Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’emigrazione europea è la madre dell’immigrazione moderna. A essa devono moltissimo nazioni grandi come continenti, quali gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, l’Argentina. Con le decine di milioni di uomini, donne e bambini che tra la fine dell’Ottocento e lo scoppio della Grande Guerra e, poi, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, lasciarono le terre più malandate del Vecchio Continente, il moderno capitalismo ha conosciuto un assaggio della globalizzazione poi dispiegatasi in pieno a partire dagli ultimi decenni del XX secolo. Fu allora, infatti, che dopo il lungo predominio britannico il centro del potere economico e politico attraversò l’Atlantico quasi al seguito dell’armata di immigrati quotidianamente sbarcati a Ellis Island, di fronte alla punta estrema di Manhattan.
Henry Roth
Chiamalo sonno
Il vaporetto bianco, il “Peter Stuyvesant”, che scaricava gli immigranti dal tanfo e dal pulsare della classe ponte al tanfo e al pulsare dei casamenti di New York, ondeggiava appena sull’acqua accanto al molo di pietra della parte sottovento delle baracche stinte e delle nuove costruzioni in mattoni di Ellis Island. Il capitano aspettava che gli ultimi funzionari, uomini di fatica e poliziotti si imbarcassero, per salpare e metter la prua su Manhattan.
H. Roth, Chiamalo sonno, trad. di M. Materassi, Milano, Garzanti, 1986
L’emigrazione europea è la madre dell’immigrazione moderna. Per la semplice ragione che le sue terre d’eccellenza, Stati Uniti, Canada, Argentina, Australia, sono nate e cresciute proprio grazie all’apporto dell’enorme esercito di uomini, donne e bambini che, soprattutto tra il 1870 e il 1914 e, poi, negli anni dell’immediato secondo dopoguerra ha abbandonato il Vecchio Continente in cerca di fortuna. D’altra parte è proprio allora che, in parallelo e grazie all’intenso flusso di espatri dalle più malandate nazioni europee, nasce e si afferma quello che si è dimostrato essere il vero e proprio “primo mobile” della nuova era del capitalismo industriale. Quasi un anticipo della globalizzazione su scala planetaria dei nostri giorni. Sono gli anni dell’urbanizzazione di massa al seguito delle grandi concentrazioni industriali, che hanno segnato una irreversibile soluzione di continuità nei modelli di vita e di lavoro fino ad allora dominanti. Perde di peso l’agricoltura, mentre crescono in modo esponenziale la produzione manifatturiera, i volumi del commercio e degli scambi finanziari, resi sempre più facili e meno costosi dall’accelerata modernizzazione dei sistemi di comunicazione e di trasporto. Un fenomeno di mobilità sociale di dimensioni fino ad allora mai viste e di cui la grande emigrazione degli Europei è, a un tempo, causa ed effetto.
Tra i molteplici agenti di tanto cambiamento vale la pena ricordare i due che, forse meglio di altri, aiutano a capirne senso e portata. In primo luogo la terribile disintegrazione dell’ordine geopolitico ottocentesco sfociato nella Grande Guerra. Dall’altro lo spostamento del baricentro dell’egemonia economica mondiale al di là dell’Atlantico che mette fine all’ultracentenaria leadership delle potenze europee, Inghilterra in testa. È allora che New York comincia a segnalarsi come la vera, nuova capitale del mondo industrializzato e come port entry per eccellenza di milioni di europei spinti verso il Nuovo Mondo dal desiderio di migliori condizioni di vita per sé e per le proprie famiglie. A questo proposito restano ineguagliate le pagine del capolavoro, pubblicato nel 1934 da Henry Roth, Chiamalo sonno, sull’intensità e la durezza, non solo materiali, che questo esodo significò per la vita di milioni di europei.
Tra il 1870 e 1914 si stima che furono quasi 70 milioni quelli che attraversarono l’Atlantico da est a ovest. In maggioranza dall’Irlanda, dall’Italia e da quelle che l’esito del conflitto 1915-1918 trasformerà in ex province dell’Impero austro-ungarico. È l’Irlanda sfinita dalla grande carestia provocata, a metà Ottocento, dalla terribile peste delle patate, che lascia partire, in cerca di scampo, più di un terzo dei suoi figli altrimenti destinati, come invece toccò a decine di migliaia di loro meno fortunati concittadini, a sicura morte. Dall’Italia a partire in massa furono prima i contadini del Nord-Est e poi quelli del Mezzogiorno, in numero tale da restare, per lunghi decenni, saldamente alla testa della triste classifica dell’immigrazione internazionale. Infine è dalle terre ex asburgiche che vennero i milioni di contadini ebrei, in maggioranza analfabeti e poverissimi, di cui troviamo memoria nell’yiddish usato da Isaac Bashevis Singer nei suoi famosissimi romanzi.
L’immigrazione, come si sa, non è un fenomeno riducibile solo alla sfera socio-economica. Riguarda infatti la cultura, l’antropologia e, con esse, alcuni degli aspetti più profondi dell’esistenza dell’uomo. Al riguardo ritorna utile la sottile distinzione che Umberto Eco fa tra migrazione e immigrazione. A suo parere infatti si può parlare di immigrazione quando alcuni individui, anche molti, ma in misura statisticamente irrilevante rispetto al loro gruppo d’origine, si trasferiscono da un Paese all’altro. L’esempio degli Italiani o degli Irlandesi in America o dei Turchi nel secondo dopoguerra in Germania. Da questo punto di vista il fenomeno dell’immigrazione può essere controllato politicamente, limitato, incoraggiato o scoraggiato, programmato o accettato. Non è così per le migrazioni. Violente o pacifiche che esse siano, sono come i fenomeni naturali: avvengono e nessuno le può controllare. Si ha quindi migrazione quando un intero popolo si sposta da un territorio all’altro (non è rilevante quanti rimangono nel territorio di origine, ma in che misura i migranti cambiano radicalmente la cultura di quello in cui vanno a insediarsi). Le migrazioni sono dunque diverse dalle immigrazioni. Si ha immigrazione quando gli immigrati (ammessi secondo decisioni politico-amministrative) accettano di entrare nel sistema culturale, istituzionale, costituzionale del Paese in cui migrano. Si ha invece migrazione quando i migranti (che nessuno può arrestare ai confini) trasformano radicalmente la cultura del territorio da loro invaso. Perciò possiamo dire che l’immigrazione è espressione di un fenomeno strutturale e in crescita, soprattutto con l’attuale processo di globalizzazione che per essere positivo deve essere guidato e controllato.
Nell’impatto con l’America l’emigrazione europea arrivò addirittura ad assumere i tratti fondativi di una nuova umanità. Ne è testimonianza un testo straordinario, Letters from an American Farmer, mai tradotto in italiano, scritto nel 1782 da J. Hector Saint-John de Crèvecoeur: “What attachment can a poor European emigrant have for a country where he had nothing? [...] His country is now that which gives him land, bread, protection... Ubi panis ibi patria, is the motto of all emigrants. What then is the American, this new man? He is either an European or the descendant of an European, hence that strange misture of blood which you will find in no other country” (“Quale legame può avere un povero emigrato europeo per una nazione nella quale non ha nulla? […] La sua nazione ora è quella che gli dà terra, pane, protezione, importanza… Ubi panis ibi patria, è il motto di tutti gli emigrati. Che cos’è allora l’Americano, questo uomo nuovo? È un europeo o un suo discendente, di qui quella strana mescolanza di sangue che non si trova in nessun’altra nazione”). Un uomo nuovo nato dall’immigrazione europea nel suo incontro con la Terra Promessa, come spiega nel 1909, a mo’ di manifesto, il fondatore di “The New Republic”, Helbert Crony. La promessa, nel caso dell’America, consiste nell’opportunità all’indipendenza economica e alla prosperità.
Sia l’americano di nascita che l’immigrato sanno bene che il futuro dell’America è il loro avvenire perché, crescendo la prosperità, cresceranno anche le opportunità per una platea umana sempre più ampia. Ecco perché, sia pur con un tocco di brutalità di troppo, Herbert Crony arriva a concludere che la ragione che ha spinto gli europei a popolare l’America consiste semplicemente nella convinzione di poter raggiungere lì maggiore ricchezza e felicità. Per meglio comprendere i tratti di vera e propria epopea, toccati dall’immigrazione degli “europei fuori d’Europa” soprattutto sul suolo yankee, vale la pena scorrere le cifre (e per chi abbia un po’ di tempo anche le pagine) di un’altra eccezionale testimonianza contenuta in un documento, da pochissimo disseppellito dagli immensi archivi dell’immigration americana. Sono le note raccolte nel Dictionary of Races or Peoples del 1911 da un rude ma scrupolosissimo funzionario anonimo, nel corso della sua attività di selezione a Ellis Island, di migliaia di immigrati europei all’atto del loro arrivo.
Dalle tabelle si ha chiara la misura della dimensione numerica e dell’ampiezza geografica dell’emigrazione europea. Non solo per i suoi livelli assoluti ma, cosa ancor più impressionante, per quelli percentuali sulla popolazione di intere nazioni che rischiarono, in alcuni momenti, di finire svuotate dei propri figli. Vale la pena sottolineare, inoltre, che dai calcoli dell’addetto dell’Immigration Naturalization Service tra il 1898 e il 1910 sono gli Italiani (2.300.000) ad arrivare più numerosi, seguiti, a ruota, da quelli di origine ebraica dall’Europa centro-orientale. Queste cifre, forse, spiegano perché quello italiano è stato per decenni il cognome più diffuso tra le fila degli appartenenti a corpi dalla storia quasi leggendaria come i pompieri e i poliziotti della città di New York.
Va inoltre precisato che, a differenza di quanto comunemente ritenuto, la maggioranza degli immigrati italiani non è quella approdata negli Stati Uniti, in Argentina o in Canada. È infatti nelle nazioni più ricche del Vecchio Continente che, in maggioranza, i “nostri” hanno cercato una nuova vita. Tra il 1870 e il 1914, a fronte dei tre milioni sbarcati nell’America del Sud (Argentina e Brasile soprattutto) e dei cinque milioni in quella del Nord (Stati Uniti e Canada), sono sei milioni quelli che si sono sparpagliati ai quattro angoli del nostro continente. Sempre per quanto riguarda gli emigranti del Bel Paese, essi sono stati tra il 1916 e il 1925, due milioni, e poco più di un milione tra il 1926 e il 1935.
È con il secondo dopoguerra che si apre una fase nuova dei processi migratori internazionali. Nonostante una ripresa su larga scala dei flussi di espatri di dimensioni non lontane da quelle di inizio del secolo (nel caso dell’Italia raggiunsero la cifra di sei milioni), grazie all’intenso sviluppo industriale e al successivo boom economico, trainato dalla locomotiva americana, alcuni tra i grandi Paesi dell’emigrazione storica, in primo luogo l’Italia, seguita poi da Irlanda, Spagna, Grecia e Portogallo, si trasformano, lentamente ma irreversibilmente, da terre di fuga in terre di arrivo.
Da nazioni di emigranti a grandi mercati di immigrati dei più svariati continenti. Una novità, questa, in qualche modo assoluta nella storia dell’immigrazione moderna visto che prima di allora, almeno per quanto riguarda il novero dei Paesi più importanti, non si era mai registrato un rovesciamento di ruoli e di identità di tanta portata. Le terre dell’emigrazione, da quel momento, non erano più destinate, come in passato a restare tali per sempre. Un vero e proprio salto di status che ha investito e investe non solo la sfera socio-economica ma soprattutto i fondamentali dell’identità nazionale di gran parte delle nazioni europee. Con un impatto, in alcuni casi esplosivo, sulle tensioni sociali e le crescenti insicurezze di ampi strati della popolazione. Per la semplice ragione che, al pari della trasformazione della società da agricola in industriale, anche il passaggio dall’emigrazione di massa a quello dell’immigrazione su larga scala determina mutamenti non marginali nel modo d’essere delle istituzioni, nella cultura delle classi dirigenti e del sistema dei valori collettivi di riferimento.
Ma se i luoghi dell’arrivo cambiano nel corso del Novecento, non cambiano, invece, le ragioni delle partenze. Oggi come ieri, infatti, il miraggio delle opportunità economiche e il desiderio di fuggire dall’avvilimento della povertà obbligano molti ad abbandonare i luoghi di origine per dirigersi in massa verso le metropoli. Come già nel XIX secolo anche in quello successivo si conferma una caratteristica fondamentale dell’immigrazione. Essa è un fenomeno eminentemente urbano perché, come insegna uno dei più grandi studiosi della materia, Alejandro Portes, la grande città è in grado di esercitare sull’immigrazione un’attrazione di tipo multidimensionale. Quando le possibilità di lavoro non sono subito alla portata, l’immigrato non fa altro che crearle. Ciò spiega, tra l’altro, la nascita di un settore informale nelle metropoli industrializzate e la forte espansione dei diversi segmenti etnici al proprio interno.
Come il breve ma accidentalissimo percorso verso la più vicina civitas si trasformò, secoli fa, nella strada obbligata verso la libertà per i più ambiziosi rappresentanti della classe contadina, anche oggi il lunghissimo viaggio verso Londra, Parigi, New York o Roma si è trasformato nella “cosa da fare” per i tanti alla ricerca di una vita migliore e di maggiori libertà economiche, politiche e sociali: doni che solo la metropoli moderna può offrire.
Per avere una misura, sia pur relativa, del rovesciamento dei trend migratori, basta considerare che rispetto al passato, quando era l’Europa ad attraversare in massa l’oceano, la percentuale dei suoi emigranti che, sul totale, alla fine degli anni Sessanta continuò a dirigersi verso ovest, passò dal 70 a meno del 34 percento. Le più importanti nazioni dell’emigrazione, infatti, erano o stavano diventando i nuovi attori dell’immigrazione internazionale. Un cambiamento che negli anni si estende su scala globale al punto da non risparmiare neppure le terre fino a ieri considerate, per livello di benessere e qualità della vita, tutt’altro che appetibili. Lo testimonia il fatto che, a fronte del 60 percento di immigrati ufficialmente residenti nel 2005 nelle aree più industrializzate, il restante 40 lavora e vive in quelle in via di sviluppo. Il cuore delle migrazioni del secondo Novecento sta, dunque, nella novità della sua definitiva globalizzazione, dopo quella da tempo avvenuta dei capitali, della finanza e delle merci.
Ne sono testimonianza le cifre del rapporto su Migration in an interconnected World pubblicato dall’ONU il 5 ottobre 2005. Dagli 82 milioni del 1970 gli immigrati sono diventati 175 milioni nel 2000 e 200 milioni nel 2005. L’equivalente dell’intera popolazione del Brasile o, se si preferisce, un trentacinquesimo di tutti gli abitanti del pianeta. Un aumento straordinario che diventa addirittura impressionante se si considera che non vengono tenuti nel conto quelli con una presenza all’estero inferiore a 12 mesi e, soprattutto, l’immenso esercito degli irregolari e clandestini.
Secondo il censimento fatto nel 2000 le presenze per area geografica risultavano essere: 56,1 milioni in Europa (7,7 percento della popolazione); 49,9 milioni in Asia (1,4 percento della popolazione); 48,9 milioni nell’America del Nord (12,9 percento della popolazione); 16,3 milioni in Africa (2 percento della popolazione); 5,9 milioni nell’America del Sud (1,1 percento della popolazione); 5,8 milioni in Australia (18,7 percento della popolazione). Di questi, la metà sono donne (48,6 percento) ripartite, a loro volta, in egual misura, nei mercati del lavoro del Nord ricco e in quelli di molti Paesi in via di sviluppo. Un’immigrazione davvero ormai senza frontiere al punto che oggi, alle spalle di quello che da sempre ne è stato il Paese numero uno, gli Stati Uniti, troviamo la Russia con un’immigrazione pari al 7,6 percento di quella totale, e l’India che si “limita”, invece, a un più modesto 3,6 percento. La graduatoria opposta, quella relativa alle nazioni di emigrazione, vede in testa la Cina, seguita dall’India e dalle Filippine.
Ed è proprio questa armata di lavoratori globalizzata che, oltre a provvedere all’economia (in Europa supera ormai il 5 percento di tutta la forza lavoro) e alla traballante demografia delle regioni più ricche, contribuisce ormai in maniera assoluta, con le proprie rimesse, alle necessità dei Paesi di provenienza. Si calcola che nel 2004 sono affluiti verso le nazioni-madrepatria circa 150 miliardi di dollari, attraverso i canali finanziari ufficiali, e non meno di 300 attraverso quelli informali.
Due ultime osservazioni riguardo ai clandestini e rifugiati. I primi, in base a stime molto approssimative fatte nel 2000, sono calcolati intorno a cinque milioni per l’Europa e a più di dieci per gli Stati Uniti. Dei 9,2 milioni di rifugiati in giro nel mondo, 6,5 milioni vivono in Europa, Stati Uniti, Canada e Australia. Mentre la fetta più numerosa (oltre un milione) degli altri meno fortunati è quella presente in Pakistan.
La demografia del Novecento ha bocciato senza appello le catastrofiche previsioni demografiche di Robert Malthus. Oggi, infatti, si nasce molto poco, si muore ancora meno ed è solo grazie all’immigrazione che molte nazioni possono sperare di non finire inghiottite, in un futuro neppure troppo lontano, in quello che gli studiosi chiamano il “buco nero demografico”. Al centro di tanta novità una sequenza di avvenimenti tanto straordinari da determinare quella che, secondo la bella definizione di Michel Noblecourt, è stata la “tranquilla rivoluzione demografica” del XX secolo.