Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Miguel de Cervantes è considerato tra i più grandi esponenti della letteratura mondiale. Si colloca storicamente nel periodo di massima ascesa e di iniziale declino della potenza degli Asburgo, e culturalmente tra il Rinascimento maturo e lo svilupparsi del barocco.
Nato ad Alcalá de Henares nel 1547 e figlio di un chirurgo/barbiere, forse di origine ebrea, e sempre alle prese con difficoltà economiche, Miguel de Cervantes durante l’infanzia e l’adolescenza risiede in diverse località, tra cui Valladolid, Cordova e Siviglia; si dice che abbia frequentato, in Andalusia, il collegio dei Gesuiti, mentre nel 1568 lo troviamo a Madrid come alunno dello “studio” diretto dall’umanista Juan López de Hoyos. Proprio in un’opera collettiva curata da quest’ultimo, in memoria della regina Isabella di Valois, leggiamo quattro poesie che rappresentano la prima testimonianza di Cervantes letterato. L’anno successivo, forse per sfuggire alle conseguenze della partecipazione a una rissa, interrompe gli studi e parte per l’Italia, dove entra al servizio di Giulio Acquaviva, poi nominato cardinale. Nel 1570 si arruola nella flotta allestita contro i Turchi e nel 1571 partecipa alla famosa battaglia navale di Lepanto, da cui riporta una menomazione alla mano sinistra. Continua a prestar servizio contro i Turchi fino al settembre del 1575, quando salpa da Napoli per tornare in patria. Al largo delle coste francesi viene però catturato dai pirati berberi e portato in schiavitù ad Algeri, dove rimane cinque anni.
La ricostruzione biografica di questo periodo è alquanto problematica. Abbiamo due documenti, diventati base dell’immagine “eroica” del giovane Cervantes: un’Informazione sul suo comportamento ad Algeri (vale a dire, come si usava all’epoca, una serie di testimonianze sulla sua fedeltà all’ortodossia e alla moralità nel periodo trascorso tra i Mori fino al riscatto), e una Topografia e storia generale di Algeri, opera attribuita oggi ad Antonio de Sosa, che descrive tra l’altro le sofferenze dei prigionieri cristiani ad Algeri e dedica un brano molto lusinghiero a Cervantes. Però tra i due documenti non manca qualche contraddizione o inverosimiglianza, per esempio per quanto riguarda i quattro tentativi di fuga organizzati da Cervantes e falliti senza che egli venisse punito con la morte. Secondo il critico C.B. Johnson questi documenti rappresentano, più che una descrizione obiettiva, una “costruzione” del personaggio analoga a quella che l’autore seguirà nelle sue opere d’invenzione.
Nella prima produzione di Cervantes troviamo la tragedia La vita ad Algeri (Los tratos de Argel), composta poco dopo il ritorno dalla prigionia, che ha come personaggio centrale un coraggiosissimo Saavedra, totalmente fedele all’ideale patriottico e cattolico. In seguito, questo cognome verrà assunto da Cervantes stesso, che (dal 1587) si firmerà “Miguel de Cervantes Saavedra”. Al tema della prigionia si ricollegheranno altre sue opere come la “commedia” I bagni di Algeri (Los baños de Argel). C’è chi (come A. Garcés) ha posto quindi l’accento sull’influenza che ha avuto in lui il “trauma” lasciato dall’esperienza algerina. Secondo L. Combet, è proprio da qui, in fondo, che deriva l’ostinazione eroica dei personaggi cervantini nell’affrontare rischi mortali e sofferenze d’ogni genere: una specie di “masochismo” esistenziale che porta all’ideale del sacrificio e del martirio. Fin dal rientro in Spagna, Cervantes, confidando nei servizi prestati, cerca di ottenere dal re un incarico fisso, ma senza esito. Nel 1581 risulta presente nel Portogallo recentemente annesso alla corona spagnola, forse al seguito del marchese di Santa Cruz; poi gli viene affidata una non meglio precisata missione ad Orano. È del 1582 il primo inutile tentativo (reiterato nel 1590) di ottenere un impiego nel Nuovo Mondo. Otterrà invece, nel 1587, l’incarico di commissario per l’approvvigionamento dell’Invincibile Armata, a Siviglia, e dieci anni dopo l’incarico di esattore delle tasse del territorio di Granada, compito che gli causerà un incarceramento di tre mesi a Siviglia nel 1597, in rapporto al sospetto fallimento del banchiere presso cui aveva depositato i soldi riscossi. Nel 1584 si sposa con Catalina de Salazar y Palacios, nativa di Esquivias in Castiglia, regione in cui tornerà nel 1600, risiedendo prima a Toledo e poi per un breve periodo a Madrid. Qui farà definitivamente ritorno − dopo una parentesi trascorsa a Valladolid (1603-1606) nuova sede della Corte − per rimanere fino alla morte, avvenuta il 22 aprile 1616.
In campo artistico Cervantes iniziò – come s’è visto – con la poesia e con il teatro. Della prima, che egli considerò sempre come sua vocazione, possediamo poche testimonianze se escludiamo alcuni componimenti d’occasione. A Madrid fu ritenuto uno dei migliori autori di ballate (romances). Nei suoi stessi scritti in prosa si trovano disseminati versi sia in forma castigliana che all’“italico modo” (sonetti, elegie e canzoni). Per il teatro, negli anni Ottanta, compone anche la tragedia L’assedio di Numanzia (La Numancia) sull’eroica fine dei difensori di tale città assalita dai Romani. Sempre in quel periodo pubblica il romanzo pastorale La Galatea (1585), il cui titolo viene dal nome della ninfa protagonista. In sei libri, che includono anche componimenti in versi, narra i tormenti e lamenti amorosi dei pastori, che riprendono specialmente i ragionamenti a sfondo neoplatonico diffusi dagli inizi del secolo dalla letteratura pastorale e da Leone Ebreo nei suoi Dialoghi d’amore. Cervantes stesso (nel Don Chisciotte) criticherà questa sua opera che, dice, “contiene una certa buona immaginazione, propone qualcosa, ma non conclude nulla”. Successivamente annuncerà l’intenzione di riprenderla con una seconda parte, quasi volesse rifondare questo genere di romanzo, ma non darà corso al progetto. Un altro tentativo poetico è il Viaggio del Parnaso (Viaje del Parnaso, 1614), libera imitazione del Viaggio in Parnaso dell’italiano Cesare Caporali. È un lungo poema burlesco di tremila endecasillabi in otto canti con una “aggiunta” in prosa. Probabilmente stimolato dai Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini, segue un percorso mitico che ha inizio in Spagna e attraverso località italiane raggiunge il monte sacro ad Apollo e alle Muse, ricorda poeti a lui contemporanei e momenti della propria vita.
Miguel de Cervantes
Prologo al lettore
Novelle esemplari
Prologo al lettore
(...) questi che qui vedete, dal profilo aquilino, dai capelli castani, fronte liscia e sgombra, dagli occhi vivaci e il naso arcuato, anche se ben proporzionato, la barba d’argento, che vent’anni fa era d’oro, i baffi grandi, la bocca piccola, i denti né piccoli né grandi, perché non ne ha che sei, in cattive condizioni poi anche tutti sconnessi, perché non si corrispondono l’un l’altro; il corpo tra i due estremi, né grande né piccolo, il color della pelle vivo, più chiaro che scuro, un po’ curvo di spalle e non molto lesto di piedi; questo dico è il sembiante dell’autore della Galatea e del Don Chisciotte della Mancia, e di colui che fece il Viaggio del Parnaso, a imitazione di quello di Cesare Caporali Perugino, e altre opere che gironzolano smarrite e, forse, senza il nome del suo autore. Chiamasi questi comunemente Miguel de Cervantes Saavreda. Fu per molti anni soldato, e per cinque e mezzo schiavo, condizione in cui apprese ad aver pazienza nelle avversità. Perse nella battaglia di Lepanto la mano sinistra a causa di una archibugiata, ferita che, benché sembri brutta, egli la reputa bella, per il fatto d’averla ricevuta nella più memorabile ed alta occasione che abbian visto i passati secoli o i venturi sperino di vedere, militando sotto le vincitrici bandiere del figlio del fulmine della guerra, Carlo Quinto, di felice memoria.
M. de Cervantes, Tutte le opere, a cura di F. Meregalli, Milano, Mursia, 1971
Miguel de Cervantes
Schiavitù
La vita ad Algeri, Atto I, scena I
AURELIO: Triste e miserabile stato! Triste, amara schiavitù, dove la pena è tanto lunga quanto corto è il piacere! Oh, purgatorio nella vita, inferno nel mondo, male senza pari, strettoia senza uscita! Compendio di quanto dolore v’è in ogni dolore, maleficio il maggiore fra i maggiori! Incredibile necessità, credibile e palpabile morte, vita misera e invisibile! Esperienza che la nostra sofferenza, se ne ha la forza! soffre; povera pesante vita, ritratto di penitenza! Ma taccia ora questo tormento, ché, siccome mi è nemico, non giungerà quanto dico a dire quanto soffro. Si pensi al mio dolore, quando dico, bagnato di lacrime, che il mio corpo sta fra mori e l’anima è preda d’Amore. Nel corpo e nell’anima è la mia pena: già vedete come va per il mio corpo; e la mia anima è prigioniera di catena amorosa. Pensavo che Amore non avesse potere tra gli schiavi; ma proprio in me i suoi dardi crudeli più mostrano la sua forza. Cosa cerchi, Amore, fra i miseri schiavi? Lasciali o morire o vivere nella loro povertà e nel loro travaglio! Non vedi che qui, prima o dopo, per la fame o per la sete si rompe il filo della tua trama amorosa? Credo non mi abbia voluto dimenticare anche in questo tempo, vedendo sano il mio cuore pur dentro un vestito così rotto. Da ora vedo chiaro che il potere che in te si raccoglie abbraccia cielo e terra; e altro non comprende. Una sola cosa ti chiederei, seppure in questo tuo modo d’essere, solo un’ombra di ragione vedessi fra tante ombre; ed è che, poiché fosti la causa di finirmi e distruggermi, a questo continuo ferirmi tu dia, un momento solo, pausa. No, non ti chiedo di uscire dal mio petto, siccome non puoi, anzi ti chiedo di restarci e di aiutarmi in questo frangente. Vedi: una dura battaglia mi si sta preparando e non saprò affrontarla se il tuo consiglio mi abbandona. Dal luogo dove mi mettesti cercano di strapparmi, ma chi potrà fermare ciò che tu una prima volta hai mosso? Ecco viene Zahara con la sua predica; ah! che testarda seccante! il giorno mi sfugge prima che la notte sia calata. Aiutami, Silvia, mio bene, ché, se tu mi aiuti, di una più ardua e dura guerra spero cogliere la vittoria!
M. de Cervantes, Tutte le opere, a cura di F. Meregalli, Milano, Mursia, 1971
Ma è nella narrativa che Cervantes si pone ai massimi livelli, con le Novelle esemplari (Novelas ejemplares), alcune delle quali composte forse alla fine del Cinquecento, ma raccolte tutte nel 1613, quando l’autore era già famoso per la prima parte del Don Chisciotte. Il carattere “esemplare” di queste narrazioni brevi allude non solo alla critica ironica dei costumi, ma anche al fatto che sono le prime a dare un esempio del genere novellesco nella letteratura spagnola. Vi troviamo amori tormentati con finale felice come in La zingarella (La gitanilla), amori sensuali che sfociano in matrimoni riparatori in La forza del sangue (La fuerza de la sangre), matrimoni imposti a giovani fanciulle con uomini maturi in Il geloso d’Estremadura (El celoso extremeño), viaggi avventurosi per essere degni della propria dama in La spagnola inglese (La española inglesa); e ancora: avventure picaresche in Rinconete e Cortadillo (Rinconete y Cortadillo), storie allucinanti in Il dottor Vetrata (El licenciado Vidriera) che riteneva di essere diventato di vetro e nel Colloquio dei cani (El coloquio de los perros). È quest’ultima forse la novella più audace, con vaghe reminiscenze lucianesche nello stile dialogico e nella tematica; in essa il cane Berganza narra la propria biografia − strutturata a imitazione del romanzo picaresco − al cane Scipione rievocando una sequela di disgrazie accadutegli sotto i suoi vari padroni, dimostrando così la cattiveria degli uomini e l’esigenza di un grande cambiamento della società.
Miguel de Cervantes
L’esito della battaglia contro i mulini a vento
Don Chisciotte della Manchia, Cap. VIII
Capitolo VIII
Del brillante successo riportato dal valoroso don Chisciotte nella spaventosa e inaudita avventura dei mulini a vento, con altri avvenimenti degni di felice ricordo
In quel mentre scoprirono trenta o quaranta mulini a vento che si trovano in quella campagna, e non appena don Chisciotte li vide, disse al suo scudiero:
“La fortuna guida le nostre cose meglio di quel che potremmo desiderare; perché, guarda lì, amico Sancio Panza, dove si scorgono trenta, o poco più, smisurati giganti con i quali mi propongo di venire a battaglia e di ucciderli tutti, in modo che con le loro spoglie cominceremo ad arricchirci, ché questa è buona guerra, ed è rendere un gran servigio a Dio togliere questa mala semenza dalla faccia della terra”.
“Che giganti?” domandò Sancio Panza.
“Quelli che vedi lì”, rispose il suo padrone, “dalle lunghe braccia, ché alcuni possono averle di quasi due leghe”.
“Badi la signoria vostra”, replicò Sancio, “che quelli che si vedono là non son giganti, ma mulini a vento, e ciò che in essi sembrano braccia sono le pale che, girate dal vento, fanno andare la pietra del mulino”.
“È chiaro”, disse don Chisciotte, “che non te ne intendi di avventure; quelli son giganti; e se hai paura, togliti da qui e mettiti a pregare, mentre io combatterò con essi un’aspra e impari battaglia”.così dicendo, diede di sprone al suo cavallo Ronzinante, senza badare a quello che il suo scudiero Sancio gli gridava per avvertirlo che, senza alcun dubbio, erano mulini a vento e non giganti quelli che andava ad attaccare. Ma egli era talmente convinto che si trattasse di giganti da non udire le grida del suo scudiero Sancio, né accorgersi, sebbene fosse già molto vicino, di quello che erano; anzi andava gridando a gran voce:
“Non fuggite, gente codarda e vile, ché è un cavaliere solo ad attaccarvi”.frattempo si alzò un po’ di vento, e le grandi pale cominciarono a muoversi; don Chisciotte, visto ciò, disse:
“Anche se moveste più braccia del gigante Briareo, me la pagherete”., così dicendo, raccomandandosi ardentemente alla sua dama Dulcinea, chiedendole che lo soccorresse in tale frangente, ben coperto dalla rotella, con la lancia in resta, lanciò Ronzinante al gran galoppo e assalì il primo mulino che gli stava davanti; ma, avendo egli dato un colpo di lancia alla pala, il vento la fece girare con tanta violenza che ridusse in pezzi la lancia, portandosi via dietro cavallo e cavaliere, il quale rotolò molto malconcio per terra. Sancio Panza accorse a dargli aiuto, con l’asino a tutta carriera, e, quando lo raggiunse, trovò che non si poteva muovere, tale era stato il colpo che aveva dato con Ronzinante.
“In nome di Dio!” disse Sancio. “Non l’avevo detto io alla signoria vostra che stesse ben attento a quel che faceva, perché non erano se non mulini a vento, e solo chi ne avesse altri in testa poteva non accorgersene?”
“Sta’ zitto, amico Sancio”, rispose don Chisciotte; “ché le cose della guerra, più di ogni altra, sono soggette a continui mutamenti; tanto più che io penso, ed è certamente così, che quel mago Frestone il quale mi ha rubato la stanza e i libri, ha cambiato questi giganti in mulini per togliermi la gloria di vincerli, tale è l’inimicizia che nutre per me; ma, alla resa dei conti, le sue male arti avranno poco valore di fronte alla bontà della mia spada”.
“Così voglia Iddio, che tutto può”, rispose Sancio Panza.
M. de Cervantes, Tutte le opere, a cura di F. Meregalli, Milano, Mursia, 1971
Miguel de Cervantes
Incipit
Don Chisciotte della Mancia, Cap. I
In un paese della Mancia, di cui non voglio fare il nome, viveva or non è molto uno di quei cavalieri che tengono la lancia nella rastrelliera, un vecchio scudo, un ossuto ronzino e il levriero da caccia. Tre quarti della sua rendita se ne andavano in un piatto più di vacca che di castrato, carne fredda per cena quasi ogni sera, uova e prosciutto il sabato, lenticchie il venerdì, e qualche piccioncino di rinforzo alla domenica. A quello che restava davano fondo il tabarro di pettinato e i calzoni di velluto per i dì di festa, con soprascarpe dello stesso velluto, mentre negli altri giorni della settimana provvedeva al suo decoro con lana grezza della migliore. Aveva in casa una governante che passava i quarant’anni e una nipote che non arrivava ai venti, più un garzone per lavorare i campi e far la spesa, che gli sellava il ronzino e maneggiava il potatoio. L’età del nostro cavaliere sfiorava i cinquant’anni; era di corporatura vigorosa, secco, col viso asciutto, amante d’alzarsi presto al mattino e appassionato alla caccia. Ritengono che il suo cognome fosse Quijada o Quesada, e in ciò discordano un poco gli autori che trattano questa vicenda; ma per congetture abbastanza verosimili si può supporre che si chiamasse Quijana. Ma questo poco importa al nostro racconto: l’essenziale è che la sua narrazione non si scosti di un punto dalla verità.
M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, trad. it di V. Bodini, Torino, Einaudi, 1957
Miguel de Cervantes
La società utopica
Don Chisciotte della Mancia, Cap. XI
Dopo che ebbe ben soddisfatto lo stomaco, don Chisciotte prese una manciata di ghianda e, guardandole assorto, sciolse la voce a tali ragionamenti: - Età felice e felici secoli quelli a cui gli antichi diedero nome di dorati, e non perché in essi l’oro, che nella nostra età di ferro tanto si stima, si ottenesse, in quell’epoca fortunata, senza fatica alcuna, ma perché piuttosto quelli che in essa vivevano, ignoravano queste due parole tuo e mio. Erano in quella santa età tutte le cose comuni; a nessuno, per procacciarsi il suo nutrimento normale, era necessario altro lavoro che quello di alzar la mano e prenderselo dalle robuste querce, che con il loro dolce e stagionato frutto liberamente li invitavano. Le chiare fonti e i correnti fiumi in magnifica abbondanza, gli offrivano acque vaporose e cristalline. Nelle fenditure delle rocce e nel cavo degli alberi formavano la loro repubblica le api sollecite e intelligenti, offrendo a qualsiasi mano, senza alcun interesse, il fertile raccolto del loro dolcissimo lavoro. I resistenti sugheri distaccavano da sé, senz’altro stimolo che quello della loro cortesia, le loro larghe e leggere cortecce, di cui si cominciarono a coprire le case, erette su rozzi pali, ma unicamente a difese dalle inclemenze del cielo. Tutto era pace allora, tutto concordia; non s’era azzardato il pesante vomere del curvo aratro ad aprire e esplorare le pietose viscere della nostra prima madre; ché, essa, senza esser sforzata offriva in ogni parte il suo spazioso e fertile seno, ciò che potesse saziare, alimentare e rallegrare i figli a cui apparteneva. Allora sì che erravano le ingenue e belle pastore di valle in valle e di colle in colle coi capelli lunghi e le sole vesti che occorrono per ricoprire onestamente ciò che l’onestà vuole ed ha sempre voluto che sia coperto, né le loro gale erano come usano oggidì, impreziosite dalle porpore di Tiro o dalla seta in tante guise martoriata, ma di foglie verdi di lappole e di edera, conserte, con cui forse andavano così eleganti ed ornate come oggi vanno le nostre dame di corte con tutte le rare e peregrine invenzioni che una fantasia oziosa ha escogitato per esse. Allora gli stessi concetti amorosi trovavano con ingenua semplicità un ornamento nel modo stesso in cui l’anima li concepiva, senza cercare artificiosi giri di parole per esagerarli. Alla verità e alla schiettezza non andava mescolata la frode, non la malizia e l’inganno. La giustizia se ne stava nei propri limiti senza che cercassero di sconfinare in essi, per turbarla e offenderla, favori e interessi che tanto ora la pregiudicano, la turbano e la perseguitano. La legge dell’arbitrarietà non si era ancora insediata nel cervello del giudice, perché non vi era a quei tempi che cosa e chi giudicare. Le fanciulle e l’onestà, come ho detto, potevano andar sole in qualsiasi luogo, senza timore che l’altrui intraprendenza e intenzione lasciva le corrompessero, e se si perdevano è per il loro stesso piacere e per volontà loro che ciò avveniva. Mentre ora, in questi nostri detestabili secoli, non ce n’è più nessuna al sicuro, quand’anche stia rinchiusa e celata in altro nuovo labirinto come quello di Creta; perché anche lì, per le fessure o attraverso l’aria, per la forza del maledetto istinto, penetra in esse l’amorosa infezione e le fa mandare a carte quarantotto tutto il loro ritiro. È per la loro sicurezza che, con l’andar del tempo e l’aumentare della malvagità, fu istituito l’ordine dei cavalieri erranti, per difendere le donzelle, proteggere le vedove e soccorrere orfani e oppressi. Di quest’ordine son io, fratelli caprai…
M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, trad. it. di V. Bodini, Torino, Einaudi, 1957
Forse inizialmente doveva essere una novella quello che divenne il capolavoro cervantino il Don Chisciotte (El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha), definito da molti critici come il primo romanzo moderno e comunque difficilmente inquadrabile in una forma narrativa preesistente. Nel Prologo della prima parte, pubblicata a Madrid nel 1605, leggiamo che fu concepito “in un carcere”, probabilmente in quella prigione di Siviglia ove l’autore era rimasto nel 1597. Leggiamo anche che la sua intenzione (in realtà di gran lunga oltrepassata) sarebbe di “abbattere l’autorità e il favore che hanno nel mondo e presso il volgo i libri di cavalleria”, raccontando le disastrose imprese del cavaliere don Chisciotte della Mancia e del suo scudiero Sancio Panza. Il primo è un hidalgo, un piccolo nobile di campagna decaduto, sulla cinquantina, il cui aspetto fisico viene descritto secondo il trattato medico-filosofico Esame degli ingegni (Examen de ingenios para las ciencias, 1575) di Juan Huarte de san Juan, che in base alla costituzione corporea esamina anche gli “ingegni”, le qualità e propensioni di ciascuno (don Chisciotte viene definito ingenioso, cioè dalla fertile capacità immaginativa). Questi impazzisce a causa di una smodata lettura di libri di cavalleria e assume addirittura come suo modello di vita il celebre eroe di tali libri Amadigi di Gaula. Armato goffamente all’antica si mette a vagare, cavalcando un ronzino, in cerca di occasioni in cui sia necessario il suo intervento; si fa armare cavaliere da un oste compiacente e continua il suo viaggio tra molte disavventure finché il curato e il barbiere lo riportano al villaggio e fanno un rogo di gran parte dei suoi libri. Don Chisciotte si mostra però incorreggibile e riparte una seconda volta, dopo essersi scelto come scudiero un contadino affamato quanto credulone, Sancio Panza, che si assenta dalla famiglia per inseguire il governatorato di un’isola promessogli da don Chisciotte. Ovviamente le gesta bizzarre che quest’ultimo compie nelle pianure della Mancia sono in gran parte fallimentari, anche perché scambia la realtà con le situazioni vissute dai cavalieri delle sue letture, il che crea un effetto comico. Così i mulini a vento si trasformano in giganti, le locande in castelli, un bacile in elmo, le greggi in eserciti, mentre una contadinotta, Aldonza Lorenzo, è idealizzata come fosse una dama d’ineffabile bellezza a cui dedicare le proprie imprese: Dulcinea del Toboso.
Nella seconda parte del libro (pubblicata nel 1615), si dà ormai per conosciuta la mania di don Chisciotte, e vari personaggi creano intorno a lui situazioni burlesche. Ciò avviene soprattutto ad opera dei Duchi che si divertono alle spalle di don Chisciotte e del suo scudiero, fanno credere loro di compiere un viaggio su un cavallo volante, affidano per burla a Sancio il governatorato dell’isola Barataria (nel quale compito egli mostra però un’innata saggezza). Inoltre, promettono di far “disincantare” la contadinotta/principessa sempre sognata dall’hidalgo. Di grande intensità è l’episodio della “grotta di Montesinos”, nel quale don Chisciotte, sull’esempio dell’Enea virgiliano, scende in un luogo sotterraneo, in cui si trovano famosi cavalieri del passato, strani cortei turcheschi, e dove fa una fugace comparsa anche Aldonza/Dulcinea. In quest’ultima serie di avventure gli spazi si allargano dalla Mancia all’Aragona e alla costa mediterranea della Catalogna e fanno incontrare il protagonista con personaggi delle più svariate condizioni: contadini, attori ambulanti, nobili di campagna e di città, moriscos espulsi, che tutti insieme compongono un pittoresco affresco della Spagna del Cinquecento. Infine don Chisciotte, sconfitto in singolar tenzone dal Cavaliere della Bianca Luna che vuole “guarirlo” dalla sua pazzia, torna tristemente al villaggio, ove in breve viene a morire. Pur rinnegando le passate follie e rinominandosi Alonso Quijano detto il Buono, don Chisciotte non può evidentemente vivere senza la sua dimensione fantastica. O forse Cervantes lo fa morire bruscamente per non lasciar sfruttare la sua immagine agli imitatori che ne stavano facendo una serie di avventure prolungabile a volontà, come si era fatto a suo tempo con i libri di cavalleria e come si poteva già vedere in Il secondo Chisciotte (El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, que contiene su tercera salida y es la quinta parte de sus aventuras) pubblicato nel 1614 da un certo Alonso Fernández de Avellaneda.
Rapido e grande è stato il successo del Don Chisciotte, ancorché inteso nei modi più svariati. Molti lettori lo hanno preso come un libro puramente comico e di intrattenimento, trascurando il fatto che le sue avventure sono legate anche a ideali, ragionamenti e libri. In alternativa è sorta una linea interpretativa che vede in don Chisciotte un eroico “cavaliere dell’ideale”, contrapposto al suo prosaico scudiero Sancio e agli altri esponenti del modo banale di vedere la realtà. È la cosiddetta interpretazione “romantica” sostenuta specialmente da filosofi idealisti come i fratelli Schlegel, Schelling, nonché Tiek, traduttore tedesco del Don Chisciotte. In realtà nel libro abbiamo una compresenza e contraddizione dialettica di aspetti contrapposti, che rendono la complessità della vita, dell’uomo e della storia. Oggi comunque sono fiorite nuove e più elaborate interpretazioni, che si giovano anche di nuove conoscenze (narratologia, sociologia, antropologia, psicoanalisi…). Ci limitiamo ad accennare ad alcuni dei tratti più significativi che secondo la critica recente caratterizzano il Don Chisciotte. Tra questi la metanarratività, per cui la storia narrata viene presentata e magari commentata, con effetto ironico, da qualche altro autore o manoscritto, dipendente a sua volta da altri, qui per esempio da un “traduttore arabo” o da certe “cronache della Mancia. Ciò fa sentire quanto sia labile il confine tra realtà e immaginazione, verità e finzione” (J.A. Parr). Troviamo inoltre una polifonia di linguaggi, legata all’intreccio di vari generi letterari: il linguaggio dei libri di cavalleria, quello della letteratura bucolica, delle discussioni neoplatoniche sull’amore, delle dispute dotte. È particolarmente sentito il riferimento al mondo folclorico, specialmente a quello delle feste carnevalesche basate sulla lotta tra l’allampanata Quaresima e il tondeggiante Carnevale, figure che si ritrovano nell’aspetto e nei caratteri di don Chisciotte e Sancio e mostrano anche legami con il teatro popolare, dagli spettacoli di strada alla Commedia dell’arte (cfr. gli studi di M. Bachtin, M. Molho, M. Socrate, A. Redondo, M. Moner, E. Cros). Né si può trascurare la dimensione dell’utopia in senso positivo come aspirazione a una società migliore per la quale appunto combatte don Chisciotte, una “repubblica” che torni a quella antica della libertà di tutti e specialmente delle donne (cfr. discorso sull’Età dell’Oro, Don Chisciotte, I, 10) o la dimensione della teatralità, che pervade le stesse opere narrative dell’autore. Superfluo poi sottolineare l’importanza dell’umorismo (che alcuni interpreti distinguono dall’ironia e dalla parodia) come abbassamento di ciò che si pretende superiore, nonché il problema dell’identità del soggetto, legato al tema del doppio (vedi in particolare la coppia don Chisciotte/Sancio) e della trasformazione.
Durante il periodo di elaborazione del suo capolavoro, nel 1615 pubblica la raccolta Otto commedie e otto intermezzi (Ocho comedias y ocho entremeses), pièces teatrali mai rappresentate. Nell’ambiente allora dominato dalla formula della “nuova commedia” di Lope de Vega, non avrebbero potuto aver successo; a lungo perdura il giudizio negativo sui drammi cervantini considerati spesso “novelle dialogate”. Gli intermezzi, brevi atti unici di cui Cervantes è considerato autore fondativo, hanno sempre goduto di maggior fortuna. Il più famoso è ll teatrino delle meraviglie (El retablo de las maravillas), una satira sociale sulle autorità dell’epoca e sui pregiudizi razziali, risolta in un fantasmagorico gioco del teatro nel teatro. J. Canavaggio rivaluta l’aspetto sperimentale di questa produzione cervantina da cui emerge l’insistenza sull’instabilità, sull’apparire e sull’illusione.
Nella sua ultima opera, Le peripezie di Persile e Sigismonda (Los trabajos de Persiles y Sigismunda), pubblicata postuma nel 1617, Cervantes si propone di superare la Storia etiopica di Eliodoro, modello del romanzo greco d’amore allora molto apprezzato. L’opera è divisa in quattro libri; i primi due sono ambientati nel mitico Nord descritto dal geografo Olao Magno, con gelidi mari e isole abitate talora da “barbari”, pur con qualche oasi di civiltà come l’isola utopica del re Policarpo; le vicende degli altri due libri continuano lungo i percorsi tradizionali via terra, dalla Penisola Iberica a Roma, descritti in guide di pellegrini, itinerari di diplomatici, letterati e mercanti. I protagonisti, Persile e Sigismonda, provenienti da due regni del Nord ai quali sono destinati, sono due giovani di bellezza quasi divina che prima di potersi sposare devono affrontare ogni genere di prove e peripezie: dalla separazione al ricongiungimento, dai naufragi ai rapimenti, dalle seduzioni alle gelosie. Attraverso tutto ciò l’amore deve purificarsi per arrivare a costituire la degna coppia regale che è anche, metaforicamente, la meta del processo alchemico.
Motore di tutta la vicenda è il desiderio, che però deve elevarsi in senso platonico e unirsi anche a un perfezionamento religioso, poiché i protagonisti vengono da terre dove non si conosce a fondo la dottrina cattolica, per cui vengono ad attingerla a Roma, centro della cristianità. Quest’ultima meta ha portato ad interpretare il romanzo come un’esaltazione dell’ideale controriformistico e quindi talora a vedere nell’ultimo Cervantes – come diceva C. de Lollis – un ripiegamento in senso “reazionario”. Cervantes, tuttavia, non sembra far perno, nello sviluppo della sua opera, principalmente su questioni dogmatiche, che in genere tratta in modo sommario e ironico; della Roma papale non traccia un panorama molto edificante. Un gran pregio comunque si ha nella straordinaria capacità dell’autore di intrecciare la trama principale con i racconti delle avventure dei pellegrini che via via si uniscono nel cammino, in un continuum narrativo ricco di sorprese che non allenta mai la tensione e che è sapientemente retto fino allo scioglimento della vicenda.