golfo dell'Alasca. Al tempo della riproduzione, in estate, migrano verso le isole Pribilof, dove si conquistano un posto sulla terraferma e aspettano le femmine che hanno passato l'inverno a 5.000 chilometri di distanza, sulle coste della California. Un tempo le otarie orsine vivevano nelle acque tra la California centrale e il Giappone; oggi sono quasi del tutto scomparse, a causa della caccia che l'uomo ha dato loro per impadronirsi delle pelli.
Le foche che nuotano con maggiore agilità sono probabilmente i leoni marini, che possono restare immersi fino a quindici minuti, a una profondità di 100 metri. Il leone marino (Otaria byronia) trascorre la maggior parte dell'anno in mare aperto e viene a riva soltanto per la riproduzione, mentre altre specie di otarie preferiscono restare vicino alle coste anche se non sono nella fase della riproduzione.
b) Mammiferi terrestri
Nei mammiferi terrestri le migrazioni non costituiscono un'eccezione, anche se sono poche le specie che coprono percorsi lunghi dal momento che montagne, fiumi, laghi e deserti formano degli ostacoli naturali agli spostamenti. Tuttavia, come abbiamo già accennato all'inizio, le migrazioni possono essere rilevanti anche se non sono realizzate su lunghi percorsi; esse possono avere un fine ben preciso anche quando le vie migratorie sono relativamente brevi.
Fra i mammiferi più piccoli, migrano soprattutto alcuni roditori. Abbiamo già citato il lemming, ma anche il topo campagnolo (Microtus arvalis), quando si determina un sovrappopolamento, deve andare alla ricerca di nuove zone dove abitare e dove reperire il cibo, a meno che la popolazione non si riduca a causa di epidemie, come spesso accade.
In un primo momento questi animali si spostano verso i prati e i campi vicini. Se non trovano ancora spazio e cibo sufficienti, sono costretti ad andare più lontano, e spesso attraversano anche fiumi e laghi, fino a che non si esaurisce la spinta migratoria. Il ratto grigio (Rattus norvegicus) è molto robusto e, fra gli animali che conosciamo, è uno di quelli con maggiori capacità di adattamento; segue ovunque l'uomo e i suoi insediamenti. Attraversa i mari sulle navi, vive sia in aperta campagna che nelle grandi città, non teme l'acqua e, attraverso i sistemi di canalizzazione, penetra fin dentro le abitazioni. Non si riesce a scacciarlo facilmente dai suoi insediamenti, giacché impara con grande rapidità a sfuggire a qualsiasi tipo di trappola.
Un altro roditore, il ratto muschiato (Ondatra zibethica), che in origine viveva quasi esclusivamente nel Nordamerica e nel Canada, è arrivato a infestare in questo secolo gran parte dell'Europa centrale. Alcuni esemplari sono riusciti a scappare dalle fattorie dell'Europa orientale adibite al loro allevamento e si sono moltiplicati e diffusi su un territorio sempre più vasto, avendo trovato condizioni di esistenza favorevoli. Oggi il ratto muschiato ha già raggiunto le frontiere nordoccidentali della Germania. Nonostante ogni tentativo per debellarlo, non si riesce a evitare che la specie si diffonda e si moltiplichi.
Non si conoscono movimenti migratori dello scoiattolo (Sciurus vulgaris) dell'Europa centrale. Altri animali, che vivono prevalentemente nelle regioni settentrionali e occupano soprattutto le zone boscose, migrano, in genere, in relazione alla disponibilità di semi di conifere. Un tempo anche lo scoiattolo grigio americano (Sciurus carolinensis) che viveva in grossi branchi nelle zone boscose degli Stati orientali, compiva migrazioni in massa. In seguito a un notevole aumento numerico, milioni di scoiattoli hanno cominciato a migrare; il numero di questi animali è ora notevolmente diminuito, in particolare perché l'opera di dissodamento del terreno ha ridotto l'estensione dei boschi. Oggi lo scoiattolo compie solo, di tanto in tanto, piccoli spostamenti di poco conto, che non si possono certo paragonare alle migrazioni dei tempi passati.
Fra i mammiferi più grandi, quelli che compiono migrazioni stagionali sono soprattutto alcuni erbivori. La renna (Rangifer tarandus) che vive nell'Europa settentrionale e il caribù (Rangifer articus) del continente nordamericano alternano regolarmente le zone di residenza estiva con quelle di residenza invernale. Entrambe le specie trascorrono l'inverno in vaste zone boscose, dove si nutrono di licheni, di germogli e di ramoscelli dei cespugli e degli alberi. In primavera inizia il viaggio verso le tundre del nord, che possono essere distanti anche più di 1.000 chilometri, e nelle quali questi animali trovano fogliame, erbe e altri tipi di cibo. Durante le migrazioni, le renne e i caribù seguono percorsi antichissimi, attraverso i quali raggiungono la meta con istintiva sicurezza.
Nelle steppe fra il Don e il Volga vive l'antilope delle steppe (Saiga tatarica). Le migrazioni di questo animale vengono determinate essenzialmente dalle precipitazioni atmosferiche che nelle steppe regolano la disponibilità di vegetazione e quindi di cibo. Raramente si possono osservare percorsi migratori regolari e stagionali. Questa specie di antilope è quasi sempre in movimento; tuttavia, in primavera, all'inizio di marzo, aumenta stranamente la sua tendenza a spingersi verso nord. Talvolta 150.000 o addirittura 200.000 animali partono alla ricerca di zone erbose e semidesertiche (da secoli sempre le stesse) dove verranno poi messi al mondo i piccoli. Già in maggio le madri cominciano a dirigersi con i loro piccoli verso sud; quando, in estate, aumenta la siccità e il cibo scarseggia, lo stretto legame che univa i branchi si allenta e le antilopi Saiga si distribuiscono su territori più vasti. Negli inverni particolarmente rigidi esse si spingono anche in zone del sud molto lontane. Nell'era glaciale questi animali popolavano tutta l'Europa settentrionale e centrale; dopo la prima guerra mondiale hanno rischiato di scomparire completamente e solo con efficaci misure protettive il loro numero è potuto risalire a circa 300.000 unità diffuse prevalentemente nella steppa dei Calmucchi.
Meno buona è la situazione del bisonte (Bison bison) delle praterie nordamericane. Possiamo presumere che, prima della colonizzazione da parte dei bianchi, il numero di questi giganteschi animali che migravano per centinaia di chilometri alla ricerca di erba fresca si aggirasse sui 45-60 milioni circa. Dopo essersi ridotto a pochissime unità, il loro numero è oggi risalito a 12.000 esemplari che vivono nei parchi nazionali e nelle pianure dell'Arizona.
Un ultimo esempio di animali della steppa che compiono grosse migrazioni è quello degli ungulati africani. La zebra (Equus quagga), lo gnu (Connochaetes taurinus) e diverse specie di gazzelle, come la gazzella di Thomson e quella di Grant (Gazella thomsoni, Gazella granti), passano il periodo delle piogge, da ottobre a dicembre, nella pianura di Serengeti. Quando comincia la stagione asciutta, in maggio o giugno, i branchi si mettono in marcia verso nord-ovest e si distribuiscono su vasti territori, per tornare poi indietro solo nella stagione delle piogge dell'anno successivo.
Conoscere le migrazioni degli animali che abbiamo nominato (e di altri grossi animali) e conoscerne i percorsi è una condizione importante per la tutela di quelle specie che oggi riescono a sopravvivere quasi esclusivamente nelle riserve. E quindi necessario adattare i confini delle riserve ai movimenti migratori, altrimenti gli animali potrebbero varcare quei confini e sarebbero esposti a una caccia incontrollata da parte dell'uomo.
Tra i mammiferi marini abbiamo citato animali predatori come le foche, che compiono importanti migrazioni. Fra i predatori terrestri si conoscono migrazioni analoghe per distanza soltanto nel caso dell'orso bianco (Thalassarctos maritimus). Esso però non migra tra due mete precise e in determinate stagioni, ma è costantemente in viaggio e segue un percorso circolare intorno al polo Nord. L'orso bianco si nutre di foche, uccelli marini e pesci. Soltanto durante la breve estate artica si ciba anche di bacche e di erbe di vario genere. Le correnti marine, muovendosi in senso orario verso ponente, spingono il pack intorno al polo Nord. Gli orsi che si trovano sul pack vengono trasportati da questa corrente e compiono quindi una migrazione essenzialmente involontaria. Se però in qualche punto non trovano prede sufficienti, proseguono la migrazione in modo attivo, cercando di arrivare il più presto possibile in luoghi dove le prede sono più abbondanti. Se un orso abbandona un determinato posto, è possibile vederlo ricomparire nello stesso posto dopo 4 o 5 anni, al termine del suo viaggio. Oggi si cerca di avere informazioni più precise sui movimenti migratori degli orsi, catturando e contrassegnando gli esemplari.
Vi sono molti mammiferi grandi e piccoli che non compiono lunghe migrazioni, ma si spostano da un luogo all'altro in seguito ai cambiamenti di stagione. Così, con l'arrivo del freddo e con la caduta della prima neve, gli animali che vivono nelle zone alpine si ritirano in luoghi più vicini al fondovalle, dove si sentono più riparati e dove trovano maggiore quantità di cibo. Può succedere però anche il contrario. La gallina nordamericana (Dendragapus obscurus), per es., cova in estate nelle vallate e passa l'inverno nei boschi di montagna dove trova il suo cibo. Simile è il comportamento del gallo cedrone (Tetrao urogallus) degli Urali, il quale in estate vive e cova le uova sulle colline esposte a sud e a ovest, mentre in inverno si sposta a nord, nei boschi di pini. Il principale cibo invernale di entrambe queste specie è costituito dai semi di conifere.
c) Mammiferi volanti
Fra i mammiferi che volano, quelli che compiono le migrazioni più lunghe sono i pipistrelli. Nei luoghi dove l'inverno è piuttosto freddo e gli insetti sono scarsi, i pipistrelli passano l'inverno in letargo. Tuttavia, condizioni ambientali favorevoli per questo tipo di riposo invernale, che spesso si protrae per interi mesi, non sono presenti in tutte le regioni. L'umidità e la temperatura dell'aria devono mantenersi più o meno costanti e la temperatura non deve scendere al di sotto dei 4 °C. Alcune specie di pipistrelli sono particolarmente adattate a questo tipo di microclima e non sono molti i luoghi (come ad esempio certe caverne) dove possono trovarlo. I pipistrelli nordamericani (Myotis lucifugus) svernano in massa nella grotta di Eolo, nello Stato del Vermont, a 800 metri di altezza. In primavera questi animali percorrono da 200 a 300 chilometri in direzione sud-est, stabilendosi in pianure più ricche di cibo. Qui mettono anche al mondo i loro piccoli e, appena questi sono diventati autosufficienti, prendono nuovamente la via del ritorno.
La nottola (Nyctalus noctua) dell'Europa orientale copre in volo distanze fino a 2.000 chilometri. Alcuni esemplari contrassegnati a Mosca furono ritrovati poi nella steppa di Tauride, dopo che avevano coperto una distanza di 1.000 chilometri in direzione sud. Una femmina volò addirittura fino alla Bulgaria meridionale, compiendo un tragitto di 2.347 chilometri. La vera ragione di questi lunghissimi spostamenti non è tanto la ricerca di un clima migliore per lo svernamento, quanto la ricerca di zone più calde, dove sia quindi possibile abbreviare il periodo di riposo invernale. Vi è un pipistrello (Lasiurus borealis), che vive nel Canada e in alcune località settentrionali degli Stati Uniti, che non cade in letargo; in autunno si sposta nelle zone meridionali del Nordamerica, dove gli insetti non mancano; poi, in primavera, ritorna al nord.
Anche le migrazioni dei pipistrelli, come quelle degli uccelli, sono state seguite meglio con l'aiuto di esemplari contrassegnati. Gli uccelli vengono contrassegnati con un anello alla zampa, mentre ai pipistrelli viene applicato un piccolo gancio di alluminio con un numero d'ordine sotto l'ascella, in quanto le zampe posteriori di questi animali sono troppo piccole per potervi infilare gli anelli. Vi sono comunque scarse possibilità di ritrovare gli animali nel periodo in cui essi vivono sparsi un po' dappertutto; mentre le probabilità di individuare i pipistrelli contrassegnati nei luoghi di svernamento, dove sappiamo che si concentrano molte migliaia di esemplari per il letargo invernale, sono indubbiamente molto maggiori.
7. Il vagabondaggio
Come abbiamo visto a proposito degli orsi bianchi, non tutti gli animali hanno una dimora stabile o un luogo preciso dove tornare dopo una migrazione. Nelle migrazioni degli orsi bianchi si può rilevare tuttavia una direzione di marcia costante. Altri animali possono invece spostarsi incessantemente, o anche solo in determinati periodi, senza che si possa prevedere la meta dei loro viaggi. In genere, le migrazioni di questi animali sono legate alla disponibilità di cibo o di acqua.
Il crociere (Loxia curvirostra) popola un vasto territorio che si estende dall'Europa del Nord, attraverso le zone boscose dell'Asia settentrionale, fin quasi al Pacifico. Questo animale nutre se stesso e i suoi piccoli quasi esclusivamente coi semi di pini e abeti; esso è quindi legato a questo particolare cibo e deve orientare le sue migrazioni verso le zone boscose. Le stagioni più favorevoli dal punto di vista del nutrimento sono l'autunno e l'inverno, quando i semi degli abeti giungono a maturazione. Per questa ragione i crocieri covano e allevano i loro piccoli anche in pieno inverno. I piccoli dei crocieri sono stati osservati in ogni stagione. Quando in primavera i semi cominciano a staccarsi dalle pigne e cadono a terra, il cibo comincia a scarseggiare e questi uccelli partono alla ricerca di nuovi boschi dove sia loro assicurato il cibo necessario per l'autunno e l'inverno.
Anche gli uccelli che si nutrono di particolari insetti o di piccoli mammiferi, vanno a soggiornare là dove possono soddisfare i propri bisogni alimentari. Lo storno (Sturnus roseus) predilige le cavallette e in particolare le cavallette migratrici, soprattutto al tempo della cova. Volando tra l'Europa sud-orientale e l'Asia copre anche distanze molto lunghe alla ricerca degli sciami di questi insetti. Appena si imbatte in uno sciame, inizia la cova.
Il gufo delle nevi (Nyctea scandiaca) dell'estremo nord condiziona i luoghi e i tempi della cova a seconda del numero dei lemming, che costituiscono il suo principale nutrimento. Questi animali riescono ad allevare tutti o una parte dei loro piccoli (da 6 a 8) solo se i lemming sono molto numerosi; appena i lemming cominciano a scarseggiare, questi gufi partono alla ricerca di territori di caccia migliori. Spesso si spingono molto a sud, oltrepassando quella che, normalmente, è la loro zona abituale di diffusione; se non trovano in tempo nutrimento sufficiente, molti di essi muoiono stremati.
Circa il trenta per cento delle specie di uccelli presenti in Australia centrale conducono una vita vagabonda. Essi seguono le precipitazioni atmosferiche, peraltro piuttosto irregolari in quelle regioni. Solo dopo che la pioggia ha fatto germogliare le piante ricche di semi, le specie granivore, come i bengalini (Estrildinae) o i pappagalli (Psittacidae), possono nutrire sé e i propri piccoli. Come per i crocieri, anche la riproduzione di queste due specie non è legata a una stagione particolare.
Tra i mammiferi il vagabondaggio sembra costituire un'eccezione. Soltanto alcune specie di scimmie si spostano in gruppo, muovendosi entro aree piuttosto estese. La scimmia urlatrice (Abuata paliata) delle foreste pluviali del Sudamerica appartiene a quella categoria di mammiferi che migra senza posa. Tuttavia, come già dicevamo, non ne sappiamo ancora molto, poiché, senza la marcatura di singoli animali, i percorsi migratori sono difficilmente individuabili.
8. L'orientamento
L'uomo si orienta principalmente con l'aiuto della vista. Il suo è un orientamento visivo riferito per esempio alla configurazione geografica del terreno. Se mancano punti di riferimento, egli può basarsi sulla posizione del sole, in quanto ne conosce il corso: sorge a est, a mezzogiorno si trova a sud, tramonta a ovest. Di notte anche le stelle e la luna possono servire per l'orientamento. Ma, se l'uomo non può più orientarsi riferendosi all'ambiente che lo circonda o agli astri, come ad esempio quando vi è nebbia, senza una bussola non riesce a mantenere la giusta direzione.
Non sono soltanto le migrazioni animali in quanto tali che hanno interessato in passato e interessano tuttora i ricercatori; ad esse è connesso il problema di come gli animali possano rintracciare i loro itinerari e le loro mete, soprattutto quando si tratta di superare distanze di centinaia o migliaia di chilometri. Ancora oggi siamo ben lontani dal saper rispondere a tutti gli interrogativi, sebbene, col tempo, parecchie cose siano state chiarite.
Torniamo agli Insetti. La maggior parte di essi ha una vista molto buona, dovuta ai loro particolari occhi composti, formati da migliaia di ommatidi, completamente diversi da quelli dei Vertebrati. In numerosi insetti, anche l'olfatto è molto sviluppato; gli organi olfattivi si trovano, in genere, sulle antenne, ma possono essere anche dislocati in altre parti del corpo. L'orientamento olfattivo ricopre un ruolo essenziale soprattutto nei piccoli spostamenti di determinati insetti; le formiche, per esempio, si orientano sulla base delle particolari scie odorose che lasciano lungo il loro cammino.
Le femmine di molte farfalle notturne, come la farfalla a occhio di pavone (Hyalophora gloveri) americana, o del baco da seta (Bombyx mori), recano sulla parte posteriore dell'addome particolari ghiandole che secernono una sostanza odorosa; le antenne dei maschi di queste specie sono provviste di cellule sensoriali che reagiscono all'odore specifico delle loro femmine. Questo segnale odoroso, caratteristico della specie, insieme alla grande sensibilità delle cellule sensoriali dei maschi (basta che poche molecole raggiungano le cellule sensoriali del maschio del baco da seta), permette loro d'individuare le femmine anche a diversi chilometri di distanza.
Le tracce odorose danno scarso affidamento, in quanto possono disperdersi a causa degli influssi atmosferici e possono essere avvertite solo controvento. L'orientamento visivo, basato sulla configurazione fisica del terreno, viene utilizzato anche da alcuni insetti; esso tuttavia è valido soltanto in un ambiente noto. Entrambi i mezzi di orientamento perdono la loro validità quando le migrazioni sono lunghe e i percorsi sconosciuti. In questo caso, gli Insetti - e, come vedremo, anche molti altri animali - si orientano basandosi sulla posizione del sole. Ma questo cambia la sua posizione in ogni ora del giorno e deve quindi essere calcolato anche il fattore tempo. Gli Insetti e altri animali sono dotati di un ‛orologio interno', sulla cui precisa funzione sappiamo ancora pochissimo. Sappiamo che agisce tramite delle vibrazioni interne e che viene sincronizzato attraverso influenze esterne. In mancanza di stimoli esterni, l'orologio interno continua a funzionare, anche se sfasato rispetto alla frequenza sincronizzata. Queste piccole oscillazioni si regolarizzano in genere con l'alternarsi del giorno e della notte.
Gli Insetti che migrano di notte si orientano, evidentemente, basandosi sulle stelle fisse e sulla luna. Alcuni esperimenti molto recenti mostrano che anche il campo magnetico terrestre potrebbe influenzare l'orientamento.
Il tipo di orientamento visivo e olfattivo è oggi accertato anche nei Pesci. Sembra che l'orientamento olfattivo abbia una particolare importanza nelle migrazioni dei salmonidi alla ricerca dei luoghi d'origine, al tempo della riproduzione. Migrando dal luogo di nascita verso il mare, i piccoli salmonidi memorizzano i diversi odori del percorso. A distanza di anni, trascorsi per giunta in mare aperto, essi ritrovano il ruscello d'origine, orientandosi, nel risalire i fiumi, sulla successione inversa degli odori memorizzati. Numerosi esperimenti condotti in laboratorio e all'aperto hanno portato a questa conclusione; ma è anche possibile che, per poter tornare al luogo di nascita, i pesci ricordino soltanto il particolare odore di quest'ultimo, avvertendolo, sia pure in modo molto attenuato, fin dallo sbocco in mare. Non si sa ancora se i salmonidi dispongano anche di altri mezzi per potersi orientare all'interno di un sistema fluviale. In che modo i salmonidi riescono invece ad arrivare dal mare aperto alle coste e alle foci dei fiumi, dopo percorsi di migliaia di chilometri? Riteniamo che questi pesci si orientino sulla posizione del sole. Questo tipo di orientamento, insieme a quello del cosiddetto ‛orologio interno', è stato verificato in diverse specie di pesci. Gli esperimenti condotti ad esempio su un branzino (Roccus chrysops) sono però stati fatti nei laghi d'acqua dolce, essendo pressoché impossibile osservare i pesci in mare aperto.
Si può dire che sappiamo poco o nulla sull'orientamento degli Anfibi e dei Rettili. Tutti gli esperimenti che sono stati tentati per sapere qualcosa sulle migrazioni delle tartarughe verso gli stagni dove si riproducono, hanno finora avuto esito negativo. Sembra che né la configurazione geografica del terreno, né l'orientamento basato sulla posizione del sole o degli astri, siano determinanti. Come aiuto per l'orientamento possiamo escludere anche l'acqua o l'umidità dell'aria, poiché le tartarughe ritrovano il luogo di riproduzione anche quando una nuova strada o un centro abitato hanno cancellato ogni traccia d'acqua. I Rettili hanno la facoltà di orientarsi sulla posizione del sole, come tra l'altro è stato dimostrato nel caso del ramarro (Lacerta viridis). Anche per le lunghe migrazioni delle tartarughe marine possiamo supporre questo stesso tipo di orientamento, benché ciò non sia stato ancora dimostrato.
Per quanto riguarda gli Uccelli, va fatta, anzitutto, una distinzione fra orientamento a breve e a lunga distanza. Per l'orientamento a breve distanza, per ritrovare cioè luoghi di nidificazione o di svernamento già noti, è probabile che essi seguano la configurazione morfologica del territorio. Una volta tornati nella loro zona d'origine, gli Uccelli non hanno difficoltà a ritrovare un luogo determinato e circoscritto. Anche per percorsi lunghi, certe specie di uccelli possono servirsi, sia pure relativamente, della morfologia del territorio come aiuto per l'orientamento. Corsi d'acqua, laghi, fiumi, montagne e coste sono punti di riferimento chiaramente riconoscibili dall'alto, se il tragitto è già stato sorvolato. Con la loro ottima vista, gli Uccelli riescono a distinguere importanti corsi d'acqua, pianure e zone boscose anche di notte. I paesaggi già noti e le particolarità morfologiche del terreno possono quindi agevolare l'orientamento. Gli uccelli giovani, che volano per la prima volta, sono in grado di raggiungere la meta sotto la guida degli anziani più esperti.
Vi è però una serie di esempi nei quali non sembrano essere validi i mezzi di orientamento che abbiamo citato. Alcuni uccelli si spostano anche col cielo coperto, di giorno, di notte e al di sopra delle nuvole; inoltre, le vaste zone desertiche e le superfici marine non offrono punti di riferimento visivi; molti uccelli giovani volano indipendentemente da quelli più anziani, da soli e senza guida. In un volo di 8.000 chilometri dall'Alasca a Tahiti, che viene superato abilmente dai chiurli tahitiani (Numenius), un vento trasversale dovrebbe allontanarli di molte centinaia di chilometri dalla meta, dato che essi senza alcun punto di riferimento visivo sotto di sé non potrebbero avvertire lo spostamento. E invece raggiungono la meta.
Un esperimento di laboratorio condotto circa vent'anni fa sugli storni (Sturnus vulgaris) confermò che gli Uccelli sono in grado di orientarsi anche con il sole e con l'‛orologio interno'. Esperimenti sulle capinere (Sylviidae) hanno provato che esse si orientano anche di notte, seguendo le stelle fisse. Recentemente, alcuni esperimenti hanno indicato la possibilità che anche il campo magnetico della terra possa influenzare l'orientamento degli Uccelli. Malgrado tutte queste scoperte, il gcande mistero dell'orientamento degli Uccelli non è stato ancora pienamente svelato. Non per tutte le specie è stato possibile dimostrare un orientamento basato sulla posizione del sole; molti uccelli volano infatti anche con il cielo coperto e con la nebbia, anche se, in genere, quando il cielo è coperto la tendenza a volare è meno forte. Gli uccelli che migrano sui mari e sui deserti dispongono con molta probabilità di un orientamento basato sul sole e sulle stelle, dato che molti di loro non hanno la possibilità di fermarsi di notte a riposare sull'acqua. Il mistero maggiore continua a essere la capacità di orientamento del colombo viaggiatore (Columba livia domestica), il quale discende dal colombo selvatico. Anche dopo essere stati trasportati in un territorio sconosciuto, senza avere l'opportunità di procurarsi dei punti di riferimento durante il trasporto, i colombi riescono a ritrovare senza esitazione la via del ritorno, cosa assai più difficile che mantenere semplicemente una certa direzione.
Sappiamo dunque poco sull'orientamento degli Insetti, dei Pesci, degli Anfibi, dei Rettili e degli Uccelli, nel caso di grandi spostamenti, ma non sappiamo assolutamente nulla sull'orientamento dei Mammiferi nei loro grandi spostamenti. Per ora siamo in grado di dire molto poco sulle capacità di orientamento di alcuni mammiferi acquatici, come le balene o le foche, attraverso gli oceani, né siamo in grado di dire molto di più sull'orientamento dei mammiferi terrestri. Per nessun mammifero è stata provata una capacità di orientamento in base alla posizione del sole. Possiamo soltanto supporre che i mammiferi terrestri seguano dei percorsi tradizionali antichissimi tramandati di generazione in generazione. Ma deve pur esserci qualcos'altro; ogni tanto, infatti, un singolo esemplare compare in una zona dove sicuramente non era mai stato, ma che noi sappiamo essere stata attraversata un tempo da antichissime correnti migratorie. Evidentemente è l'istinto che riporta gli animali in un determinato luogo.
Per orientarsi entro un raggio relativamente limitato, la maggior parte dei mammiferi si serve dell'olfatto. I pipistrelli emettono dei suoni ad alta frequenza, dei quali percepiscono l'eco che viene riflesso dagli ostacoli. Essi si orientano nello spazio con un sistema di ecoscandaglio. Sembra che anche alcune balene, che hanno l'udito più sviluppato degli altri sensi, si orientino in modo analogo. Come i pipistrelli, esse riescono a percepire gli ultrasuoni. Le balene, oltre a percepire suoni ad alta frequenza, li emettono anche. Per quanto ci è dato di sapere, i delfini comuni e i delfini maggiori (Tursiops) comunicano servendosi di una vasta gamma di suoni, e possiamo presumere che, per brevi distanze, anch'essi si orientino con un sistema di ecoscandaglio. Mentre il limite acustico nell'uomo è tra i 15.000 e i 20.000 hertz, il delfino riesce a udire suoni fino a 153.000 hertz (v. orientamento degli animali).
9. Conclusione
Quattro principali fattori determinano le migrazioni degli animali: lo spazio, il cibo, il clima, la riproduzione. Si possono considerare migrazioni anche le piccole escursioni che gli animali compiono giornalmente alla ricerca di luoghi dove il cibo e l'acqua siano più abbondanti. Migrazioni più lunghe vengono compiute dagli animali che vivono sulla terra, nell'acqua o nell'aria, per recarsi nelle rispettive aree di soggiorno estivo o invernale, o nei luoghi di cova. Queste migrazioni coprono spesso distanze di migliaia di chilometri. Come abbiamo visto, alcune specie non hanno una meta precisa, ma migrano vagando in modo irregolare e a intervalli irregolari alla ricerca di condizioni di esistenza migliori per sé e per la prole. A seconda della specie, gli animali si spostano di giorno o di notte, da solo o in schiere.
Le vie migratorie a volte sono fisse, ma, in genere, la migrazione, pur mantenendo una direzione precisa si estende su un territorio più vasto, soprattutto nei volatili e negli animali marini. Coste, passi montani, fiumi o grandi laghi, costituendo punti di riferimento e di guida per l'orientamento, possono rappresentare delle apparenti vie migratorie. Nelle loro migrazioni, gli animali seguono le caratteristiche del terreno, gli odori, e si orientano anche con l'aiuto degli astri e dell'orologio interno; finora, tuttavia, non siamo riusciti a spiegare pienamente come molte specie riescano a trovare la via giusta e a raggiungere le rispettive mete e quali siano i loro mezzi di orientamento.
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