Jancsó, Miklós
Regista cinematografico ungherese, nato a Vác (Budapest) il 21 settembre 1921. Il suo nome è legato soprattutto ai film realizzati tra gli anni Sessanta e Settanta, in cui mise in scena nelle pianure sterminate del suo Paese, imponendosi come voce della nazione, la coreografia della Storia, narrandone tranelli e costanti, e raccontando il potere, la rivoluzione e la repressione, la musica e le danze tradizionali, con stile basato sul piano-sequenza e ispirato a Michelangelo Antonioni, che J. ha sempre considerato il suo maestro. Nel 1972 ha vinto al Festival di Cannes la Palma d'oro per la miglior regia con Még kér a nép (1971; Salmo rosso).
Nato da padre ungherese e madre romena, compì gli studi secondari in un collegio religioso, e dal 1939 al 1944 studiò giurisprudenza all'università di Kolozsvár in Transilvania (od. Cluj, in Romania); seguì quindi corsi di etnologia e storia dell'arte, e dal 1946 al 1950 studiò alla Filmművészeti Főiskola Színházművészeti (Accademia d'arte teatrale e cinematografica) di Budapest. Giovane comunista militante, diresse numerosi cortometraggi e documentari (alcuni dei quali girati durante un viaggio in Cina). Esordì nel lungometraggio a soggetto con A harangok Rómába mentek (1958, Le campane sono partite per Roma), cui seguì il più conosciuto Oldás és kötes (1963, Sciogliere e legare), tratto da Cantata profana di B. Bartók, sulla crisi degli intellettuali che avevano subito, da parte dei sovietici, sia la liberazione del 1945 sia la repressione del 1956. Con l'apertura politica di J. Kadar anche il cinema si rinnovò e J. diventò il simbolo del nuovo cinema ungherese, poiché metteva in scena la storia nella maniera più originale, con uno stile basato su pochi piani-sequenza elaboratissimi, capaci di contenere complesse scene di massa, in cui si articola una riflessione lucida e ampia sul contrasto tra rivoluzione e repressione, potere e individualismo, leggi morali e leggi degli uomini. Il suo particolare linguaggio, accusato talvolta di astrattismo (per l'uso antipsicologico degli attori, l'allusività del racconto, spesso portata all'estremo, il rifiuto del ritmo narrativo), nacque come reazione ai dettami del realismo socialista, alla cui scuola J. si era formato e che superò dopo il 1956. Il regista usava lo straniamento per raccontare di un potere che era lontano e assente già ai tempi dell'Impero austroungarico, e lo era ancora negli anni dell'occupazione sovietica, dopo il 1956: un rituale svuotato di significato risultava l'unica immagine possibile di una società alienata. Dopo Igy jöttem (1964, Il mio cammino) firmò Szegénylegények (1964; I disperati di Sandor), che lo lanciò sul piano internazionale. In questo primo film della trilogia sui momenti chiave della storia ungherese si mette in scena la repressione seguita ai moti del 1848: i ribelli guidati da Sandor, considerati dei banditi, sono perseguitati dal governo, che chiude centinaia di contadini in una fortezza dove si compiono rituali di sottomissione, finché si forma un plotone di cavalleria di 'disperati'. In Scillagosok katonák (1967; L'armata a cavallo), ambientato nella Russia del 1918, ai tempi della guerra civile, i cavalieri cosacchi 'bianchi' inseguono i soldati 'rossi', tra cui vi sono anche degli ungheresi. Si mette in scena un'altra lotta fratricida in Csend és kiáltás (1968; Silenzio e grido), titolo che assembla programmaticamente un film di Ingmar Bergman e uno di Antonioni: ambientato nel 1919, subito dopo la caduta della Repubblica dei consigli ungherese, descrive un ambiguo gioco di repressione, in cui un ufficiale bianco utilizza un contadino per snidare i soldati rossi, pur conoscendone bene i nascondigli.
I film di J., in quel periodo di ribellione e contestazione in Europa, si presentarono come coreografie che accompagnavano i movimenti studenteschi, sebbene contenessero molti lati oscuri non ancora comprensibili in Occidente. Fényes szelek, conosciuto anche con il titolo francese Ah, ça ira! (1968; Venti lucenti), ispirato direttamente al Maggio francese, divenne successivamente una rappresentazione teatrale.
I quattro film seguenti sono dedicati al potere fascista: Téli sirokkó (1969, Scirocco d'inverno), coproduzione franco-ungherese, è basato sull'attentato del 1934 contro il re di Iugoslavia Alessandro I da parte di un gruppo di ustascia, i nazionalisti croati. Égi bárány (1970; Agnus Dei) racconta del fascismo ungherese, l'hortysmo, nel periodo in cui cercò di piegare il popolo all'obbedienza, dopo la caduta della Repubblica dei consigli. In Italia J. girò La pacifista (1971), sceneggiato da Giovanna Gagliardo (con cui J. collaborò anche per i film successivi) e interpretato da Monica Vitti, che risulta un irrisolto compromesso tra lo stile astratto del regista e i canoni realistici del cinema italiano d'impegno civile. La tecnica e il rito (1971), girato per la RAI, è l'ultimo dei film sulle radici del fascismo ungherese: la figura di Attila re degli Unni (interpretato da Jószef Madaras) si pone all'inizio di una catena ininterrotta di capi assoluti, che giunge sino ad A. Hitler, B. Mussolini, I.V. Stalin. Tornato in Ungheria, J. dimostrò di aver raggiunto un diverso livello di elaborazione artistica: in Még kér a nép, messa in scena politico-simbolica di una rivolta contadina, il proprietario invita all'unità nazionale ma muore sul colpo, i contadini sono massacrati, ma una ragazza resuscita. È un film tutto basato su canti e danze, uno spettacolo musicale della rivoluzione in cui un uso inedito della gru è teso a esplorare confini ancora più vasti; venne trasportato anch'esso in teatro.
Di nuovo per la RAI realizzò Roma rivuole Cesare (1973), un'altra problematica meditazione sulla Storia, dove alle tematiche già espresse si aggiunsero nuove scoperte stilistiche: nella colonia della Numidia i patrizi intessono una ribellione simile a quella che nella capitale porterà all'assassinio di Cesare; ma con l'ascesa al potere di Ottaviano sopraggiunge un senso di disfatta. Un'incursione nel mondo del mito e della tragedia J. intraprese con Szerelmem, Elektra (1974; Elettra, amore mio), dove Elettra assume il potere con il fratello Oreste dopo la morte del tiranno e la liberazione del popolo, e dove i colori irrompono magnifici, come nella scena dell'elicottero rosso che appare in cielo con la scritta 'rivoluzione'. Ebbe problemi con la censura Vizi privati, pubbliche virtù (1975), che trasforma la tragedia di Mayerling in un balletto erotico-funebre, in chiave austroungarica, sulla morte della famiglia.Seguì un'altra trilogia ispirata alla vita del politico ungherese E. Bajcsy-Zsilinszky: Magyar rapszódia (1979, Rapsodia ungherese), Allegro barbaro (1978), entrambi selezionati a Cannes, e un terzo film rimasto allo stadio di progetto. In Zsarnok szive, avagy Boccaccio Magyarorszáagon (1981; Nel cuore del tiranno) girato in Ungheria, un principe del 15° sec. (György Cserhalmi), erede del trono magiaro, torna nel suo Paese con un buffone di corte (Ninetto Davoli), ma perde la memoria; gli intrighi di palazzo si intrecciano alla messa in scena di una novella di Boccaccio, divenuta metafora della situazione di un uomo che vive nel totalitarismo, senza avere nessuna influenza sugli eventi.I film che J. ha realizzato in seguito si sono allontanati dalle tematiche storiche e hanno scelto ambientazioni contemporanee: sono improntati a un sostanziale scetticismo, sempre più accompagnato da un approccio ironico che diventerà la caratteristica predominante del suo ultimo periodo. Sul piano dello stile, all'uso del piano-sequenza J. ha aggiunto monitor televisivi disseminati in scena al fine di moltiplicare lo spazio.
Dopo Hajnal (1985, L'alba), dramma di un terrorista sionista incaricato di uccidere un soldato inglese, con Szörnyek évadja (1987; La stagione di mostri) il regista ha filmato un conflitto di idee: l'egualitarismo trasmesso dal cristianesimo e dalla Rivoluzione francese si scontra con l'elitismo e con la paura trasmessa dalle teorie del disastro. Quindi Jézus Krisztus horoszkópja (1988, L'oroscopo di Gesù Cristo) offre uno sguardo sugli avvenimenti (le visite ufficiali di N.S. Chruščëv, le critiche di Lenin a Stalin e vari episodi della Storia ungherese) che hanno preparato la nuova era di M.S. Gorbacëv. Il primo film realizzato dopo la caduta del muro di Berlino è Isten hátrafelé megy (1991, Dio va indietro), sull'Ungheria dopo la fine del comunismo, girato in una chiave di commedia insolita per J., con il grande interprete del cinema ungherese degli anni Ottanta, Károly Eperjes. Dopo Kék Duna keringó (1992, Il valzer del Danubio Blu), un thriller politico coprodotto insieme all'americano Michael Fitzgerald, J. è diventato popolare tra i giovani ungheresi, anche per il film ricco di canzoni Nekem lámpást adott kezembe az ur Pesten (1999, A Pest il Signore mi ha messo una lanterna nelle mani), ai primi posti nella classifica degli incassi. Alla fine degli anni Ottanta ha iniziato ad apparire nei suoi film nella parte di sé stesso, fino a essere salutato come 'zio Miki' da alcuni giovani alle cascate del Niagara, come avviene in Utolsó vacsora az arabs szürkénél (2000, Ultima cena del cavallo arabo grigio). Kelj fel, kornám, ne aludjal! (2002, Sveglia compagno, non dormire!) è una rievocazione quasi autobiografica del periodo in cui, durante la Seconda guerra mondiale, era un giovane militare in Unione Sovietica.
Dal 1988 insegna alla Filmművészeti Főiskola Színházművészeti di Budapest, e fra il 1990 e il 1992 ha insegnato alla Harvard University.
G. Buttafava, Miklós Jancsó, Firenze 1974.
A. Szekfű, Fényes szelek, fújjátok! Jancsó Miklós filmjeiről (Venti luminosi, soffiate! La filmografia di Miklós Jancsó), Budapest 1974.
E. Gyertyán, Jancsó Miklós, Budapest 1975.
Jancsó Miklós, a cura di É. Abonyi, I. Zsugán, Budapest 1975.
Miklós Jancsó, éd. M. Estève, Paris 1975.
E. Castaldini, Il vertice della parabola: cinema bianconero di Miklós Jancsó, Bologna 1976.
Y. Bíró, Jancsó, Paris 1977.
G. Marlia, Lo schermo liberato: il cinema di Miklós Jancsó, Firenze 1982.
I. Brachtlová, Miklós Jancsó, Praha 1990.
Magyar rapszódia. Jancsó Miklós filmjei (Rapsodia magiara. I film di Miklós Jancsó), a cura di M.B. Müller, Szekszárd 1991.
J. Marx, Jancsó Miklós két és töb élete (Miklós Jancsó due vite), Budapest 2000.