Milano riprova a salire
Nella capitale dell’Expo si è risvegliato il mito della «città che sale», dopo decenni di tentativi fallimentari che hanno bloccato la modernizzazione della città rispetto a tutte le metropoli europee. Ma se ai tempi di Gio Ponti e Magistretti erano i progettisti milanesi a firmare i grattacieli, adesso l’invasione delle archistar straniere produce innesti non sempre riusciti.
Dai treni in arrivo alla Stazione centrale la visione è impressionante. Se prima vi svettava solitaria l’affusolata losanga del Pirelli, adesso la nuova downtown milanese assomiglia a un puntaspilli che ricorda in scala minore le metropoli americane. L’impatto è innegabilmente forte, come i toni della ricezione, divisa tra l’accettazione entusiasta e lo scontroso rifiuto di chi la pensa un’occasione perduta. Dalle strade del centro storico la visione è caleidoscopica: una base in marmo e metallo, qualche pensilina dalle forme ricurve, lo scatto di una punta, di una spirale o di un improbabile ‘diamante’ di vetro. Tra le 2 scale – quella minuta del centro e quella fuori scala della città verticale – non c’è mediazione, ma scontro. Da lontano o da vicino, non c’è dubbio insomma che l’invasione degli ‘ultracorpi’ architettonici ha cambiato la percezione della città, segnando uno scatto irreversibile dell’immagine della Milano del 21° secolo all’inizio di una nuova stagione del suo sviluppo.
Dalla fine del 19° all’inizio del 21° secolo, infatti, Milano è cambiata radicalmente almeno 3 volte: a ogni mutazione corrispose un cambio di paradigma, un salto di scala che registrava ambizioni, speranze, aspettative, stili di vita e scenari politici e culturali tra loro assai diversi. Milano cominciò a crescere alla fine dell’Ottocento, dopo l’Unità: Umberto Boccioni, dalla finestra del suo studio in corso di Porta Romana, la rappresentò come la «città che sale». Un tumultuoso cantiere, dove la fatica dell’uomo assecondava la spinta della terra a spaccarsi per fare emergere un reef di cemento – una barriera corallina o forse una corona di ferro – a minaccia o a protezione del vecchio cuore della città dei navigli. Era la Milano dei futuristi, ancora vestita di sontuosi abiti liberty ma spavalda nella sua corsa verso la ‘modernità’.
Si infranse però sulle trincee della Grande guerra, o meglio si arrestò momentaneamente per riprendersi qualche anno dopo, nel famigerato ventennio, con la forza di una nuova borghesia imprenditoriale rappresentata nella severa attitudine di palazzi confortevoli ma austeri, di perfette macchine per uffici, di teatri, di bar, di vetrine e di negozi di lucida e razionale bellezza. La torre Rimini in piazza S. Babila fu come una bandiera piantata nel centro in segno di conquista: il tema del ‘grattanuvole’ prese quota e, anche se quasi tutti i suoi propositi rimasero sulla carta, contribuì a far ‘salire’ di quota la città con i grandi palazzi per uffici e alberghi rievocati superbamente da Alberto Savinio nel romanzo urbano Ascolto il tuo cuore, città. Ci pensò ancora una volta una guerra mondiale – questa volta distruttiva – a imporre un’altra lunga sospensione al suo sviluppo. Ma quando le forze furono pronte e la voglia di fare impose le sue regole al ‘miracolo economico’, Milano esplose ancora una volta in una miriade di piccoli grattacieli – dal Pirelli alla torre Galfa o alla Velasca – che avrebbero voluto farne il simbolo incarnato della ‘capitale morale’, naturalmente moderna. Una modernità i cui parametri erano stati fissati in America, ma che a Milano si pretese di riconvertire in un personale gergo anglo-lombardo. Magistretti, Caccia Dominioni, Gio Ponti pretesero di rifare i grattacieli international style con la raffinatezza dell’artigianato italiano, producendo torri, palazzi, condominii che presto fecero scuola presso gli stessi paesi che volevano colonizzare il mondo. Poi, per decenni fu il silenzio totale, la confusione di piani tanto ambiziosi quanto fallimentari che condannarono Milano (e con lei l’intero paese) a un declino e a un degrado tanto più penosi quanto più raffrontati alla rinascita delle capitali che, a partire dalla fine degli anni Ottanta, caratterizzò la risposta dell’Europa alla prime avvisaglie della globalizzazione.
Al declino della nozione di Stato in un’economia ormai senza barriere né confini dovevano corrispondere nuove città-Stato, hub metropolitani capaci di concorrere sul mercato internazionale per attrazione e vitalità di proposte. A questo traguardo inevitabile Milano è arrivata tardi e senza programmi di largo respiro: c’è voluto quasi mezzo secolo perché la città si risvegliasse dal grande sonno e la punteggiatura dei cantieri nei vari quadranti della sua topografia urbana rilanciasse il mito della «città che sale». Con una differenza però rispetto al passato: questa volta non è stato un piano regolatore o una visione unitaria a far crescere la città ma gli animal spirits del capitalismo finanziario.
Le aree lasciate libere dalla deindustrializzazione hanno evidenziato la necessità di far fruttare una ricchezza a portata di mano: gli stabilimenti della Bicocca, del Portello, dell’Innocenti, dell’Ansaldo, della Carlo Erba, della Fiera ecc. sono stati i primi incubatori di nuovi quartieri delle comunicazioni, dell’intrattenimento, del consumo. Poi si sono aggiunte le aree abbandonate e, come in un gioco di tasselli a caduta, gli spazi ristrutturati dei grandi fossili industriali: l’Ansaldo (Museo delle Culture), la Nestlé (teatro Armani), il complesso di largo Isarco (Fondazione Prada) e persino il guscio nobile dell’Arengario di piazza Duomo, nel cui interno si è imbozzolato il Museo del Novecento. Se nel passato la crescita della città fu l’occasione per gli architetti milanesi di aggiornare il loro vocabolario e istruire la grammatica di un milanese moderno, ora la moltiplicazione dei linguaggi a opera di tanti architetti stranieri testimonia la natura multiculturale della metropoli sino al limite della Babele delle parole. Accanto a innesti felici – come l’eloquio duro e senza mezzi termini dello studio irlandese Grafton nell’ampliamento della Bocconi o quello silenzioso di David Chipperfield nella Città delle Culture all’Ansaldo – sembrano esotiche evasioni in un immaginario globalizzato le prove dell’olandese Van Egeraat nel masterplan di Milanofiori Nord, quelle di César Pelli, di Kohn Pedersen Fox associates (KPF), di Arquitectonica, ecc. a Porta Nuova-Garibaldi. Milano attendeva una rivoluzione radicale del suo assetto che le consentisse di competere sul mercato delle città-capitali: rimane tuttavia il dubbio se questa effervescenza, più anarchica che vitale (emblematiche le vicissitudini dell’Expo), possa influire realmente sulla sua vocazione mondiale.