MILANO
(lat. Mediolanum)
Città dell'Italia settentrionale, situata nella pianura Padana, capoluogo della regione Lombardia.
Delle origini celtiche della città è giunta sino a oggi la forma latinizzata del nome, Mediolanum, esprimente un concetto di medietà (non è chiaro rispetto a che cosa), mentre una serie di reperti archeologici dei secc. 3° e 2° a.C. lascia intuire l'esistenza di un primitivo insediamento insubre (non necessariamente unitario e fortificato) nelle adiacenze dell'od. piazza del Duomo. Definitivamente passato sotto l'egemonia romana negli ultimi anni del sec. 2° a.C., l'abitato ricevette una sistemazione secondo assi ortogonali attorno al foro (od. piazza San Sepolcro), ancora in parte riconoscibile; l'impianto a scacchiera fu ben presto superato dal successivo sviluppo edilizio e probabilmente nella seconda metà del sec. 1° a.C. - come hanno accertato gli scavi archeologici - un'area urbana di ha 52 ca. venne per la prima volta circondata da solide mura, nelle quali si aprivano sei porte raccordate con la grande viabilità dell'Italia settentrionale.Nel 286 d.C., dopo la crisi che infierì nella seconda metà del sec. 3°, M. venne scelta come residenza dall'imperatore Massimiano. Le nuove funzioni portarono alla città un imponente accrescimento, che tra il 286 e il 305 rese necessario l'ampliamento della cerchia difensiva soprattutto verso E, dove si aprirono tre nuove porte; l'area intramuranea fu così elevata a ha 106 ca., con l'inclusione a N del circo, da poco tracciato, e dell'adiacente quartiere imperiale con la chiesa palatina di S. Lorenzo, mentre a S-E le mura inglobarono il poderoso complesso delle terme Erculee. Alla metà del sec. 4° la strada che portava verso Roma (od. corso di Porta Romana) venne prolungata all'esterno delle mura in una monumentale via porticata conclusa da un grandioso arco onorario. Nello stesso periodo, sotto il vescovado di s. Ambrogio (374-397), nacquero i primi e più importanti edifici di culto cristiani: la cattedrale dedicata al Salvatore (poi S. Tecla) con il battistero di S. Giovanni alle Fonti (presso l'od. duomo) e la corona di basiliche esterne alle mura, rispettivamente dedicate ai ss. Apostoli (poi S. Nazaro), ai Martiri (S. Ambrogio), alle Vergini (S. Simpliciano), al Salvatore (S. Dionigi, oggi scomparsa).Con il trasferimento della residenza imperiale a Ravenna (403) si aprì per M. un lungo periodo di crisi, entro il quale si inserirono i danneggiamenti provocati dall'incursione di Attila nel 452. La conquista ostrogota (489-494) e la guerra greco-gotica (535-553) comportarono a loro volta violenze e gravi distruzioni, soprattutto a causa dell'assedio e del successivo eccidio compiuto dal goto Uraia nel 539; i dati archeologici consentono di riferire a tale circostanza la demolizione della via porticata, poi restaurata e completata nel corso del 6° secolo. Dopo la vittoria bizantina le mura avrebbero nondimeno beneficiato di un restauro per iniziativa di Narsete. La conquista longobarda, se non provocò altri guasti, indusse il vescovo e numerose famiglie abbienti a migrare a Genova per molti decenni. L'abitato si restrinse prima ad aree limitate e si ebbe poi una "quasi completa cancellazione della città come realtà residenziale e demografica" (Scavi MM3, 1991, p. 357), ciò che potrebbe giustificare la scelta, fatta dai re longobardi, di stabilire la loro residenza in Pavia.Nel 613 Agilulfo datò dal palatium di M. un suo diploma e tre anni dopo, nel circo, Adaloaldo venne acclamato re: a quest'epoca sono quindi da attribuire i segni di ripresa documentati dagli scavi, poiché al tempo di re Liutprando (712-744) i Versus de Mediolano civitate esaltano la città, enfaticamente descritta come ancora racchiusa nelle mura massimianee, apparentemente intatte, nonostante le distruzioni dei secoli precedenti. Esse avrebbero poi subìto un ulteriore restauro per interessamento dell'arcivescovo Ansperto (868-881), opera di cui tuttavia mancano per ora prove materiali; nuovi guasti furono del resto provocati da un assedio dell'imperatore Lamberto nell'896.Grazie alla ricchezza e all'intraprendenza dei suoi arcivescovi la città riguadagnò prestigio durante l'età carolingia e ottoniana. Pur senza disporre di alcuna esplicita delega regia, i capi della Chiesa milanese esercitarono un potere politico che ne fece per qualche secolo, di fatto, gli arbitri della vita cittadina, toccando il vertice con la robusta personalità di Ariberto d'Intimiano (1018-1045). Essi misero a punto il rito ambrosiano e, oltre a governare l'ampia diocesi, estesero, in quanto metropoliti, la loro autorità su numerosi altri vescovadi dell'Italia settentrionale; inoltre disposero di amplissimi possessi e trattarono in modo diretto con gli imperatori, soppiantando le funzioni della capitale formalmente rimasta a Pavia. Fra i secc. 10° e 11° la potenza vescovile trovò una celebrazione nel Libellus de situ civitatis Mediolani, che cercò di attribuire alla cristianità milanese una dignità 'apostolica' non inferiore a quella romana. Legati ai vescovi, fiorirono alcuni monasteri urbani (primo fra tutti S. Ambrogio), la cui importanza economica si diffuse nell'intera area della metropoli milanese; intorno a essi si sviluppò dall'Alto Medioevo l'attività di numerosi negotiatores impegnati nel rifornimento della città, che, almeno dalla metà del sec. 10°, doveva ospitare un mercato, in corrispondenza dell'od. piazza del Duomo.Vere e proprie 'crisi di crescita' interessarono M. nell'età precomunale, manifestandosi prima nelle lotte intestine fra le classi dei milites e dei pedites e assumendo poi un contenuto religioso nel movimento della pataria rivolto contro il clero mondanizzato. Il vigore politico ed economico della società milanese trovò di lì a poco espressione nella nascita del Comune urbano, sanzionata dalla magistratura consolare, che compare per la prima volta nel 1097. Dai cronisti che narrano le lotte dell'età precomunale (Arnolfo di Milano, Landolfo Seniore, Andrea da Strumi) emerge l'immagine di una città capace di organizzare militarmente la propria popolazione partecipando a lunghe spedizioni e difendendosi contro gli eserciti imperiali che l'attaccavano. M. era ancora efficacemente protetta dalle mura e dalle torri della cerchia massimianea, il teatro romano era luogo di riunioni collettive e l''arco di porta Romana', residuo dell'antica via porticata, dovette adattarsi a funzioni difensive. La città continuò dunque a giovarsi dei monumenti tardoantichi sopravvissuti alle distruzioni; accanto a essi svolsero però un ruolo militare, nelle lotte interne, anche le nuove torri private urbane, che erano innanzitutto simbolo di prestigio: la crisi e lo spopolamento dell'Alto Medioevo erano definitivamente superati.La documentazione d'archivio dei secc. 10°-11° consente di rilevare un continuo flusso migratorio avviato dal contado verso la città; nello stesso tempo, l'acquisto di terre in campagna da parte dei cittadini testimonia un rapporto dialettico ininterrotto fra M. e il suo territorio. L'inurbamento è rilevabile, oltre che dall'aumento dei prezzi delle case, dalla loro crescita in altezza e dalla costruzione e ricostruzione di numerose chiese dentro e fuori dalle mura, in corrispondenza con il formarsi di sobborghi. Il gran numero di monete scoperto negli scavi conferma, anche per via archeologica, il momento di eccezionale vitalità.Liberatosi ben presto dal potere vescovile, il neonato Comune si scontrò con le città vicine che si opponevano alla sua affermazione: travolse Lodi (1111), conquistò Como (1127) e ripetutamente venne a conflitto con Pavia e con Cremona, puntando decisamente all'egemonia regionale. Le vittime dell'esplosiva espansione milanese sollecitarono l'intervento di Federico I, che si attuò poco dopo la metà del 12° secolo. Fu probabilmente nel 1156, di fronte alla minaccia imperiale, che la città provvide a rafforzare le sue difese secondo un progetto del famoso ingegnere militare Guintelmo (o Guintellino): venne allora allestito un fossato rafforzato da terrapieno e palizzata (tonimen) lungo un ampio tracciato anulare che rinserrò i sobborghi e sul quale sorsero nuove porte in asse con le più antiche.L'imperatore, con l'aiuto delle città italiane sue alleate, nel 1158 e poi nel 1162, finì per costringere il potente Comune a una duplice resa. In conseguenza della sconfitta la popolazione cittadina venne temporaneamente costretta a vivere in quattro borghi indifesi fuori del circuito urbano, mentre questo venne condannato a una sistematica distruzione. Lo stesso sovrano annunciò la sua vittoria affermando: "fossata complanamus, muros subvertimus, turres omnes destruimus ipsamque civitatem in ruinam et desolationem ponimus" (MGH. Dipl. reg. imp. Germ., X, 2, 1979, p. 192, doc. 351); ma l'antica cerchia romana, come attesta il cronista Ottone Morena nella Historia Frederici I, non poté essere annientata.Tra il 1162 e il 1171, con la creazione del fronte antisvevo che si stabilizzò poi nella Lega Lombarda, gli alleati di M. ricondussero gli esuli nella loro città e dal 1171 provvidero ai lavori di rifortificazione, celebrati in seguito nei bassorilievi di porta Romana (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica). Il fossato e il terrapieno precedenti vennero ripristinati e furono allestite sette porte e dodici pusterle in muratura, le prime munite di norma di doppio fornice e di due torri laterali, le seconde di un solo fornice e di un'unica torre; di esse alcune sono giunte in tutto o in parte sino a oggi, di altre sono noti il sito e la struttura.La nuova cerchia difensiva racchiuse una superficie di ben ha 260, entro la quale si manifestarono gli sviluppi e le trasformazioni della piena età comunale. La Storia di Bernardino Corio ha tramandato notizia di un progetto di intervento urbanistico del 1228 (non si sa se poi effettivamente realizzato) che stabiliva di far convergere sul broletto - la nuova sede del Comune allora costruita - otto strade che si dipartivano da altrettante porte urbane.Al medesimo periodo sono probabilmente da attribuire le strutture edilizie sempre più complesse accertate dagli scavi archeologici: esse apparterrebbero perciò alla ricca e vivace città descritta nel 1288 dal De magnalibus Mediolani di Bonvesin da la Riva, circoscritta, entro ampio e profondo fossato, da terrapieno rivestito nella sua scarpata esterna da solido muro, e attraversato da porte e pusterle in muratura. Anche se quelle difese non rinserravano davvero, come l'autore vorrebbe, una popolazione di duecentomila abitanti, la M. di quel tempo era comunque la più grande città italiana tanto per superficie quanto per popolazione. Molti altri abitanti vivevano peraltro nei sobborghi già formatisi fuori delle fortificazioni e nelle numerose cassine periurbane, indizio, gli uni e le altre, di un organismo in continua crescita, di cui si ha conferma non dubbia anche attraverso la coeva documentazione d'archivio.All'interno della città si andavano occupando gli spazi rimasti sino ad allora inedificati, compreso l'apparato difensivo di età romana: a quest'epoca si deve perciò collocare la demolizione della cerchia massimianea, di cui è pervenuto solo un piccolo tratto presso il circo, nell'area occupata allora dal monastero Maggiore. L'incremento abitativo fu però evidente soprattutto nel suburbio, dove si manifestò attraverso la lottizzazione di vasti campi (braide) in possesso di alcuni monasteri, per fare posto a un'immigrazione spontanea di uomini (in generale di buona condizione economica) provenienti, oltre che dall'immediato contado, anche da alcune città limitrofe. È talora possibile verificare e integrare i dati forniti da Bonvesin anche in certi particolari edilizi e dell'arredo urbano, come i luoghi delle attività mercantili e artigianali e la presenza di piazze e di coperta (da intendersi come porticati e logge, nessuno dei quali è giunto integro sino a oggi); benché il De magnalibus Mediolani non ne faccia alcun cenno, non mancavano a M. le torri private, tipiche di tutte le città comunali italiane.Il fossato che circondava le fortificazioni aveva uno sviluppo di km 6 ca. e una larghezza di almeno m 18; esso era alimentato (come già avveniva in età romana) dai fiumi Seveso, Nirone e Olona defluenti nel Lambro attraverso la Vettabbia; all'inizio del sec. 13° esso venne collegato con il Ticino attraverso il naviglio Grande, assumendo così rilevante interesse anche come via di comunicazione. Altri importanti raccordi vennero realizzati nei secoli seguenti dando luogo alla c.d. cerchia dei navigli, che rimase in funzione anche quando le difese si spostarono su una posizione più esterna.A fronte della prosperità economica stanno nel Duecento le discordie intestine fra l'antica aristocrazia urbana e la Credenza di s. Ambrogio, espressione dei ceti produttivi; il perdurare delle lotte portò la città, dopo la metà del secolo, sotto il governo signorile, rappresentato prima dai Torriani e quindi, dopo il 1287, dai Visconti, che agivano come capitani del popolo. I primi tornarono ancora al potere dal 1302 al 1311, per cedere poi definitivamente il posto agli antagonisti. Dal 1330 i Visconti legittimarono l'esercizio del potere con il titolo di vicario imperiale; sotto di essi M., perdendo l'autonomia, acquistò in compenso la pace interna e realizzò le sue antiche ambizioni di supremazia regionale. Con Gian Galeazzo Visconti (1385-1402), anzi, i signori di M. aspirarono a imporre sull'intera Italia centrosettentrionale il loro dominio, sanzionato nel 1395 dal conseguimento del titolo ducale.Ridimensionato nelle sue aspirazioni dalla serrata opposizione degli altri grandi potentati della penisola e dalla prematura morte di Gian Galeazzo, il ducato visconteo si stabilizzò a dimensione regionale con Filippo Maria (1412-1447) e alla sua morte, dopo la breve parentesi della Repubblica ambrosiana (1447-1450), passò nelle mani di Francesco Sforza (1450-1466), fondatore di una dinastia che dominò per un cinquantennio (1450-1499), fino all'inizio dell'età moderna.Nei primi decenni del Trecento, sotto la signoria dei Visconti, venne messo a punto un nuovo fossato difensivo più esterno, il Redefossi, rafforzato in seguito da opere fortificatorie semipermanenti per cura di Azzone Visconti (1329-1339). Dal Redefossi presero origine, nel corso di quel secolo, due nuove vie d'acqua, il Ticinello e il naviglio Pavese (1365); sulle acque interne si vennero inoltre moltiplicando mulini e altre macchine idrauliche al servizio della città e delle sue attività manifatturiere in continuo incremento. Durante il terzo decennio del secolo la M. viscontea viene celebrata nelle cronache di Galvano Fiamma e per la prima volta schematicamente raffigurata mediante due cerchi concentrici che simboleggiano le sue cinte difensive; colpita, insieme con il resto dell'Europa occidentale, dalla grande pestilenza di metà secolo, non beneficiò di alcun notevole sviluppo urbano.I Visconti, nello spirito del governo signorile, intervennero sulle difese esterne e avviarono un piano edilizio di grande prestigio. La dimora dei signori si fissò inizialmente sul lato orientale dell'od. piazza del Duomo, nel sito della prima sede comunale, ma dal 1354 il potere sulla città venne diviso tra Bernabò Visconti (1354-1385) e il fratello Galeazzo II (1354-1378), ciascuno dei quali aspirava ad avere una propria residenza. Dopo il 1358 il primo allestì una 'cittadella' a cavallo delle mura meridionali, inglobando in un unico complesso fortificato porta Romana e porta Nuova. Dal 1368 fa riscontro, sul lato opposto della cerchia urbana, il grande quadrilatero di porta Giovia, sorto per iniziativa di Galeazzo, primo nucleo del futuro castello residenziale, cui lavorarono intensamente gli ultimi Visconti e poi gli Sforza. Nel 1386, per volere di Gian Galeazzo, iniziò la costruzione del nuovo grandioso duomo, i cui lavori si prolungarono per più secoli.
Bibl.:
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La difficile ricomposizione dell'immagine urbana di M. altomedievale si appoggia alla lettura dei Versus de Mediolano civitate (post 738) e del Libellus de situ civitatis Mediolani (sec. 10°), mentre dall'approccio archeologico, pur sorretto negli ultimi decenni da nuove metodologie, si ricavano dati frammentari, che sono stati utilmente correlati ai risultati emersi da vecchie campagne di scavo.Porzioni consistenti delle mura tardoantiche dovevano essersi conservate nel corso dell'Alto Medioevo e la persistenza del circuito delle mura romane è ricordata dai Versus de Mediolano civitate secondo una formulazione elogiativa almeno in parte da riferire all'accentuazione retorica (Lusuardi Siena, 1986); l'apparecchiatura muraria con blocchi squadrati corrisponde tuttavia ai resti archeologicamente documentati al Carrobbio, al monastero Maggiore e a S. Maria d'Aurona. È stato anche evidenziato un sistema di rafforzamento con un muro più grosso in via S. Vito e in via delle Ore; l'integrazione con conci provenienti dall'anfiteatro segnala soltanto un termine post quem degli inizi del sec. 5° per questo tratto della cinta urbica. L'espansione sulle mura tardoantiche si documenta per il monastero e per la chiesa longobarda di S. Maria d'Aurona, per la cappella di S. Silvestro, per il settore sottostante la chiesa di S. Donnino alla Mazza, e, dall'età carolingia, per il monastero Maggiore, sorto tra le mura urbiche e la parete di fondo del circo; entro quest'ultimo complesso, che comprendeva un vasto brolo, una struttura riferibile all'età carolingia viene identificata nella sezione terminale, con una trifora su ogni lato, della torre quadrata di via Luini, forse in origine pertinente ai carceres del circo.Le fonti non forniscono indicazioni sugli edifici eretti in M. in anni prossimi all'arrivo dei Longobardi e nella prima età longobarda. Le fondazioni di una piccola abside dietro l'altare di S. Eustorgio e frammenti murari entro l'emiciclo absidale della chiesa attuale sono stati giudicati pertinenti al tempo di Eustorgio I (ca. 343-355) e di Eustorgio II (511-518). Tra i secc. 6° e 7° è stata datata la chiesa di S. Giovanni in Conca, un'aula rettangolare absidata, segnata all'esterno da robusti contrafforti rettangolari, una struttura sorta sull'area di una domus del sec. 3° in una zona interna alle mura repubblicane, ma forse abbandonata nel corso del 5° secolo. Incerta rimane la datazione del sacello cruciforme, documentato dallo scavo entro la chiesa di S. Maria la Rossa, all'esterno della città sulla via verso Pavia.Il tessuto urbano era comunque segnato da importanti edifici paleocristiani, sui quali i rifacimenti altomedievali si documentano in modo molto incerto.La cattedrale doppia aggregava, secondo una sequenza assiale, la grande chiesa paleocristiana, dedicata originariamente al Salvatore, e almeno dal sec. 8° a s. Tecla - scavata sotto l'od. piazza del Duomo da de Capitani D'Arzago (1952) e da Mirabella Roberti (1963) -, il battistero ottagonale di S. Giovanni alle Fonti a E e la chiesa di S. Maria Maggiore, ubicata sotto il duomo attuale. S. Tecla è citata come chiesa aestiva solo a partire dall'879 nel testamento dell'arcivescovo Ansperto (Porro Lambertenghi, 1873, nr. 290), mentre la chiesa di S. Maria è ricordata come iemale soltanto nel 915 (Picard, 1988, pp. 98-99). Si discute se lo schema assiale ricalchi un assetto precedente, mentre dalla lettera di Ambrogio alla sorella Marcellina (Ep., I, 20; CSEL, LXXXII, 1982, pp. 108-125; de Capitani D'Arzago, 1952, pp. 166-168) si evince la contiguità della ecclesia maior, definita anche come nova, alla vetus, detta anche minor (poi S. Maria iemale), sottintendendone la precedenza nel tempo. Inoltre, se si identifica la vasca battesimale, ritrovata nel 1899 sotto la sagrestia aquilonare del duomo attuale, con quella del battistero di S. Stefano, ricordato agli inizi del sec. 6° da Ennodio (CSEL, VI, 1882, p. 160), si deve ritenere che tale struttura fosse connessa a un edificio chiesastico, forse la vetus precedente S. Maria iemale. La notizia della sua costruzione nell'836, riferita dagli Annales Mediolanenses minores, potrebbe indicare un rifacimento connesso alla vita comune del clero. Mentre la denominazione di minor potrebbe essere derivata da un'articolazione in tre navate della chiesa, tra i pochi dati relativi alla chiesa di S. Maria Maggiore, si ricordano il ritrovamento di settori murari, di colonnine e di pilastrini attorno allo scurolo, l'identificazione del diaframma trasversale, con semipilastri forse romanici, collocati in corrispondenza del terzo valico del duomo attuale; le riproduzioni della facciata, distrutta nel 1682, sembrano suggerire un rifacimento intorno al 1378, poco prima che Gian Galeazzo Visconti desse inizio alla nuova cattedrale. All'interno della basilica paleocristiana di S. Tecla, a cinque navate e transetto non emergente, eretta intorno alla metà del sec. 4° e modificata dopo le distruzioni di Attila, si documenta la presenza di numerose sepolture altomedievali, alcune delle quali dipinte. Danneggiata dagli incendi che toccarono M. nel 1071 e nel 1075, fu interessata da rimaneggiamenti che rispettarono l'impianto a cinque navate, comportarono la sostituzione di colonne paleocristiane con pilastri articolati, collegati da muri di fondazione continua, e la rifoderatura dell'abside maggiore post-attilana, affiancata da due absidi minori; incerta rimane la data dell'introduzione della cripta a oratorio, con abside arretrata rispetto all'emiciclo, che de Capitani D'Arzago (1952, p. 109) riteneva precedente l'intervento romanico. L'abbattimento della chiesa tra il 1461 e il 1462 consentiva al cantiere del nuovo duomo di procedere verso O e di ampliare la piazza antistante, affiancata sul lato nord da una struttura porticata, il 'coperto dei Figini'.È attestata la continuità della funzione cimiteriale per le aree contigue alle mura e all'esterno, attorno alle basiliche paleocristiane, è ricordata la costruzione di monasteri, oratori e strutture insediative di vario tipo, in genere scarsamente documentate dai ritrovamenti archeologici e di incerta cronologia. Il sacello addossato al muro perimetrale settentrionale di S. Ambrogio, dotato di abside a semicerchio oltrepassato e di pavimento in opus sectile bianco e nero, è stato datato tra i secc. 5°-6° e 7°-8° e ne è stato registrato l'abbandono già nel sec. 9°, ma sulla sua funzione originaria non sono emersi dati certi. Una domus della basilica apostolorum fu sede del tribunale presieduto dal conte Leone negli anni 820-840, e di una canonica e di un edificium casae rimane traccia in un frammento di epigrafe. All'importanza della basilica virginum, eretta da Ambrogio sulla via per Como, ma aperta al culto dal suo successore Simpliciano (m. nel 401), non si connette un sicuro rinnovamento altomedievale, non risultando in questo senso dirimente il rinvenimento di tegole con il marchio di Agilulfo (591-615/616) e del figlio Adaloaldo (616-625), correlabili anche a interventi di semplice manutenzione della copertura. Tuttavia, un rifacimento di S. Simpliciano, precedente quello del sec. 12°, si documenta sulle pareti laterali al di sopra delle volte, per le tracce di lesene connesse in origine a un numero doppio di sostegni rispetto a quello della ristrutturazione romanica: si configura un assetto con copertura a tetto, variamente datato all'età longobarda o al primo 11° secolo. Scavi recenti hanno prospettato l'ipotesi di una tripartizione dell'invaso e dell'innalzamento del livello pavimentale in opus sectile in età longobarda; non si documenta alcun intervento edilizio in relazione all'istituzione di un monastero nell'881.Tra gli edifici eretti in M. nel corso del sec. 8° si ricorda la chiesa di S. Benedetto, fatta costruire dal vescovo Benedetto nel 703, mentre tra sec. 7° e 8° sono stati datati i resti delle fondazioni di S. Romano presso S. Babila. La storiografia milanese tardomedievale connette le vicende costruttive della chiesa e del monastero di S. Maria d'Aurona all'arcivescovo Teodoro II e alla presunta sorella Aurona intorno al 740. Il ritrovamento ottocentesco di importanti elementi del dettaglio architettonico e dell'arredo liturgico si integra con la pianta pubblicata da de Capitani D'Arzago (1944) per restituire la nozione di un'aula unica a terminazione orientale tripartita, con una nicchia centrale a semicerchio oltrepassato e due laterali rettangolari, saldata a un atrio quadrato: una planimetria di origine discussa, attestata da altre cappelle, soprattutto dell'arco alpino, che non sembrano tuttavia anteriori al tardo 8° secolo.L'istituzione, presso la basilica di S. Ambrogio, di un monastero benedettino, ricordato in due documenti del 784 e del 789 (Il Museo diplomatico, 1971, nrr. 28, 30), viene tradizionalmente considerata un termine post quem per l'erezione del campanile 'dei monaci', contiguo al lato sud della chiesa e datato da Arslan (1954a) al sec. 9°; sulle pareti lisce, la successione dei piani è segnata da monofore, apparecchiate con una tecnica simile a quella del Westwerk di Corvey, mentre la cella campanaria era in antico contrassegnata da bifore, ancora evidenti all'interno del quinto piano, ma chiuse in età romanica per la sopraelevazione della torre. Tracce di interventi del tempo dell'arcivescovo Tomaso nel 780 sono state identificate nella cripta di S. Calimero, mentre nella seconda metà del sec. 8° si ricordano il monastero di S. Salvatore e nell'806 un oratorium di S. Vincenzo in Prato. Intorno all'813 venne fondata la chiesa di S. Maria al Circo, nell'856 la chiesa di S. Maria Fulcorina e nell'871 un'altra chiesa dedicata alla Vergine, detta in seguito S. Maria Podone; tra i monasteri si ricordano S. Protaso, S. Maria del Gisone, S. Maria di Vigelinda.L'attività costruttiva promossa dall'arcivescovo Ansperto (868-881) viene menzionata nel suo epitaffio, conservato in S. Ambrogio: se risulta impossibile riconoscere strutture murarie altomedievali entro l'atrio della basilica ambrosiana e nulla si sa della casa di Stilicone, mancano dati sicuri sul restauro delle mura promosso da Ansperto e incerti rimangono sia lo sviluppo sia la valutazione dei frammenti dell'area dell'arcivescovado, includenti alla base sarcofagi riempiti di malta e pietrame, come nelle fondazioni della cappella di S. Lino in S. Nazaro del sec. 10°; si connette alla committenza del presule la cappella dei Ss. Satiro, Silvestro e Ambrogio, od. cappella della Pietà, adiacente alla chiesa bramantesca di S. Maria presso S. Satiro. Entro l'impianto a croce greca, inscritta entro un quadrato, la campata centrale quadrata più elevata è connessa a quattro colonne raccordate a volte a botte, più basse, sulle campate laterali e a volte a penetrazione sui settori angolari, mentre il perimetro è scandito dalla sequenza di nicchie semicircolari di diversa ampiezza. La struttura architettonica implica il riferimento ai martyria armeni o georgiani o a un prototipo bizantino, che poteva avere ispirato anche la chiesa palatina eretta da Basilio I il Macedone (867-886) e consacrata nell'881; il confronto con l'assetto planimetrico dell'oratorio di Germigny-des-Prés (dip. Loiret) evidenzia l'espansione del settore centrale e la contrazione delle risoluzioni angolari. Sono stati identificati resti del sec. 9°-10° della chiesa di S. Vittore al Corpo, ricordata dal sec. 8°, contigui all'antico ottagono di S. Gregorio, mausoleo di Massimiano utilizzato per Valentiniano II (383-392); la vicina chiesa di S. Martino ad corpus si documenta dall'11° secolo.Nel sec. 10° l'attività costruttiva è attestata da scarsissime testimonianze, tra cui si ricorda la cappella di S. Lino presso S. Nazaro, eretta dall'arcivescovo Arderico (936-948), quasi una riformulazione semplificata dell'oratorio di S. Satiro: l'invaso quadrato e absidato è coperto da volta a crociera, raccordata ad arcate impostate su risalti angolari, entro cui si aprono brevi nicchie semicircolari.Tra sec. 10° e 11° la risentita affermazione del potere episcopale che caratterizzava le città dell'Italia settentrionale si concretizzò a M. in parallelo con l'affermazione della preminenza della Chiesa ambrosiana su quelle dell'Italia settentrionale, incrementando quindi il processo di identificazione della città con il suo vescovo. Nell'arco di trent'anni i vescovi Landolfo II (992-998), Arnolfo II (998-1018) e Ariberto (1018-1045) fecero erigere tre monasteri, S. Celso, S. Vittore e S. Dionigi, di cui non rimane tuttavia alcuna traccia architettonica.Il rinnovamento del settore orientale della basilica di S. Ambrogio viene annoverato tra le prime sperimentazioni del linguaggio romanico, ma la sua datazione rappresenta di fatto un problema critico aperto, che comporta l'oscillazione della cronologia tra la seconda metà del 10° e gli inizi dell'11° secolo. L'addizione all'impianto basilicale paleocristiano di un coro tripartito, sopraelevato sulla cripta e triabsidato - con una campata centrale voltata a botte e due campatelle laterali voltate a crociera -, è improntata a un sostanziale rispetto per l'antico luogo delle reliquie e si concretizza probabilmente in concomitanza con la rielaborazione del ciborio e del ricco apparato decorativo. In parallelo, un nuovo sistema di articolazione della parete muraria correla la sequenza degli archetti pensili al profilo delle nicchie a fornice, sentite anche come un fatto strutturale, in funzione di alleggerimento della parete muraria; il sistema dei fornici facilita inoltre l'adesione dell'estradosso del semicatino alla copertura esterna, secondo un procedimento che Landriani (1889) documenta anche per la botte del coro e che anticipa la sperimentazione più tardi correlata alla formulazione della volta a crociera e soprattutto dei tiburi. La casistica lombarda ed europea evidenzia il ruolo egemone di M. nell'elaborazione del tema dei fornici, anche come unificante connotato linguistico da valutare attraverso la ricomposizione di un apparato di varianti che giungono fino al sec. 12°, in connessione con assetti strutturali differenziati: per es. l'abside di S. Eustorgio, S. Calimero, S. Vincenzo in Prato, S. Vittore al Corpo, S. Babila, S. Giovanni in Conca, S. Celso, S. Nazaro.Nel corso del sec. 11°, tra le testimonianze che documentano a M. la concreta determinazione del lessico architettonico romanico si evidenzia l'introduzione della cripta a oratorio, sia in connessione con un assetto di coro di tipo ambrosiano voltato a botte, come ad Agliate nel contado milanese, sia in emicicli altomedievali come in S. Giovanni in Conca - di cui la cripta rimane come unico elemento superstite -, sia in chiese che direttamente aggregano l'abside al corpo longitudinale, come S. Vincenzo in Prato, un edificio connesso alla tradizione paleocristiana anche per l'utilizzo delle colonne a tripartire l'invaso interno e per la tipologia delle grandi finestre a spalle dritte. Difficile precisare il ruolo della riforma e delle esigenze liturgiche legate alla vita comune del clero, che si è ipotizzato (Cattaneo, 1975) potrebbero avere motivato, tra l'altro, la diffusione della cripta a oratorio in area milanese. Senza forzare il ruolo della riforma in relazione a programmi costruttivi che per l'area milanese non si appoggiano a concrete testimonianze monumentali, Cattaneo (1975, p. 54) ricordava che l'affermazione di una tendenza a differenziare l'area cultuale presbiteriale è documentata dalla canonica fondata da s. Arialdo nel 1062: quel "corus alti curcumdatione muri concluditur, in quo ostium ponitur" (Andrea da Strumi, Vita s. Arialdi) è stato avvicinato al coro profondo di S. Paolo a Mantova tra il 1057 e il 1086, ma è stato citato anche il frazionamento trasversale di S. Maria Gualtieri. Segnali di una prima fase dell'elaborazione del linguaggio romanico sono stati identificati nei primi due pilastri orientali, documentati archeologicamente, della chiesa di S. Eustorgio, di sezione rettangolare, con una lesena aggregata verso le navatelle laterali. Tali resti sono stati connessi a un sistema di arcate trasversali sottese alla copertura a capriate.Incerta rimane la formulazione della chiesa che Benedetto Rozone e la moglie Ferlenda dedicarono alla Trinità nel 1036 in un'area in antico corrispondente al foro e nel Medioevo occupata dalla zecca; allo scadere del secolo, di ritorno dalla prima crociata, Benedetto Rozone di Corticella, pronipote del fondatore, ampliò o riedificò la chiesa con una dedicazione al Santo Sepolcro. L'assimilazione all'omonima basilica gerosolimitana sarebbe dichiarata anche dall'analogia tra la piazza antistante la chiesa, lievemente rialzata, e il monte Sinai. La terminazione orientale triconca e l'aggregazione verso O di due torri, che, insieme con l'estensione della cripta, avevano motivato l'interesse di Leonardo, presuppongono legami con l'architettura d'Oltralpe.Sullo scorcio del sec. 11°, un assetto politico e sociale, che garantiva attorno al consolato la coesione istituzionale e l'unità della città, incrementò il fervore ricostruttivo, che non toccò soltanto le chiese distrutte dagli incendi del 1071 e del 1075; Arnolfo di Milano (Gesta archiepiscoporum Mediolanensium) specificamente menziona S. Tecla, S. Maria, S. Lorenzo, S. Nazaro e S. Stefano. Ripercorrere le tappe di questa vicenda costruttiva non è facile sia per la scarsità degli episodi sicuramente documentati dalle fonti sia per la complessità dei problemi dibattuti dai costruttori milanesi e lombardi attorno alla configurazione della campata voltata, scandita da pilastri articolati in sequenza uniforme o alternata. Deve essere sottolineato piuttosto il carattere sperimentale di alcune empiriche risoluzioni dei costruttori lombardi, e soprattutto milanesi, anche in relazione al problema dell'introduzione di una dinamica spaziale innovativa entro sistemi costruttivi tardoantichi, secondo premesse e implicazioni diversificate e certamente con esiti non a fondo indagati.A S. Ambrogio il meccanismo compositivo della campata alternata si applica a un assetto longitudinale che ricalca l'impianto della chiesa antica, sia nel dimensionamento sia nell'allineamento dei sostegni, mentre la divaricazione delle pareti nel settore occidentale favorisce la connessione con il quadriportico; risulta invece difficile verificare i riferimenti tra la chiesa antica e quella attuale per un tema qualificante del S. Ambrogio romanico come il matroneo, poiché, come è noto, l'ipotesi di Verzone (1974) circa la presenza di matronei nella chiesa paleocristiana si basava su osservazioni relative all'arcata trionfale, danneggiata anche dagli eventi bellici. La nuova dinamica spaziale si concretizza nella chiesa ambrosiana attraverso l'introduzione, in sequenza alternata, dei possenti pilastri polistili e delle volte a crociera costolonate; si tratta di volte molto rialzate in chiave, quasi pseudo-crociere a cupola costolonate, che richiesero probabilmente l'applicazione, sull'estradosso, di voltine sussidiarie, a mediare l'adesione delle falde della copertura, secondo un procedimento che si documenta in altre chiese lombarde a sistema alternato, e specificamente in S. Savino a Piacenza, S. Michele e S. Giovanni in Borgo a Pavia. La parete, nel settore corrispondente all'unità modulare della campata centrale, evidenzia la serrata concatenazione tra il profilo delle volte e la successione duplicata delle arcate, connesse all'articolazione dei matronei. La luce, filtrata dai grandi finestroni aperti sulla loggia, acquista il valore di elemento unificante nella scansione pausata di comparti modulari voltati, mentre a E la cupola ottagonale, introdotta senza la giustapposizione di un corpo trasversale, sottolinea l'importanza dell'altare e delle reliquie ambrosiane. La ricostruzione della basilica fu avviata probabilmente verso lo scadere del sec. 11° e, in assenza di sicuri appigli cronologici, qualche indizio potrebbe essere dedotto dal campanile dei canonici - "noviter in eadem Ecclesia fundatum et in maxima parte aedificatum" nel 1128 (Giulini, 1760, VII, p. 92; Porter, 1915-1917, II, pp. 556-560) - se fosse stato chiarito il nodo dell'adesione tra le due strutture.Nella chiesa di S. Lorenzo una campagna di lavori si rese necessaria dopo gli incendi del 1071 e del 1075 e per il susseguirsi di eventi nefasti fino al 1124; tra questi è stato annoverato anche il terremoto del 1117. È probabile che i danni subìti dalla struttura tardoantica non fossero irreparabili e che l'opera dei costruttori romanici sia stata finalizzata al consolidamento della copertura originaria e all'approntamento all'esterno di un tiburio piuttosto che a un'integrale ricostruzione. Il disegno cinquecentesco, precedente la ricostruzione del 1574, configura la possibile 'ritessitura' della struttura tardoantica attraverso il lessico architettonico romanico: se le torri angolari, parzialmente integrate e decorate con il partito degli archetti pensili, furono connesse al corpo centrale con archi rampanti, la configurazione del tiburio attraverso la doppia galleria e la cornice ad archetti pensili ricalca cadenze tipiche del Romanico lombardo, mentre all'interno i pilastri sono legati al ballatoio del matroneo da un sottile saliente e da una cornice ad archetti pensili, come sulla parete di S. Ambrogio.La ristrutturazione romanica della chiesa di S. Nazaro si consolida sull'assetto della chiesa paleocristiana, inglobandone, oltre che la planimetria, sostanziali porzioni dell'articolazione in alzato. Entro l'involucro spaziale antico, l'introduzione delle volte a crociera costolonate si connette alle pareti laterali attraverso semipilastri, quindi attraverso un meccanismo compositivo più semplice di quello di S. Ambrogio. Lo stesso criterio di armonica rivitalizzazione dell'invaso paleocristiano si registra nell'aggregazione del transetto, caratterizzato in origine da un diverso assetto proporzionale e soprattutto da un dislivello volumetrico problematico per le risoluzioni del sistema voltato: i bracci trasversali, in antico quasi vani subordinati, sono riplasmati attraverso l'espansione delle absidi, che accentuano la forma esterna cruciforme, e sono legati al vano centrale con l'integrazione della cupola, innervata da quattro arcate unitarie, quelle longitudinali sovrapposte allo sviluppo degli arconi antichi.S. Maria d'Aurona attesta che il tessuto architettonico, forse di età longobarda, poteva essere coordinato alla spazialità romanica anche in riferimento al sistema uniforme, e non soltanto a quello alternato di S. Ambrogio: la tripartizione del vano viene realizzata con la dislocazione dei pilastri articolati in corrispondenza dei settori di giunzione tra le absidiole. Se le dimensioni anguste dell'invaso condizionarono la successione omogenea di campate pressoché quadrate al centro e rettangolari ai lati, sembra plausibile che una delle prime sperimentazioni per l'applicazione della volta a crociera anche alla navata centrale possa essere riferita a una chiesa di piccole dimensioni, in anni forse anteriori alla fine dell'11° secolo.La scansione a tre navate per una successione uniforme di tre campate caratterizza anche la chiesa di S. Babila, fondata dal chierico Nazaro Muricola nel 1096 e già in funzione nel 1099; forse entro il primo venticinquennio del sec. 12° la chiesa fu dotata di una copertura a volte a crociera sulle navate laterali e a botte sulla navata centrale, anche se la formulazione dei sostegni, non sistematizzata in riferimento alla ricaduta del sistema voltato, ha indotto alcuni critici a ipotizzare la previsione di volte a crociera anche sulla navata centrale. Tra la sezione dei sostegni e la tipologia delle volte si registrano spesso incongruenze, interpretate come indizi di una sperimentazione in atto sul problema dell'applicazione delle volte a campate di grosse dimensioni o come segnali di rigide fasi costruttive intermedie o di trapassi troppo schematici da sequenze uniformi a campate alternate coperte a botte o a crociera: costante rimane comunque in ambito milanese l'articolazione in alzato su due livelli, mentre la previsione del matroneo risulta limitata, stando alle testimonianze superstiti, a S. Ambrogio e a S. Lorenzo. La stretta connessione con l'ambiente milanese della chiesa di S. Sigismondo a Rivolta d'Adda (prov. Cremona), consacrata nel 1096, ma eretta nei primi due decenni del sec. 12°, si evidenzia nelle prime due campate orientali uniformi, coperte a botte come in S. Babila, mentre nelle due successive campate l'alternanza del sistema e l'introduzione di volte costolonate, molto rialzate in chiave, dichiarano la connessione con la navata di S. Ambrogio. Anche a S. Celso l'impianto basilicale a tre navate, scandite in sequenza alternata, ricordava Rivolta d'Adda, mentre il riferimento alla basilica ambrosiana era esplicitato dalla tipologia dei sostegni e dall'apparato decorativo.L'applicazione del sistema alternato ambrosiano era proposta con due sole campate centrali, precedute da un coro rettangolare, nella chiesa di S. Giorgio al Palazzo, ubicata presso il palazzo Imperiale e consacrata da Anselmo V nel 1129; nel priorato cluniacense di S. Maria Assunta di Calvenzano presso Caselle Lurani, strettamente connesso a una donazione dell'arcivescovo di M., l'articolazione in tre navate sembra derivata dalla riduzione del tracciato planimetrico di S. Ambrogio secondo una formula che ricalca quella di S. Giorgio al Palazzo; alla chiesa ambrosiana rinviano anche l'articolazione parietale esterna, l'assetto del coro e delle campate alternate, la formulazione dei pilastri, la cui articolazione si riconnette tuttavia alla graduazione dei profili delle arcate piuttosto che alla configurazione del sistema voltato.Entro la chiesa di S. Stefano, ubicata vicino all'omonima pusterla, la scansione di campate centrali oblunghe e laterali quadrate configurava un sistema uniforme, con pilastri articolati connessi a volte a crociera costolonate, mentre alla facciata aderiva un nartece a cinque campate. La successione di campate uniformi di S. Eustorgio è invece frutto di diverse fasi costruttive che rispettarono il preesistente sistema di dimensionamento nel rapporto 2,5:1 tra navata centrale e laterali e nell'allineamento dei pilastri a tau, dilatandone gli interassi; se non è stata ancora chiarita la progressione dei lavori, si può ipotizzare che fossero in prima istanza interessate le prime quattro campate occidentali, cui seguì l'introduzione di un sistema alternato con pilastri forti, simili a quelli di S. Ambrogio, e piloni circolari.Nel tardo sec. 12° l'invaso longitudinale e il transetto di S. Simpliciano furono divisi in tre navate coperte da volte a crociera impostate alla stessa altezza, a configurare un'articolazione definita 'a sala'; nel contempo furono chiuse le grandi monofore paleocristiane, fu eretto il campanile e furono modificate l'abside e la facciata, arricchita di un'importante decorazione plastica.Nel corso del sec. 12°, il ruolo degli ordini monastici come mediatori di relazioni di raggio europeo è stato sottolineato, per M. e l'area lombarda, soprattutto in riferimento alla contestualità cistercense. La prima fase costruttiva di Chiaravalle Milanese, tra il 1138 e il 1150 ca., segnò il distacco dalla locale tradizione tardoromanica e incise sulle più importanti imprese costruttive del tardo sec. 12°: stretti legami, quasi radici linguistiche unitarie, dell'esperienza cistercense e di quella comunale si identificano nell'organizzazione modulare dello spazio e nel "rivoluzionante uso della linea retta come unico elemento generatore, così delle piante e degli alzati, come della loro resa figurativa" (Romanini, 1968, p. 13).Le devastazioni di Federico Barbarossa incisero pesantemente sul tessuto urbano e distrussero il sistema difensivo - fossati, terrapieni muniti di palizzate e porte provvisorie in asse con quelle della cerchia massimianea - messo a punto tra il 1156 e il 1160 dall'ingegnere militare Guintellino (o Guintelmo) e già comprensivo di nuovi quartieri sviluppati a ridosso delle mura romane. L'erezione della nuova cinta muraria fu iniziata nel 1171 secondo un progetto unitario, portato a termine in fasi successive, a opera forse di maestranze differenziate. Due lapidi, in origine infisse sulla porta Romana (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), ricordano il ritorno dei Milanesi in città, l'inizio della costruzione delle porte e delle torri, i nomi dei consoli, dell'architetto Girardus de Mastegnianega e dei supervisori ai lavori. Si è molto discusso sulla formulazione della cerchia difensiva del sec. 12°, che era probabilmente costituita da un profondo fossato delimitato all'esterno da sponda muraria e verso l'interno da un terrapieno, mentre in muratura erano sicuramente le porte affiancate da torri; al tempo di Azzone quindi il terrapieno sarebbe stato sostituito da una cortina muraria vera e propria e le torri, rimaste incomplete, sarebbero state innalzate. La scansione a fornici e la modulazione del raffinato paramento lapideo evidenziavano la novità strutturale e formale delle porte del sec. 12°, "archi di trionfo latini tradotti in lingua gotica" (Romanini, 1989, p. 29), segnali celebrativi dell'autonomia e della potenza del Comune milanese, anche attraverso la connessione con la tipologia delle antiche porte urbiche. Nella porta Nuova, a due fornici coperti da volta a botte tra due torri quadrate, sporgenti verso l'esterno della città, il rivestimento a blocchi alternati di serizzo grigio e bianco, alcuni dei quali di origine romana, evidenzia il lucido disegno strutturale delle arcate - verso l'esterno a pieno centro con ghiera a sesto ribassato e verso la città a sesto ribassato - connesse attraverso cornici modanate a semipilastri laterali e a un pilastro centrale. La stessa formulazione caratterizza la porta Ticinese, a un solo fornice, e, con la variante dell'arco ogivale, la pusterla di S. Ambrogio, eccezionalmente a due fornici, e quella dei Fabbri; quest'ultima si caratterizza per la raffinata elaborazione dei dettagli architettonici, facendo ipotizzare una fase più matura. Tangenze stilistiche e formali tra l'arte cistercense e quella comunale sono già state evidenziate da Romanini (1964; 1968), che ha di recente (Romanini, 1989) sottolineato l'importanza dell'esperienza bernardina, sia in relazione al tracciato modulare sia alle singole risoluzioni costruttive e formali dell'arte comunale, specificamente per la cinta muraria e per le porte milanesi: elementi qualificanti della struttura e del dettaglio architettonico, articolati sulla base di un'elaborazione quasi modulare, farebbero pensare a maestranze cistercensi.Mentre nel sec. 12° i magistrati cittadini si adunavano nel broletto Vecchio, attiguo al palazzo Arcivescovile, a segnalare la connessione che in origine legava l'istituzione comunale al vescovo, la costruzione del broletto Nuovo si documenta nel 1228 entro il nucleo più antico della città e in relazione alla configurazione centrica di una grande piazza, scandita da edifici porticati e dalla convergenza di strade di collegamento alle principali porte cittadine; i lavori procedettero speditamente - nel 1230 i consoli poterono emettere le loro sentenze al suo interno - e furono conclusi nel 1233, come ricorda l'iscrizione sottostante la statua equestre del podestà Oldrado da Tresseno, che fronteggia la piazza dei Mercanti. L'edificio, di pianta rettangolare, si compone di due vani equivalenti, collegati da scale esterne: un piano inferiore aperto e porticato, scandito longitudinalmente in due navate da pilastri in pietra - ceppo e serizzo -, e una sala superiore unitaria, illuminata da trifore entro arcate. L'essenzialità lineare della superficie esterna in cotto, incisa dalla sequenza delle trifore secondo cadenze di pura sostanza gotica, si connette al limpido assetto distributivo del broletto Nuovo, concreto simbolo della identità e della potenza del Comune.In Lombardia, l'importanza dei Cistercensi in riferimento alla determinazione di razionali congegni progettuali trova precisi riscontri non solo nelle architetture civili, ma anche nelle testimonianze degli Umiliati e dei Mendicanti, promuovendo l'avvio di direttive di ricerca che configurano la nuova lingua gotica. Gli edifici degli Umiliati sarebbero stati "non tanto esemplati sul modello quanto piuttosto elaborati alla scuola se non addirittura direttamente a opera della grangia cistercense" (Romanini, 1989, p. 38), a partire dal più antico insediamento di Viboldone. Mentre le chiese extraurbane di S. Lorenzo in Monluè e di Mirasole sono semplici aule uniche a terminazione perimetrale rettilinea, nel lucido tracciato lineare di S. Maria di Brera, eretta a partire dal 1230 ca., l'assetto distributivo a tre navate si caratterizza per la limpida successione dei piloni cilindrici, sottolineata dal contenimento dell'abside centrale entro il muro orientale rettilineo, mentre si ipotizzano un alzato 'a sala' e una concatenazione alternata delle campate, quelle laterali coperte da volte a crociera archiacute con costoloni torici.L'avvio della chiesa di S. Marco, ubicata verso N, sulla via verso Como, è stato attribuito (La chiesa e il convento di S. Marco, 1987) agli Zambonini, gruppo di penitenti seguaci della Regola di s. Agostino, tra la fine del sec. 12° e gli inizi del 13°, e resti della prima fase costruttiva sono identificabili in una struttura già orientata corrispondente al braccio meridionale del transetto attuale. Dopo il 1254, un importante ampliamento, operato da Lanfranco Settala, generale dell'Ordine degli Agostiniani, determinò l'apertura di cappelle sul transetto sud e l'espansione del braccio corrispondente verso N, la costruzione del coro e del corpo longitudinale tripartito e voltato fino al quarto pilastro; nella rielaborazione trecentesca fu ampliato il coro con un'abside poligonale, furono prolungate le navate dotate di copertura a capriate e, forse già dal primo Trecento, furono aperte cappelle sul lato sud, mentre il campanile del 1290 presenta una formulazione tipicamente lombarda.I Domenicani e i Francescani si stanziarono a M. presso chiese preesistenti, riplasmate attraverso rielaborazioni di sapore fortemente innovativo. La presenza dei Domenicani presso la chiesa di S. Eustorgio tra il 1216 e il 1220 e il successivo impulso, seguito all'assassinio di s. Pietro Martire nel 1252, comportarono il rifacimento della chiesa romanica, scandita in campate uniformi dotate di volte a crociera impostate alla stessa altezza per la configurazione di un unitario alzato 'a sala', destinato a incidere sul contesto costruttivo lombardo; in seguito la chiesa fu ampliata con un transetto meridionale e con l'apertura di cappelle sul lato sud, mentre tra il 1297 e il 1309 fu eretto il campanile. Si conservano brani dell'abside della chiesa duecentesca, a navata unica, del monastero di S. Maria della Vittoria, sede di monache agostiniane, poi legate alla Regola di s. Domenico e alla chiesa di S. Eustorgio.La presenza dei Francescani è documentata a M. in un testamento del 1224 (Alberzoni, 1983a, p. 63) presso la chiesa di S. Vittore all'Olmo, non lontano dal monastero di S. Vittore al Corpo, all'esterno delle mura. Nel 1230 i Francescani si insediarono in città presso le basiliche di S. Nabore e S. Ambrogio e nel 1233 iniziarono la loro chiesa, che verso il 1256 fu aggregata alla basilica naboriana, mantenendo di quest'ultima anche la titolazione; da lasciti documentari si deduce che intorno al 1270 la costruzione e la copertura della chiesa non erano concluse. Nell'addizione di campate voltate all'invaso preesistente, forse coperto a tetto, si applicava un procedimento costruttivo riqualificante e drammaticamente orchestrato, destinato a incidere sull'architettura dell'Ordine in ambito lombardo. Mentre è incerta l'esistenza di un convento francescano presso la chiesa di S. Gottardo, va ricordata nel 1223-1224 la presenza delle Clarisse presso la chiesa di S. Apollinare, sita oltre porta Romana accanto alla pusterla di S. Eufemia; l'articolazione della chiesa di Pozzuolo Martesana, ricordata nel testamento del 1295 del cardinale Pietro Peregrosso (Alberzoni, 1983b, p. 73), può essere assimilata alla tipologia semplificata delle 'chiese-fienile', per la declinazione ad aula unica aggregata a un coro rettilineo con due cappelle laterali emergenti a modo di transetto.Nel tardo sec. 13°, la rielaborazione della chiesa di S. Giovanni in Conca, rispettosa dell'abside e della sottostante cripta romanica, fu attuata in forme tipiche del Gotico milanese e lombardo attraverso l'alleggerimento della massa muraria e la scansione semplificata degli elementi strutturali, connessi alla definizione pittorica della parete. L'invaso paleocristiano, tripartito con piloni cilindrici per una successione omogenea di quattro campate, era scandito da un'articolazione 'a sala' attraverso una copertura a tetto sulla navata centrale e a volte sulle laterali, mentre sulla campata orientale pilastri articolati reggevano un tiburio, corrispondente a una fase costruttiva successiva; la modulazione della facciata a vento, con definizione policroma delle membrature, venne ripresa nel corso del Trecento secondo un assetto in genere contrassegnato da un più pronunciato verticalismo e dalla dilatazione delle aperture. Con l'inizio del dominio visconteo, il linguaggio architettonico è segnato da apporti esterni al contesto locale.La cappella ducale di S. Gottardo in Corte, eretta per ordine di Azzone Visconti nel 1336, sotto la direzione del cremonese Francesco de' Pegorari, era un'aula rettangolare lunga e stretta, scandita in tre campate da contrafforti connessi a frontoni cuspidati e pinnacoli, di sottile e pittorica modulazione; anche nella facciata si attuava "la semplificazione delle linee architettoniche riportate in superficie quali limiti di zone cromatiche" (Romanini, 1955a, p. 646) che caratterizza tutto il Trecento milanese e lombardo, ma che nel contempo dichiara la connessione con il contesto cremonese. Le stesse coordinate linguistiche segnano l'abside poligonale e la torre, nella quale l'architetto volle apporre la sua firma: il confronto con il tiburio di Chiaravalle Milanese e il coronamento del Torrazzo di Cremona evidenzia lo slancio verticale più insistito e la più compatta modulazione cromatica delle superfici.Una delle prime attestazioni della penetrazione di accenti toscani in area milanese è rappresentata dalla loggia degli Osii, a due ordini di logge sovrapposte e arcate acute, fondata nel 1316 per impulso di Matteo Visconti, che ne affidò l'esecuzione a Scoto di San Gimignano: essa costituiva, insieme con il 'portico dei Banchieri' eretto da Azzone nel 1336, il lato meridionale della piazza antistante al broletto Nuovo. In essa, la risoluzione dei volumi entro il piano di superficie, con marginature sottilmente linearistiche, è declinata in relazione a una tessitura parietale in marmo a bande orizzontali bianche e nere, rara nelle strutture civili milanesi di età gotica. Un momento significativo dell'architettura civile trecentesca, prototipo dei castelli lombardi di fondazione viscontea, si identifica nei resti del palazzo di Azzone Visconti, eretto intorno al 1336; dalle strutture emerse all'interno del complesso di Giuseppe Piermarini si ricostruisce l'impianto quadrato, aperto sul cortile interno, ritmato da portico ad arcate acute e sovrastante loggia.Cadenze toscane, mediate dall'arrivo di Giotto nel 1334-1335 e di Giovanni di Balduccio nel 1334, segnano l'architettura milanese della seconda metà del sec. 14° a partire dalla fronte di S. Maria di Brera, nella quale l'artista pisano firmava nel 1347 il portale. La facciata, a fasce orizzontali in marmo bianco e nero scandite da quattro contrafforti, era arricchita della presenza di sculture e modulata da bifore e da trifore, mentre il portale, dotato di piedritti e archivolti modanati, era sormontato da una ghimberga con un rosone e tre tondi. L'influsso della facciata di S. Maria di Brera, quasi un'impaginatura plastica a sé stante, è presente nella produzione dei maestri campionesi e in edifici di ambito milanese e lombardo: basti citare la parrocchiale di Bellano (prov. Como), la facciata dell'abbaziale di Viboldone, del 1348, la facciata di S. Maria in Strata e del duomo di Monza.La tendenza a riportare verso il piano di superficie la scansione delle membrature architettoniche, presente anche nel fianco meridionale di S. Eustorgio, motiva la fortuna del linguaggio essenzialmente decorativo di Giovanni di Balduccio e dei maestri campionesi nella capitale lombarda, ma non oblitera la declinazione di impianti 'a sala' di vigorosa risonanza architettonica. Queste due linee di tendenza si registrano in alcune chiese del contesto milanese e lombardo ad aula rettangolare absidata, che si rifanno al modulo di S. Gottardo in Corte: dagli oratori di Solaro, Mocchirolo, Lentate sul Seveso, all'abbazia di Mirasole, riedificata nel sec. 15°, alla chiesetta di S. Cristoforo sul Naviglio, costituita da due vani accostati e comunicanti attraverso due ampie arcate, quello nord anteriore di un secolo a quello sud, fondato in occasione della pestilenza del 1398. Si datano al tardo sec. 14° la sezione occidentale e la fronte di S. Marco, caratterizzata da una complessa ma limpida intelaiatura lineare e da sottili variazioni cromatiche, quasi una rilettura campionese di formule toscane; l'ascrizione a Menclozzo è documentata dalla cronaca manoscritta seicentesca del canonico Valerio (Milano, Bibl. Ambrosiana). Moduli vicini alle addizioni trecentesche di S. Marco dovevano caratterizzare la chiesa di S. Maria della Scala, eretta per volontà di Regina della Scala, moglie di Barnabò Visconti, a partire dal 1381 sulle rovine dei palazzi dei della Torre.Apporti della tradizione veneta in ambito milanese sono stati riconosciuti nella facciata di S. Maria Maggiore con paramento murario a losanghe, approntata dopo i danni provocati dal crollo della torre campanaria di Azzone nel 1353; essa è stata ascritta ai Dalle Masegne e avvicinata alla fronte dell'antica cattedrale di Mantova (Romanini, 1955a; 1964).Il nuovo duomo sorse sull'area di S. Maria Maggiore, la cui distruzione fu operata in base alle esigenze del cantiere e in parallelo con quella dei due battisteri di S. Stefano e di S. Giovanni alle Fonti e del palazzo Ducale. Non sono del tutto chiariti il ruolo della committenza, il reale inizio dei lavori, di fatto precedente la data ricordata dall'iscrizione del 1386, la determinazione del progetto. L'assetto planimetrico a croce latina aggrega il corpo longitudinale a cinque navate al transetto a tre navate, dotato di piccole absidi poligonali, e al coro, connesso all'espansione del deambulatorio, dell'abside semiesagonale e di due sagrestie, allineate con le navate esterne. Pilastri polistili, articolati da otto membrature, e volte a crociera archiacute con alti capitelli a nicchie cuspidate configurano un alzato a 'gradonature' (Romanini, 1964) anche per la breve differenza d'imposta tra navata centrale e laterali; sul quadrato d'incrocio si innesta il tiburio tramite pennacchi con i busti clipeati dei Dottori della Chiesa.L'elaborazione del progetto viene ascritta alla collaborazione di architetti locali e stranieri, che potrebbe spiegare le diatribe iniziali, connesse alla mediazione e all'adattamento di un rigoroso impianto modulare di ispirazione nordica, forse della scuola boema dei Parler di Gmünd: un Parler svolse un ruolo fondamentale nella fabbrica dal 1392. Si ritiene che le fondamenta fossero poste in opera nel 1386 e che subito dopo fosse iniziata la costruzione del settore absidale; una prima fase costruttiva, identificata nella sagrestia aquilonare, evidenzierebbe l'utilizzo di materiale laterizio e l'applicazione di tecniche costruttive legate a un progetto anteriore a quello modificato nel 1392. Due disegni di Antonio di Vincenzo (Bologna, Arch. della Fabbriceria di S. Petronio) documentano la previsione di uno sviluppo più pronunciato del transetto a terminazione rettilinea, l'articolazione in alzato ad quadratum, l'innesto di un corridoio sotto le volte centrali, navate laterali organizzate come cappelle per un 'sistema di controspinta interna' (Romanini, 1964, I, p. 367), secondo un progetto di ambito parleriano, ancora in uso agli inizi degli anni novanta. Nel settembre del 1391 la chiamata di Gabriele Stornaloco era correlata alla necessità di verifiche al sistema di proporzionamento, che il matematico piacentino sosteneva dovesse essere impostato ad figuram triangularem, secondo un triangolo equilatero di 96 braccia di base e 83 di altezza; di contro, nel maggio del 1392 l'architetto Heinrich Parler di Gmünd criticava le discrepanze esecutive rispetto all'originario progetto ad quadratum. Prevalsero tuttavia il parere e l'esperienza dei maestri locali, che, con il consenso della Fabbrica, approvarono le variazioni già attuate, mentre veniva fissata l'altezza dei piloni e delle volte in 76 braccia. L'intervento di Giovannino de Grassi riguardò soprattutto la modulazione dei capitelli dei piloni e l'articolazione dei finestroni absidali - si identifica l'intervento del maestro nel primo capitello del deambulatorio - e segnò l'intensificazione della decorazione plastica. Dopo la scomparsa di Giovannino e di Giacomo da Campione, nel 1399 il cantiere fu scosso dalle critiche di Jean Mignot relative all'affidabilità statica della fabbrica e all'abbandono del sistema proporzionale basato sul triangolo equilatero; il cantiere vide quindi la ripresa dell'attività decorativa durante la direzione di Filippino degli Organi (1407-1448), mentre dalla metà del Quattrocento gli architetti cooptati dalla Fabbrica, Giovanni Solari e il figlio Guiniforte, furono impegnati soprattutto nella risoluzione del problema del tiburio e lavorarono a M. in S. Maria delle Grazie e in S. Pietro in Gessate, nel segno della fedeltà alle radici del Gotico lombardo.
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Rispetto alle grandi quantità attestate dalle fonti scritte è pervenuto uno scarso numero di statue e di sarcofagi dei secc. 4° e 5°, a causa di distruzioni avvenute in epoca medievale e del riutilizzo nel corso dei secoli di necropoli e di edifici. Si sono conservati però alcuni pezzi significativi proprio grazie al riuso di materiali lapidei, in particolare sarcofagi adattati nella decorazione e talvolta anche nella funzione per soddisfare utenti per lo più cristiani della fase tardoantica: essi sono stati lavorati, rifiniti o completati nelle botteghe milanesi, operanti per una committenza piuttosto varia, ma spesso legata all'ambiente della corte imperiale e dei suoi funzionari; tra questi sarcofagi, alcuni sono stati importati da Roma (sarcofago a porte di città in S. Ambrogio) e altri da Ravenna (Brandenburg, 1987; Rebecchi, 1990). Un esempio di questa situazione può essere il sarcofago detto di Galla Placidia e Ataulfo nel sacello di S. Aquilino della basilica di S. Lorenzo, importato da Ravenna alla fine del sec. 3° con la struttura e il solo intaglio definiti sulla fronte e nelle testate delle edicole ad arco e a timpano, completato invece alla fine del sec. 6°, e non nella fase immediatamente successiva al suo arrivo a M., con la decorazione incisa di soggetti cristiani entro le campiture definite dagli elementi architettonici (Brandenburg, 1987).Nel periodo della tetrarchia e anche oltre, nell'impero M. è sicuramente stata uno dei pochi centri di produzione di oggetti preziosi in argento, oro e avorio; di origine milanese o forse orientale potrebbe essere la cassetta-reliquiario d'argento di S. Nazaro, oggi al Tesoro del Duomo, realizzata alla fine del sec. 4°, con raffinate scene cristologiche e bibliche a rilievo, caratterizzate da un morbido modellato classico e da un notevole senso dello spazio (Brandenburg, 1987; Compostella, 1990).I numerosi dittici in avorio conservati a M. (Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica; Tesoro del Duomo), Brescia (Civ. Mus. Cristiano) e Monza (Mus. del Duomo), realizzati per celebrare cariche politiche e amministrative di diversi personaggi, per lo più furono prodotti a Roma, ma non si esclude per es. che il dittico detto di Stilicone (Monza, Mus. del Duomo), del 400 ca., sia stato realizzato a M.: sulle due valve incernierate sono scolpiti, secondo modelli classici e graduando abilmente l'intaglio, un alto ufficiale, la moglie e il figlio, suggestivamente identificati come Stilicone, il personaggio più potente e influente all'epoca di Onorio (395-423), la moglie Serena e il figlio Eucherio. I due piatti della coperta eburnea di un evangeliario oggi al Tesoro del Duomo, confrontabili con dittici consolari romani dell'ultimo quarto del sec. 5°, mantengono l'impianto di un tipico dittico 'delle cinque parti', ma si qualificano per la simbologia cristiana e i soggetti evangelici, per il raffinato utilizzo di pietre dure nelle incastonature delle parti centrali e per un intaglio dal modellato decisamente semplificato.L'elegante testina-ritratto in marmo dell'imperatrice Teodora (Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica) è un'opera d'importazione, poiché è stata eseguita molto probabilmente all'epoca di Giustiniano nelle officine di Costantinopoli nel secondo quarto del sec. 6° (Brandenburg, 1987) e testimonia la breve fase in cui i territori dell'Italia settentrionale dopo la guerra greco-gotica passarono sotto il controllo bizantino. La sua precoce presenza a M. ha avuto notevole peso su uno scultore longobardo ispiratosi a essa nell'intagliare agli inizi del sec. 7° la testa detta di Teodolinda (già al Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica e poi trafugata), traducendo con forza astratta nella pietra la struttura a pera del viso della regina, dai lineamenti ridotti a geometrie essenziali, recuperando però volumi morbidi nella raccolta acconciatura, sottolineata dalla grafica retina (Romanini, 1988; 1991).Le lastre tombali terragne di importanti personaggi della società longobarda sono caratterizzate da iscrizioni in latino colto, incise con i caratteri epigrafici della capitale romana, strettamente correlate con le fasce decorative, intagliate con i motivi ricorrenti nella produzione scultorea del periodo (Segagni Malacart, 1987, p. 383): l'iscrizione della lapide del nobile Aldo (Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), del sec. 6°, proveniente da S. Giovanni in Conca, il cui campo è scompartito da una croce incisa a braccia patenti, è inquadrata da un fregio geometrizzante lavorato a incavo con alveoli di sezione triangolare e circolare in origine forse riempiti da paste vitree colorate, che formano rombi e quadrati alternati, morfologie riscontrabili peraltro anche nell'oreficeria longobarda (Romanini, 1969; 1991, p. 4; Cassanelli, 1987; Lusuardi Siena, 1990; David, Cassanelli, Dell'Acqua, 1993).Oltre agli esempi romani tardoantichi, capitelli altomedievali di spoglio furono reimpiegati in strutture per lo più romaniche, come S. Vincenzo in Prato, S. Lorenzo e S. Simpliciano (tiburio, capitello con kántharos tra pavoni), o si sono conservati in edifici del centro storico, mentre alcuni di epoca carolingia si trovano ancora inseriti in strutture contemporanee (sacello di S. Satiro, torre di Ansperto).A M., durante gli scavi in via Monte di Pietà, nel 1868 furono riportati alla luce resti architettonici e frammenti scultorei della chiesa del monastero di S. Maria d'Aurona, l'unico resto conservatosi nella città di un complesso architettonico di epoca longobarda, fondato nel 740 dalla principessa Aurona, sorella del re Liutprando e del vescovo Teodoro. La mescolanza di materiali lapidei (Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica) di due diverse fasi edilizie, ovvero della struttura originaria del sec. 8° e della ristrutturazione romanica della fine dell'11°, in ambito critico ha ingenerato confusioni sulla datazione dell'edificio e per conseguenza sulla distinzione e datazione dei centodiciannove pezzi (Cattaneo, 1889; Beltrami, 1902; Arslan, 1953): capitelli, mensole e pilastrini dell'epoca liutprandea nella forma strutturale, nei motivi decorativi (tralci, crocette, fogliame, aquila, angelo) e nel tipo di lavorazione piuttosto bidimensionale e grafica rivelano l'impegno della rinascenza liutprandea in direzione del recupero dell'eredità della plastica classica, ma con una originale rivisitazione nei termini di una maggiore geometricità (Dianzani, 1989).Il sacello carolingio di S. Satiro, fondato dall'arcivescovo Ansperto nell'876, conserva due capitelli corinzieggianti il cui modellato ha subìto una rivisitazione in chiave grafica e per superfici lisce, confermando una continuità stilistica con gli esemplari di epoca liutprandea (Chierici, 1942a; Arslan, 1953; 1954a; Sannazzaro, 1990; Romanini, 1991, p. 28). All'età carolingia si riconducono alcune lastre di recinzione presbiteriale con motivi a intreccio - due in S. Ambrogio, alcune nel Castello Sforzesco (Civ. Raccolte di Arte Antica; David, Cassanelli, Dell'Acqua, 1993), i frammenti oggi su un muro all'esterno di S. Vincenzo in Prato (Ebani, 1973) e un pilastrino frammentario oggi al Mus. di S. Lorenzo (Bonetti, 1991, pp. 187-188) - sempre più complessi e tipicamente carolingi, come la maglia di cerchi annodati, molto diffusi nell'Italia centrosettentrionale e Oltralpe nella prima metà del 9° secolo.La realizzazione dell'altare d'oro in S. Ambrogio deve essere inquadrata entro la generale ristrutturazione del presbiterio della basilica, avvenuta nel quarto decennio del sec. 9° per iniziativa del vescovo franco Angilberto II (824-859), rappresentato con il nimbo quadrato su un medaglione del tergo dell'altare mentre offre l'opera. Le spoglie di s. Ambrogio, con quelle dei martiri Gervasio e Protasio, vennero riunite in un unico sarcofago, posto trasversalmente sopra i due di epoca paleocristiana (Peroni, 1974b), visibile al di sotto dell'altare attraverso i due sportelli del lato posteriore della cassa. La forma e le proporzioni dell'altare peraltro richiamano quelle di un antico sarcofago ed è sicuramente unitaria l'ideazione di questo straordinario prodotto della plastica e dell'oreficeria carolingia, in lamine d'oro e d'argento dorato lavorate a sbalzo, con cornici di smalti policromi a cloisonné, inserzioni di gemme, perle, filigrane e l'iscrizione niellata del tergo; per la sua realizzazione vennero coinvolti diversi artisti: lombardi, o comunque attivi nella regione, furono gli autori delle Storie cristologiche della fronte, con una cultura figurativa di base tardoantica, ma aggiornata su miniature della scuola di Reims del sec. 9°, come il Salterio di Utrecht (Bibl. der Rijksuniv., 32), e costantinopolitane; invece l'artista principale, Vuolvinio (v.), autore del pannello retrostante rivolto verso il coro con le Storie di s. Ambrogio, fu un monaco - come risulta dalla scena nel tondo dell'Incoronazione di questo magister phaber da parte del santo - di ignote origini, ma comunque intriso di cultura lombarda, sensibile a modelli paleocristiani, a miniature e avori del sec. 6° e dotato di grande inventiva e capacità narrativa (Bertelli, 1988; 1995).Sempre in S. Ambrogio, nel medesimo periodo venne realizzato da due diverse scuole il mosaico dell'abside centrale ('rifatto' nei restauri ottocenteschi) e inoltre fu innalzato il fastigio sopra il ciborio sovrastante l'altare, presente nella basilica dal sec. 5°-6°, cioè dall'episcopato di Lorenzo (Bertelli, Brambilla Barcilon, Gallone, 1981; Bertelli, 1988), ma orientato diversamente e poggiante a un livello inferiore rispetto all'attuale. La sua volta a crociera cupolata e costolonata all'interno conserva tracce di pittura e sul retro del timpano occidentale è visibile uno schizzo, accostabile alle sinopie degli affreschi in S. Salvatore a Brescia; le colonne in porfido sono di reimpiego (Bertelli, 1988).La zona absidale della chiesa del monastero benedettino fu ulteriormente abbellita negli ultimi decenni del sec. 10° dalla decorazione in stucco, frammentariamente conservata nel Mus. Sacro di S. Ambrogio, che, con semicolonne dal capitello a fogliami sormontato dai simboli degli evangelisti e ghiere decorate da cornici di foglie d'acanto, segnava i profili della campata voltata a botte davanti all'abside centrale; anche il tondo in stucco policromo con il busto di S. Ambrogio entro un clipeo, un tempo sul lato destro del presbiterio, è collegabile a questa fase (Peroni, 1974b) o è di poco successivo (Bertelli, 1995).Contemporaneamente i quattro timpani del fastigio del ciborio ricevettero una decorazione in stucco dipinto, i cui soggetti sono discussi, in quanto a seconda dell'identificazione dei personaggi varia, anche se di poco, la datazione dell'intervento. Sul timpano rivolto verso la navata è raffigurata la Traditio legis et clavium, su quello verso il coro invece i Ss. Gervasio e Protasio che introducono davanti a s. Ambrogio un monaco e un vescovo che reca il modello del ciborio, secondo Bertelli (1988; 1993) identificabile probabilmente con il vescovo Gotofredo; sul pannello cuspidato di destra, Maria-Ecclesia riceve l'omaggio di due donne, che per Peroni (1974b) corrisponderebbero ad Adelaide e a Teofano, mogli degli imperatori Ottone I e Ottone II, rappresentati con la corona e in preghiera sul timpano di sinistra. Nel 972 Ottone II sposò la principessa bizantina Teofano, l'anno successivo morì il padre, Ottone I, sposo della longobarda Adelaide: sul ciborio sarebbe dunque celebrata questa successione, e la decorazione a stucco risulterebbe quindi databile ad annum, tra il 972 e il 973; per Bertelli (1988; 1993; 1995) invece i quattro personaggi di profilo sarebbero cittadini milanesi rappresentati nell'atto di riconoscere l'autorità del vescovo, forse il 'nuovo' vescovo Gotofredo (974-979), legato a Ottone II.Per l'identificazione dei personaggi raffigurati, per l'analisi stilistica e a riprova delle datazioni proposte per la decorazione del fastigio del ciborio di S. Ambrogio si è fatto giustamente riferimento a un gruppo di avori coevi realizzati in botteghe milanesi su promozione ambrosiana e in stretta connessione con la dinastia ottoniana: si tratta della situla di Gotofredo oggi al Tesoro del Duomo, della c.d. placchetta Trivulzio (Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Applicata) - forse entrambe opera di un medesimo intagliatore (Little, 1988) - e della situla Basilewskij (Londra, Vict. and Alb. Mus.), confrontabili e collegabili a loro volta con altri importanti pezzi eburnei del sec. 10°, prodotti forse in una bottega situata proprio nel monastero benedettino di S. Ambrogio.Si è accennato alla tradizione della lavorazione dell'avorio a M. fin dall'epoca tardoantica; il dittico carolingio proveniente da S. Ambrogio con la Passione e la Risurrezione di Cristo, conservato al Tesoro del Duomo ed esemplato su un modello paleocristiano, confermerebbe la continuità nella produzione eburnea (Fillitz, 1987; Little, 1988). Quasi tutte le scene sono riproposte con identica, ma aggiornata iconografia, nei dodici episodi intagliati sui due registri sovrapposti nella situla Basilewskij, la cui iscrizione del bordo inferiore attesta il riconoscimento dell'alto livello qualitativo dell'opera e la dedica a un Ottone, forse Ottone II in visita a M. nel 980.Nella placchetta Trivulzio (Fillitz, 1993, II, pp. 67-69) la famiglia imperiale degli Ottoni, identificata dall'iscrizione Otto imperator, secondo il rituale cerimoniale bizantino rende omaggio a Cristo benedicente in trono, tra due angeli sospesi in alto, la Madonna a destra e s. Maurizio a sinistra; Ottone II starebbe accompagnando la moglie Teofano e il figlio bambino incoronato sarebbe Ottone III, proclamato nel 983 imperatore in seguito alla morte del padre; quindi la placca sarebbe stata fatta realizzare in quell'anno per celebrare l'incoronazione del nuovo imperatore e per essere donata al monastero milanese di S. Maurizio, patrono della dinastia ottoniana.La trattazione dei panneggi, le proporzioni classiche, la resa delle relazioni spaziali, la tipologia dei volti ritornano nei rilievi della situla di Gotofredo, proveniente da S. Ambrogio e realizzata su commissione del vescovo probabilmente nell'ottavo decennio del sec. 10° per una cerimonia particolare, che l'iscrizione riferisce ancora una volta a un veniente Cesare. Le proporzioni dei personaggi, l'atteggiamento classico e l'equilibrato rapporto con gli elementi architettonici rimandano da un lato a fonti tardoantiche e dall'altro a modelli carolingi (Little, 1988; Fillitz, 1993, II, pp. 74-75).Questo gruppo di avori milanesi è di poco preceduto da un'importante serie di singole placche eburnee con scene neotestamentarie, facenti parte in origine di un arredo liturgico della cattedrale di Magdeburgo, forse un paliotto donato tra il 962 e il 973 da Ottone I, raffigurato nella placchetta dedicatoria (New York, Metropolitan Mus. of Art) mentre, accompagnato da s. Maurizio, offre a Cristo il modellino della chiesa che aveva fatto erigere nella città tedesca. Quasi sicuramente anche quest'opera complessa, insieme ad altre placche eburnee confrontabili con essa, venne realizzata a M. da un autore che, sensibile a iconografie carolinge, narrò ispirandosi a coevi prodotti bizantini; la scena della Visitazione (Monaco, Bayer. Nationalmus.) per analogie stilistiche è accostabile alle figure femminili in stucco del timpano sinistro del ciborio ambrosiano, le presunte Adelaide e Teofano, a riconferma dell'indiscutibile nesso che lega questo nutrito corpus di avori ottoniani di produzione milanese al ciborio di S. Ambrogio (Little, 1988).A completamento di queste puntualizzazioni sugli avori milanesi di epoca ottoniana, Nordenfalk (1988) ha collegato la classicheggiante placchetta con S. Nazaro (Hannover, Kestner-Mus.; Vergani, 1993), appartenente in origine a un piatto di legatura di un sacramentario, a una piccola placca di Magonza (Mittelrheinisches Landesmus.; Kahsnitz, 1993; Vergani, 1993) con la rilevata Madonna in trono con il Bambino, stilisticamente vicina a miniature del Registrum Gregorii di Treviri (Stadtbibl., 171/1626), in particolare a quella con la raffigurazione di papa Gregorio Magno, e infine a una coperta di evangeliario (Liegi, Mus. d'Archéologie et d'Arts Décoratifs, Mus. Curtius) per il vescovo Notgero di Liegi (971-1008). Probabilmente il Maestro della Madonna di Magonza e il Maestro del Registrum Gregorii, miniatore a Treviri dal 983 per l'arcivescovo Egberto (977-993), sono la stessa persona di origine lombarda e di ambito milanese, vista la sua formazione tardoantica, forse identificabile con il pittore Iohannes, noto dalle fonti, chiamato da Ottone III a realizzare pitture murali, oggi perdute, nella cattedrale di Aquisgrana. La presenza contemporanea del miniatore e del frescante prima ad Aquisgrana e poi a Liegi sembrerebbe confermare l'assimilazione dei due artisti in un'unica personalità (Nordenfalk, 1988; Vergani, 1993, pp. 263-264), ipotesi peraltro non sempre accettata (Bertelli, 1993, pp. 268-269).Nella prima metà del sec 11° fu Ariberto da Intimiano (1018-1045), prima suddiacono poi arcivescovo di M., a dare un'impronta significativa, rafforzando il potere politico dell'autonoma Chiesa milanese, dando nuovo impulso all'economia e affermandosi come principale mecenate e committente del più importante centro culturale e artistico italiano del periodo. Sono sue alcune importanti commissioni di prodotti di oreficeria, tra le quali la coperta di un evangeliario donato alla basilica di S. Tecla e il coperchio della sua cassetta liturgica oggi al Tesoro del Duomo, detta pace di Ariberto, e la croce per la chiesa di S. Dionigi conservata al Mus. del Duomo, opere che testimoniano la continuità di produzione dei laboratori di oreficeria e smalti a Milano.Le due valve che, riadattate, per lo meno dal sec. 15° coprono l'evangeliario contribuiscono a sancire il prestigio religioso e politico di Ariberto-vicario di Cristo, attraverso lo svolgimento del programma iconografico relativo alla redenzione dell'umanità, centrato su Cristo-lux mundi in rilievo sulla croce in smalto verde al centro della pace (Musei e Gallerie di Milano, 1978; Vergani, 1993, pp. 193-194, 282-284), e con la raffigurazione a sbalzo dello stesso Ariberto sul registro superiore della coperta vera e propria, in atto di presentare il prezioso codice a Cristo benedicente, con l'avallo dei tre santi milanesi a sbalzo sulla fascia inferiore. A quest'opera si ricollega la c.d. pace di Chiavenna nella collegiata di S. Lorenzo dell'omonima città, una valva di coperta di evangeliario forse eseguita in ambito milanese o lombardo tra la metà del sec. 11° e gli inizi del 12° (Vergani, 1993, pp. 316-317).Anche i caratteri formali del Cristus patiens nella croce per la chiesa di S. Dionigi, sbalzato e cesellato su lastre di rame su un'anima di legno, rimandano a miniature dell'epoca (Sacramentario di Varmondo, Ivrea, Bibl. Capitolare, 86) e agli affreschi dell'aribertiana S. Vincenzo a Galliano; in via del tutto straordinaria ai piedi della croce è rappresentato l'arcivescovo di ridotte dimensioni che tiene il modellino della chiesa da lui fondata nel 1022 ca. in cui venne collocata la grande croce, quasi immagine metallica di una miniatura con Crocifissione e donatore, come secondo Brenk (1988) nel Sacramentario di Lodrino della Bibl. Ambrosiana (A.24 inf., c. 182v).Ricchi apparati plastici, con parti di restauro (Cassanelli, 1988), ancora caratterizzano, oltre che l'atrio e l'interno di S. Ambrogio, gli interni di S. Celso (Segagni Malacart, 1989), S. Eustorgio (Righetti Tosti-Croce, 1984) e S. Babila (Arslan, 1952). Si conservano resti significativi delle fasi romaniche di S. Maria d'Aurona (Vergani, 1993, pp. 456-458), S. Lorenzo (Bonetti, 1991), S. Nazaro (Cassanelli, 1986a; Peroni, 1988, pp. 169-171), S. Stefano (Reggiori, 1924-1925), S. Simpliciano (Gremmo, 1986; 1991) e S. Giorgio in Palazzo. Le realizzazioni plastiche delle taglie degli scultori milanesi sono del resto da porre in relazione con quelle dei cantieri romanici delle chiese comasche (de Francovich, 1935-1937; Arslan, 1954c; Balzaretti, Gini, 1966; Rocchi, 1973; Zastrow, 1978b) e pavesi (de Francovich, 1935-1937; Chierici, 1942b; Arslan, 1954c; 1955; Peroni 1967; 1975).I vigorosi simboli degli evangelisti della lastra proveniente da S. Maria Beltrade (Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica; Vergani, 1993) devono essere stati realizzati nei primi decenni del sec. 12°, poiché mantengono una stretta parentela con gli animali intagliati sui capitelli ambrosiani, pur prestando già una certa attenzione a esperienze comasche, quali il pulpito di S. Giulio d'Orta, ed emiliane, come la lunetta della Maiestas Domini proveniente dal duomo di Cremona (Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica).Il livello qualitativo dei prodotti scultorei delle maestranze milanesi decadde durante il sec. 12°: si delinearono due filoni, uno di opere arcaicizzanti realizzate, piuttosto che da scultori, da artigiani dall'orizzonte volutamente fermo sulla produzione locale o scarsamente ricettivi delle influenze esterne; l'altro invece costituito da sculture realizzate dopo contatti risolutivi con altri cantieri padani, come quello della cattedrale di Parma, quello dei wiligelmici e dei campionesi del duomo di Modena, quello della 'scuola di Piacenza' e del duomo di Cremona (Segagni Malacart, 1989). Le composizioni sono tendenzialmente organizzate in maniera paratattica, i personaggi, isometrici, si presentano frontali o di profilo con massicce proporzioni, con teste, mani e piedi in decisa evidenza e indossano rigidi panneggi a pieghe, per lo più parallele.Tra i pezzi arcaicizzanti si segnalano i tre capitelli figurati e l'architrave del portale di S. Celso, con episodi della Vita dei ss. Nazaro e Celso, rigidamente illustrati sotto una serie di incongrue arcate, i cui personaggi dalle tozze proporzioni sono ripetuti con meccanicità (Segagni Malacart, 1989; Fiorio, 1993), nonché il capitello proveniente da S. Bartolomeo al Bosco di Appiano (Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica; Segagni Malacart, 1989; Fiorio, 1993; Vergani, 1993).Il pulpito di S. Ambrogio (Arslan, 1954c; Binaghi Olivari, 1972a; Borghi, 1975; Segagni Malacart, 1989), ricomposto e modificato tra il 1202 e il 1212, assembla tra l'altro la lastra ripetitiva e arcaicizzante dell'Ultima Cena (1110-1120 ca.) a un telamone influenzato nel risalto plastico e nella resa complessiva da modelli parmensi. Nella lastra della seconda metà del sec. 12° con il corteo della Vergine 'Idea', già in S. Maria Beltrade (Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), il soggetto, interessante dal punto di vista liturgico e iconografico, è risolto secondo uno schema semplice e ripetitivo (Cassanelli, 1986b; Vergani, 1993).Alla seconda metà del sec. 12° appartengono anche il fregio del portale di S. Simpliciano con le Vergini sagge e santi dalle grandi mani e dalle grandi teste, allineati nella strombatura, e l'archivolto del portale di S. Maria Assunta di Calvenzano presso Caselle Lurani, con episodi dell'Infanzia di Cristo. Questi ultimi appaiono ben orchestrati rispetto all'ordine di lettura e alla collocazione e caratterizzati da figure che nella resa risentono dell'influenza di sculture postwiligelmiche piacentine e cremonesi (Cochetti Pratesi, 1975; Gatti Perer, 1979; Segagni Malacart, 1989; Fiorio, 1993).I bassorilievi superstiti della porta Romana (Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica) - fatta erigere dai consoli milanesi insieme alla cinta di mura medievali nel 1171 ca. dopo le distruzioni di Federico I Barbarossa e l'esilio della cittadinanza - devono anch'essi essere inquadrati nell'ambito dell'arcaicizzante cultura milanese del periodo, ma per altri versi il forte messaggio politico e civico che li caratterizza ne giustifica in parte le qualità formali (Fiorio, 1993): con quest'opera si intendeva infatti celebrare la storia recente e drammatica della città, richiamandosi però alla figura del patrono s. Ambrogio, vincitore degli ariani e, per traslato, di coloro che, ereticamente, appoggiavano Federico I Barbarossa (Segagni Malacart, 1989). Ciò giustificherebbe in parte il fatto che i soggetti celebrativi (Rientro a M. delle truppe di M. e delle città confederate, Rientro a M. degli abitanti, S. Ambrogio scaccia gli ariani) siano stati sviluppati paratatticamente su un unico piano nel capitello e con ripetitive, schematiche figure: i due scultori, distinguibili, avrebbero guardato a fregi celebrativi tardoantichi di archi come aulici modelli stilistici e compositivi di riferimento; gli autori potrebbero essere stati il vivace e variato Girardo e lo schematico Anselmo, attestati dalle iscrizioni, ma forse piuttosto costruttori della porta e non necessariamente scultori (Binaghi Olivari, 1972a; Grandi, 1988; Romanini, 1989; Segagni Malacart, 1989; Fiorio, 1993; Vergani, 1993).È un precoce campionese (v. Campionesi; I maestri campionesi, 1992) lo scultore delle lastre degli apostoli nella parete della seconda campata della navata sinistra nel duomo milanese, probabili resti del pontile (1185-1187) della recinzione presbiteriale dell'antica S. Maria Maggiore: le monumentali, ma ben modulate figure, serrate negli intercolumni di un portico architravato, secondo lo schema delle facciate provenzali di Saint-Trophime ad Arles e della chiesa di Saint-Gilles, confermano l'importanza romanica dei volumi e delle masse che i campionesi continuarono a sottolineare anche a M. per quasi due secoli ancora (de Francovich, 1952, I, p. 69ss.; Arslan, 1954c, pp. 594-599; Segagni Malacart, 1989).La corrente antelamica a M. ha lasciato pochissime tracce, ma di ottimo livello: di alta qualità è la frammentaria lastra dell'Adorazione dei Magi (Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), della fine del sec. 12° o degli inizi del 13°, rinvenuta tra le fondamenta di un pilastro del duomo - e quindi forse in origine in S. Maria Maggiore -, realizzata da un seguace di Benedetto Antelami probabilmente formatosi, come attestano le affinità con il Maestro dei Profeti, nel cantiere del duomo di Fidenza (Calzona, 1990, pp. 364-365).La statua equestre del podestà Oldrado da Tresseno, posta entro una nicchia ad arco della facciata sud del broletto, fu realizzata nel 1233 ca. da un tardivo maestro antelamico - a conoscenza del S. Giorgio che abbatte il drago sul fianco destro della cattedra vescovile del duomo di Parma - che, sensibile alle esplicite esigenze di celebrazione civica, recuperò i modelli classici di famosi gruppi equestri (Pavia, Reggisole; Roma, Marco Aurelio) e, senza rendere cavallo e cavaliere in modo accademico, li trascrisse con fare naturale già gotico, appena irrigiditi nelle masse per certi versi ancora romaniche (Grimoldi, 1983; Grandi, 1988; Romanini, 1989).La decorazione plastica delle prime abbazie dei Cistercensi e degli Umiliati, fondate e costruite nel sec. 12°, risente dell'esigenza di essenzialità estrema dell'architettura nel suo complesso, propria dell'Ordine cistercense: le cornici di porte e finestre sono costituite di semplici ghiere fogliate, i capitelli spesso hanno forma geometrica, cubica e scantonata (Viboldone), o sono costituiti da una serie di listelli privi di decorazione. I capitelli duecenteschi delle colonnine binate del chiostro di Chiaravalle Milanese sono del tipo 'a crochets' a foglie lisce o nervate, talvolta con testine umane al centro e agli angoli, e le coppie di colonne annodate sono sormontate da capitelli con aggettanti aquile ad ali aperte, sopra le quali è collocata una testina (Hülsen, 1992; David, Cassanelli, Dell'Acqua, 1993); anche nella milanese S. Eustorgio i pilastri cilindrici del sec. 13° sono conclusi da capitelli 'a crochets' con terminazioni a palmetta o con foglie d'acqua accostate su file parallele (Righetti Tosti-Croce, 1984).Nel transetto sinistro del duomo è collocato il grande 'arbore della Vergine', il candelabro Trivulzio in bronzo e pietre dure, montato nel 1562 dopo il complesso completamento a cui era stato sottoposto. Degli inizi del sec. 13° sono infatti solo il nodo, con la Cavalcata dei Magi verso la Vergine in trono con il Bambino e i profeti, e l'elaborata base quadrangolare, con un complesso programma figurativo che comprende quattro draghi alati e una decorazione su tre livelli con scene dell'Antico Testamento entro volute naturalistiche intrecciate, la psicomachia e i segni zodiacali; figure e vesti sono scolpite secondo uno stile classicistico gotico di derivazione francese (Claussen, 1994). Di questa straordinaria e complessa opera di oreficeria non si conosce la provenienza e, caduta l'attribuzione a Nicola di Verdun, tra le tante ipotesi è stata avanzata quella della sua realizzazione in una fonderia milanese e della sua destinazione nella città (Claussen, 1994), anche se prevalentemente si pensa ad ateliers mosani o lorenesi (Homburger, Deuchler, 1988; Zuffi, 1993). Allo scultore che ha realizzato il nodo si possono attribuire gli ornamenti in bronzo di una croce processionale già nel tesoro di S. Maria presso S. Celso, ma proveniente da Chiaravalle Milanese, ora al Tesoro del Duomo.Opera campionese è il monumento funebre dell'arcivescovo Ottone Visconti (m. nel 1295), che oggi si trova nella seconda campata della navata destra del duomo, ma un tempo era conservato in S. Tecla. Si tratta di un'arca rettangolare in marmo rosso di Verona, sostenuta ora da due slanciate colonne: sulla falda frontale del coperchio a doppio spiovente sono intagliati l'effigie a bassorilievo del giacente in abiti vescovili tra due diaconi e un bordo orlato, e come acroteri sono collocati agli angoli i simboli alati degli evangelisti a tutto tondo; lo schema iconografico deriva da esemplari francesi e più in generale d'Oltralpe (Seiler, 1994).Sulla loggia degli Osii copie sostituiscono le nove statue originali (coll. privata) della Madonna con il Bambino e degli otto santi, realizzate da due maestri lombardi dal 1316 in poi; sono robuste figure a tutto tondo, con volti ovoidali piuttosto duri e scavati, dalla fisionomia ben caratterizzata ed espressiva, mani veristiche e panneggi mossi (Previtali, 1975; Seiler, 1994).Il linguaggio un po' rude, ma decisamente comunicativo, dei campionesi caratterizza sia la modesta formella con S. Giorgio e il drago del 1308, nel transetto sinistro di S. Giorgio in Palazzo, sia, per certi versi, il busto di Matteo I Visconti (forse identificabile anche con S. Giovanni Battista) all'esterno di S. Eustorgio (Seiler, 1994), e nel corso del Trecento ritorna non solo nella produzione dei grandi maestri attivi in diversi centri padani (Giovanni, Bonino e Matteo da Campione) e dei loro seguaci, ma anche in quella di scultori rimasti anonimi che, prima a M. e poi a Pavia, lavorarono alle dipendenze dello scultore pisano Giovanni di Balduccio (v.), giunto a M. nel 1334 (Carli, 1989) probabilmente chiamato da Azzone Visconti.Nulla si è conservato della prima commissione, la tomba di Beatrice d'Este (m. nel 1334), madre di Azzone Visconti, un tempo nella cappella della Trinità della distrutta chiesa di S. Francesco Grande; recuperati nell'area di S. Tecla, rimangono invece i frammenti (arcangelo e Tobiolo, rocchio di colonna tortile con la biscia viscontea, leone stiloforo; Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica) di un altro sepolcro visconteo di tipo tinesco, molto probabilmente opera di un aiuto toscano. Con la collaborazione di toscani e campionesi coinvolti nella sua avviata bottega Giovanni realizzò, tra il 1335 e il 1339, la sua opera più significativa, l'arca di S. Pietro Martire nella cappella Portinari in S. Eustorgio; in parallelo, con aiuti locali e toscani, intagliò per i tabernacoli delle porte urbiche (porta Ticinese, porta Orientale, porta Comasina, porta Romana, porta Nuova, porta Vercellina) dell'appena rinnovata cinta muraria le statue di Madonne con il Bambino e santi protettori dei quartieri (S. Giacomo Maggiore forse da porta Romana e tre statue di santi di provenienza incerta al Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica; quelle di porta Nuova in loco; la Madonna del gruppo di porta Vercellina oggi in S. Nicolao), intervenendo personalmente su alcuni volti di santi e in certe Madonne, ma lasciando largo spazio agli scultori campionesi, in particolare al Maestro della lunetta di Viboldone (Fiorio, 1991). Alla morte di Azzone, nel 1339, lo scultore venne incaricato della realizzazione del sepolcro, ricomposto nel 1930 dopo lo smembramento piermariniano in S. Gottardo in Corte, la cappella viscontea: se controversa è la ricostruzione della struttura balduccesca originaria, pochi sono i brani scultorei a lui direttamente attribuibili, essendo per gran parte opera di scultori toscani e milanesi (Seiler, 1990; 1994). Nel 1347 Giovanni di Balduccio progettò e diresse la costruzione della facciata di S. Maria di Brera, con un paramento di tipo toscano e genovese, ma le sculture del portale non sono sue (capitelli con testine maschili e femminili tra fogliami, Angelo annunciante e Vergine annunciata, parte dell'architrave su cui appose firma e data; Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), ma piuttosto di artisti toscani al suo seguito. Gli sono stati attribuiti infine il monumento funebre di Lanfranco Settala in S. Marco e la ben più tarda arca di S. Agostino in S. Pietro in Ciel d'Oro a Pavia, sicuramente realizzata dalla sua ex-bottega.Con l'arca di S. Pietro Martire - commissionata dai Domenicani con la partecipazione finanziaria di Azzone e Giovanni Visconti e di altri personaggi altolocati e rispondente nei contenuti a un preciso programma religioso e politico - Giovanni di Balduccio recuperò e reinventò le caratteristiche strutturali e compositive dell'arca bolognese di S. Domenico di Nicola Pisano e del monumento funebre genovese a Margherita di Brabante di Giovanni Pisano. Alla mano di quest'ultimo maestro toscano si possono con certezza riferire quasi tutte le eleganti statue delle Virtù, gli animali fantastici delle basi, alcuni dei santi attorno al sarcofago, il pur raggelato gruppo della Madonna con il Bambino e alcune statuette dei cori angelici. L'intervento degli aiuti, toscani e campionesi, è stato determinante nelle affollate scene scolpite sulla cassa, in cui la narrazione si svolge con estrema chiarezza, pur entro un rigido schematismo di fondo, grazie ad alcune felici figure particolarmente espressive o realistiche (Bellone, 1940; Baroni, 1944; Toesca, 1951; Russoli, 1963; Bossaglia, 1984; Carli, 1989).Nella chiesa di S. Marco - da cui provengono i due monumenti campionesi oggi nel Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica: il frontale di Mirano di Bechaloe del 1310 ca. (Vergani, 1993, p. 470) e la fronte del sarcofago di Rebaldo Aliprandi del 1325-1330 ca. - sono conservati nel transetto destro i frontali di monumenti tombali trecenteschi cronologicamente molto vicini sia al periodo della fase diretta e indiretta dell'influenza balduccesca sia alla prima produzione di Bonino da Campione e della sua bottega; si segnalano in particolare l'arca del maestro Lanfranco Settala, il frontale della tomba di Salvarino Aliprandi e quello con l'Incoronazione della Vergine, e infine una formella di sarcofago. La prima fu realizzata nel 1355 ca. da uno scultore toscano in anni precedenti a stretto contatto con Giovanni di Balduccio (m. nel 1349 ca.), mentre per le parti secondarie fu coinvolta la bottega milanese dei campionesi balducceschi, allora ancora operante; l'arca a parete segue una tipologia toscana, inedita è la figura del giacente con il viso coperto dal cappuccio e sul frontale il soggetto della Lezione del dotto risulta connesso con l'attività dello studium agostiniano in S. Marco. Il frontale della tomba di Salvarino Aliprandi, senz'altro attribuibile al campionese Maestro di Viboldone, sarebbe stato realizzato qualche tempo prima delle tre sculture (1348) sul portale dell'abbazia umiliate; invece il frontale con l'Incoronazione della Vergine fu eseguito da un balduccesco in collaborazione con uno scultore 'boniniano' nel sesto decennio del secolo, come la contemporanea formella centrale del sarcofago di impaginazione tardogotica del presunto Giacomo Bossi, ascrivibile alla bottega di Bonino da Campione (Barile, 1987).Negli anni cinquanta del Trecento infatti Bonino fu attivo con la sua bottega a M., producendo tra l'altro diversi sarcofagi per S. Eustorgio: nella fase iniziale può essere, per certi versi, considerato l'erede di Giovanni di Balduccio, sia nei confronti della committenza illustre, avendo lavorato con il suo atelier per i Visconti e gli Scaligeri nella seconda metà del secolo, sia perché negli anni cinquanta seppe conservare nel suo fare scultoreo marcatamente campionese certe eleganze e dolcezze espressive toscane, apprese forse grazie al tramite del Maestro di Viboldone.Il molto rimaneggiato monumento funebre di Valentina e Stefano Visconti nella quarta cappella a destra in S. Eustorgio, ascritto a Bonino, ripropone lo schema toscano ed è costituito dall'assemblaggio di pezzi scultorei di fasi diverse del secolo: il sarcofago è riferibile al 1359 ca., con il gruppo centrale di impronta fortemente campionese e i gotici santi laterali influenzati dalla scuola pisana; attribuibile ad altra mano è la Madonna con la mela che sormonta la cassa (Bossaglia, 1984; 1992b). Nella stessa chiesa altri due monumenti di poco precedenti sono associati al nome dello scultore campionese, opere piuttosto della scuola: il monumento dei signori di Angera e di Fontaneto nella sesta cappella a destra, con il frontale con l'Incoronazione della Vergine, e il sarcofago di Protaso Caimi nella terza cappella a destra, con il frontale tripartito, come nell'autografa boniniana arca cremonese di Folchino degli Schizzi, e con i rigidi, espressivi santi partecipi della scena centrale della commendatio animae, caratterizzata dalla presenza di una Madonna in atteggiamento tipicamente gotico (Baroni, 1944; Bossaglia, 1984; 1992b).In S. Eustorgio, sull'altare - con il rilievo con S. Giovanni Battista proveniente dal sarcofago di Uberto III Visconti - della cappella a cornu epistolae si trova l'ancona dei re Magi (1347), in forma di trittico cuspidato scompartito da pilastrini e decorato da una cornice a gattoni e pinnacoli: nei rilievi si nota l'influenza dello stile balduccesco delle Storie dell'arca di S. Pietro Martire, ma prevalgono le qualità compositive campionesi, determinate durezze, gli schemi impaginativi ripetuti, l'interesse per i dettagli naturalistici (Bossaglia, 1984).Il monumento a Bernabò Visconti (Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica) fu posto dietro l'altare maggiore di S. Giovanni in Conca dall'anno della morte del signore (1385), ma le due parti che lo compongono, il sarcofago retto da colonne e pilastri e il gruppo equestre sovrastante, furono realizzate da Bonino e dalla bottega in due fasi: il cavallo e il rigido cavaliere vennero terminati intorno al 1363, seguendo i modelli dei gruppi equestri campionesi (v. Bonino da Campione) e mitigando le forti strutture con la gotica descrizione meticolosa dei dettagli; la cassa fu intagliata tra il 1380 e il 1385, con rilievi seriali prodotti dalla bottega; le quattro figure femminili a tutto tondo che sul plinto completano l'opera rimandano ancora a influenze balduccesche (Bossaglia, 1992b).L'ancona della Passione sull'altare maggiore in S. Eustorgio, commissionata tra il 1395 e il 1402 da Gian Galeazzo Visconti - con otto Storie della Passione articolate su due registri e intervallate dal doppio rilievo della Crocifissione (modificata in corso d'opera) -, testimonia la fase tardogotica della scultura lombarda; l'impaginazione sembra unitaria, ma i rilievi sono stati realizzati da diversi scultori, pronti nel descrivere con precisione i differenti costumi; nelle scene si registrano influenze nordiche, per es. un'ispirazione francese nella scena della Crocifissione (Baroni, 1944), e di miniature lombarde; le statuine sono di altra mano, comunque coeva. Questo dossale rivela un'indubbia affinità tra le statuette a tutto tondo e le prime opere scultoree di maestri nordici collocate nel duomo di M. (Bossaglia, 1984).Giovannino de Grassi realizzò tra il 1391 e il 1396 per il duomo, della cui fabbrica divenne ingegnere nell'ultimo decennio del secolo, il rilievo di Cristo con la Samaritana al pozzo, nel coronamento a cuspide della nicchia del lavabo della sagrestia meridionale: la parte decorativa traduce nel marmo gli ornati dei margini delle miniature dell'Offiziolo Visconti di Modrone (Firenze, Bibl. Nazionale, B.R. 397; Cadei, 1986b). Giovannino inventò anche il tipo del capitello a nicchie che conclude i piloni interni della cattedrale: nel 1393 eseguì un prototipo in legno e mise in opera due capitelli, uno dei quali è riconoscibile nel nr. 83. Il capitello combina sapientemente elementi architettonici e decorazione plastica: è ottagonale, con le nicchie per contenere le statue separate da pilastrini a cuspide e concluse da baldacchini e ghimberghe, arricchiti da pinnacoli gattonati e motivi a fogliame (Cadei, 1969; 1986a).
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I santi a figura intera nel sacello di S. Vittore in Ciel d'Oro presso S. Ambrogio, cronologicamente collocabili tra la fine del sec. 5° e l'inizio del successivo, con la loro rigida monumentalità e il presunto sforzo ritrattistico del volto di Ambrogio, costituiscono l'ultima testimonianza superstite nella città di una cultura figurativa vitalissima nei decenni precedenti e arricchitasi grazie ai rapporti con Ravenna.La scomparsa di opere che si possano inserire tra questi e il 568 - anno della conquista longobarda - ha reso infatti tale data nella tradizione storiografica una cesura ancora più netta. A colmare parzialmente il vuoto di materiali successivi all'insediamento dei Longobardi a M. contribuisce la decorazione della tomba scoperta nel 1949 a S. Giovanni in Conca, le cui più recenti ipotesi di datazione si orientano tra la fine del sec. 6° e l'inizio dell'8° (Romanini, 1981, p. 830; Peroni, 1984, p. 261; Fiorio Tedone, 1986, p. 409). La sepoltura, rinvenuta sconvolta, conservava sulla parete lunga due cervi affrontati a una croce patente e, su quella breve, due pernici ai lati di una palma (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica). Queste pitture, dal tratto stilistico non eccelso, ma sicuramente fluido e dalla resa naturalistica, costituiscono inoltre un elemento che potrebbe rendere meno isolati gli affreschi di Castelseprio (v.). Tuttavia la scarsità di opere altomedievali restituisce, con pochissime eccezioni, un quadro estremamente disgregato della cultura figurativa milanese.Tra lo scorcio del sec. 7° e gli inizi dell'8° è stata collocata (Fiorio Tedone, 1986, p. 407) la decorazione con kántharoi, pavone e croce di una tomba a S. Nazaro, resa con linee marcate che restituiscono un effetto di forte bidimensionalità.Una maggiore scioltezza rivelano l'uccello che affronta un serpente dalle ampie spire e gli elementi vegetali eseguiti, probabilmente nel sec. 9° (Bertelli, 1988), sul rovescio del timpano occidentale del ciborio della basilica di S. Ambrogio, edificio che conserva le testimonianze più significative della produzione artistica di età carolingia.Sempre al sec. 9°, e più precisamente alla vasta campagna di monumentalizzazione della zona presbiteriale promossa dal vescovo Angilberto II (v.; 824-859), dovrebbe risalire il mosaico absidale di S. Ambrogio, in seguito fortemente alterato (Reggiori, 1956). In posizione assiale è il Cristo su un monumentale trono nel cui basamento si trovano le immagini clipeate dei ss. Marcellina, Satiro e Candida; ai lati, a figura intera sono i ss. Protasio e Gervasio e, a un registro superiore, gli arcangeli Michele e Gabriele. L'impianto teofanico del gruppo centrale è in parte attenuato dalla raffigurazione, nelle porzioni laterali del catino, di un episodio miracoloso della vita del titolare; a sinistra Ambrogio infatti assiste alla sepoltura di s. Martino a Tours, nel medesimo istante in cui a M. celebrava la messa raffigurata a destra. Le due scene sono geograficamente contestualizzate, oltre che dalle iscrizioni, anche dalla riproduzione, entro palme inclinate, di edifici rappresentativi delle due città.Le considerazioni di natura tecnico-formale sul catino ambrosiano si debbono basare, purtroppo, quasi esclusivamente su alcuni frammenti staccati, che mostrano una ricchezza cromatica ottenuta probabilmente anche grazie a tessere di reimpiego. La testa di s. Protasio (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), infatti, nell'impianto del volto sembrerebbe richiamare gli affreschi di Müstair (v.), mentre una minore rigidità si nota nella figura di s. Martino (Brescia, Pinacoteca Civ. Tosio-Martinengo) e nella testa di s. Ambrogio (Milano, coll. privata), differenze ritenute da Bertelli (1986; 1988; 1995) indice della compresenza o dell'alternanza di maestranze di cultura diversa, piuttosto che di una esecuzione cronologicamente differenziata. Un ampio rinnovamento dell'opera dovuto forse a maestri veneziani è stato ipotizzato tra la fine del sec. 12° (Toesca, 1912; Salvini, 1954) e gli inizi del 13° (de Francovich, 1942-1944), le cui tracce più cospicue sarebbero da rintracciare nel Pantocratore. Si tratta dunque di una storia materiale ancora non del tutto chiarita nelle sue varie fasi e, all'interno dell'ampio dibattito critico che l'opera ha generato, emergono dati contraddittori, come l'attribuzione al sec. 10° del motivo ad archi che caratterizza l'esterno dell'abside (Arslan, 1954b).A una data a ridosso della costruzione, voluta dal vescovo Ansperto (v.; 868-881), risale invece la decorazione con croci potenziate, figure di santi e motivi fitomorfi delle nicchie e delle volte del sacello di S. Satiro, dove rimangono anche resti di una fase successiva, pertinente probabilmente agli inizi del sec. 11° (Bandera Bistoletti, 1992).Alla fine del sec. 10° il presbiterio di S. Ambrogio venne ulteriormente monumentalizzato con un rivestimento di stucchi integrati da pitture con motivi decorativi, meandri prospettici e finto marmo (Bertelli, 1988, p. 72ss.). Rimangono inoltre in un sottarco due figure di santi entro clipei, motivi vegetali e resti di una scena narrativa, che richiamano nel tratto gli affreschi di S. Vincenzo a Galliano (v.; Segagni Malacart, 1988, p. 200; Valagussa, 1995). Sempre pertinente a una committenza vescovile doveva invece essere il ciclo nella cappella dedicata a s. Lino, fatta erigere da Arderico nel 948 presso il complesso di S. Nazaro, di cui rimangono alcuni resti (Arslan, 1954a, p. 654).La vitalità dell'ambiente lombardo in età ottoniana, malgrado la scarsità di testimonianze nella stessa M., è suggerita - purtroppo solo su base documentaria - anche dall'attività di due artisti provenienti dalla regione, Iohannes e Nivardus, rispettivamente ad Aquisgrana e a Fleury (Nordenfalk, 1988; Lomartire, 1994, p. 59). Per tutto il sec. 11° si sviluppò infatti, come già riconosciuto da Toesca (1912), una scuola dotata di grande originalità che si giovò di rapporti privilegiati con la cultura transalpina, i cui momenti di maggior significatività sono tuttavia da rintracciare oggi esclusivamente nel territorio (v. Lombardia).Se l'assenza di cicli pittorici rilevanti del sec. 11° a M. è in parte spiegabile con le ampie riedificazioni succedutesi, per il sec. 12° è stata ipotizzata una reale flessione produttiva (Lomartire, 1994, p. 75). Al ciclo neotestamentario di S. Mamete in Affori, datato entro gli inizi del sec. 12° e accostato alla decorazione di Civate (v.; Spiriti, 1989), si possono infatti aggiungere due immagini votive della Madonna con il Bambino a S. Celso e ai Ss. Faustino e Giovita a Lambrate e alcuni affreschi staccati da S. Ambrogio. Una serie di figure allegoriche (Pace, Giustizia, Misericordia, Verità, Ecclesia, Sinagoga) disposte sul lato destro della controfacciata è stata recentemente datata al quarto decennio del sec. 12°, mentre nel Mus. Sacro di S. Ambrogio si trovano le figure di Maria e Giovanni un tempo ai lati di una finestra, di poco precedenti (Valagussa, 1995).A una fase collocabile intorno all'ultimo quarto del sec. 12° dovrebbero invece risalire il frammento con angelo e santi (Milano, Mus. Sacro di S. Ambrogio) e il Cristo in trono e la Crocifissione nell'atrio.Agli inizi del Duecento il legame con centri di forte tradizione come Ratisbona e Salisburgo è attestato da alcuni affreschi, in S. Ambrogio, che tramandano il nome del donatore, Bonamico Taverna (Toesca, 1912), ritratto su un pilastro insieme alla Vergine con il Bambino e un santo in abiti vescovili, forse Ambrogio stesso, dove le linee marcate del panneggio restituiscono un effetto monumentale di gusto ancora tardo-ottoniano. La stessa severità di forme si riscontra anche nel pannello con S. Elena nella chiesa di S. Lorenzo.L'ambiente milanese, ricco e recettivo, in questi anni è caratterizzato dalla ricerca di un linguaggio moderno che, attraverso un'apertura alle esperienze gotiche oltremontane, si indirizza verso esiti di gradevole realismo, come per es. nel chierico rinvenuto sulla base di un pilastro nel presbiterio di S. Ambrogio, ritenuto dei primi decenni del sec. 13° (Valagussa, 1995).Nel monumento funebre di Guglielmo de' Cottis, realizzato intorno al 1267 a S. Vittore in Ciel d'Oro, malgrado lo stato di forte compromissione della superficie pittorica, è possibile cogliere la qualità della decorazione e l'abilità con cui l'artista riesce ad adattare la composizione entro lo spazio angusto della lunetta (Boskovits, 1989), mentre nell'atrio della basilica ambrosiana un frammento con Cristo benedicente conferma la raffinatezza grafica della tradizione locale (Segagni Malacart, 1988), riscontrabile anche nel Cristo e la Maddalena a S. Nazaro (Salvini, 1954).L'uso insistito della linea nella costruzione volumetrica è attestato nella seconda metà del sec. 13° dalla Madonna con il Bambino sulla parete sinistra nella cappella Cittadini a S. Lorenzo, alla quale è stato accostato un pannello di analogo soggetto nell'atrio del sacello di S. Satiro (Bandera Bistoletti, 1992); nell'abside della cappella Cittadini rimangono inoltre cospicui resti di una Maiestas Domini nel catino, mentre la parte basamentale conserva un elegante velario con raffigurazioni di animali, piante e S. Giorgio a cavallo, eseguite mediante una fluida linea di contorno bruna a risparmio sul fondo chiaro (Mojana, Frangi, 1985). Sempre a S. Lorenzo, all'ingresso del sacello di S. Aquilino, rimane inoltre una controversa Deposizione, dove il movimento dei corpi è sottolineato da avvolgenti linee di panneggio e vivaci lumeggiature, affini (Segre Montel, 1986) agli esiti raggiunti in ambito padovano con l'Epistolario di Giovanni da Gaibana del 1259 (Padova, Bibl. Capitolare). Diversamente Boskovits (1989) ha riconosciuto nella Deposizione a S. Lorenzo, così come in una Madonna con il Bambino a S. Eustorgio, un legame con lo straordinario ciclo della rocca di Angera (v.).L'interesse, vivo per tutto il sec. 13°, per stilemi bizantini mediati dai centri veneti, divenne ancor più esplicito nel 1288, anno in cui è tramandato l'arrivo di una croce dipinta, opera di un maestro veneziano, nella basilica di S. Eustorgio, dove si trovano anche alcuni resti di affreschi sui pilastri che si distinguono per la saldezza e la volumetria delle figure (Boskovits, 1989), mentre, sul settimo di destra, un frammento di Crocifissione attesterebbe la penetrazione a M. del linguaggio maturato nel cantiere di Assisi (Matalon, 1984; Segre Montel, 1986).Un puntuale aggiornamento sul gusto neoellenico, anche in questo caso probabilmente esemplato su modelli veneziani, si riscontra invece nella decorazione del presbiterio di S. Giovanni in Conca (Rosa, 1965), il cui resto più cospicuo è costituito dall'Annunciazione (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), che si distingue per qualità cromatiche e artificiosità dell'inquadratura architettonica.Malgrado una datazione ai primi anni del sec. 14°, la Madonna con il Bambino e vescovo nell'abbazia di Chiaravalle Milanese si rivela per certi versi ancora legata agli esiti dell'Epistolario di Giovanni da Gaibana (Boskovits, 1989).Una maggiore monumentalità caratterizza la decorazione della cappella del campanile di S. Marco, attualmente conservata nel Mus. della Basilica di S. Marco. Della prima fase rimangono una Madonna con il Bambino tra santi entro archi e un gruppo di sei santi sempre entro archi, mentre a un momento immediatamente successivo si possono ricondurre un personaggio che affronta un animale fantastico e un frammento con la Maddalena e un santo, ritenuto Crispiniano, al quale è stato accostato (Cassanelli, 1993) un pannello con la Madonna in trono, s. Agostino e alcuni devoti identificati (Matalon, 1963) come membri della famiglia Aliprandi, rinvenuto nel 1958 e datato agli anni trenta del 14° secolo.Di impianto simile a quello della cappella del campanile di S. Marco è la teoria di santi in un ambiente della torre di Massimiano (c.d. di Ansperto) annessa a S. Maurizio al monastero Maggiore (Nebbia, 1911). La decorazione, fortemente deterioratasi negli scorsi decenni, contiene anche una Crocifissione, le Stimmate di s. Francesco e una scena carceraria di controversa lettura (Bisogni, 1986; Cassanelli, 1993).La chiesa di S. Maria la Rossa, in occasione dell'insediamento di una comunità agostiniana femminile, agli inizi del sec. 14°, venne invece decorata nel catino absidale da Cristo in maestà e santi, mentre un frammento con Cristo deriso nella parete destra è stato accostato da Boskovits (1989) al Maestro della tomba Fissiraga.Intorno al 1335 Giotto, inviato dal Comune fiorentino alla corte di Azzone Visconti, eseguì a M. la celebre Gloria mondana nella residenza del signore, oggi scomparsa (Gilbert, 1977). Gli effetti della presenza del maestro, della cui opera padovana alcuni influssi potevano peraltro essere già giunti, nel giro di pochi anni determinarono una rapida evoluzione della cultura figurativa cittadina, che da questo momento ebbe costanti rapporti con la Toscana (Castelfranchi Vegas, 1988-1989).Della decorazione del complesso palaziale di Azzone è sopravvissuta solo una Crocifissione lacunosa, venuta alla luce nel 1929 sul basamento del campanile di S. Gottardo in Corte. Fin dal momento della scoperta dell'opera, l'inquadramento della personalità del Maestro di S. Gottardo ha alimentato un articolato dibattito incentrato sul problema della formazione dell'artista, lombarda (Volpe, 1983) o toscana (Toesca, 1929), anche se la critica più recente si è ormai orientata sulla seconda ipotesi e in particolare sulla figura di Puccio Capanna, il quale, in un'analoga composizione nella sala Capitolare di S. Francesco ad Assisi, adotta soluzioni simili (Cassanelli, 1993).Entro la metà del secolo, Giovanni Visconti promosse un vasto intervento nel palazzo Arcivescovile, al quale dovrebbe risalire un ciclo pittorico di complessa lettura iconografica a causa dello stato di forte frammentarietà e dello stacco di alcune scene. Sul versante di una definizione formale, alla proposta fiorentina di Toesca (1912) si è contrapposta quella veneta di Salmi (1955) e Rasmo (1962), mentre Castelfranchi Vegas (1988-1989) ha suggerito un accostamento alla cultura figurativa senese, forse mediata da Avignone. Per alcune teste virili sono stati infine riconosciuti influssi padovani (Cassanelli, 1993).Una definitiva apertura degli orizzonti milanesi sembra attuarsi tra il quarto e il sesto decennio con la convergenza delle principali esperienze pittoriche dell'Italia centrosettentrionale nei cantieri dei complessi abbaziali di Chiaravalle Milanese e Viboldone. In particolare alla partecipazione di Giusto de' Menabuoi (v.) in quest'ultimo sembrerebbe riferirsi il dato stilistico del Trionfo di s. Tommaso nella cappella Visconti a S. Eustorgio, mentre sulla parete opposta è raffigurato S. Giorgio e il drago. La volta invece era stata decorata alcuni decenni prima con figure di evangelisti, artificiosamente collocate entro elaborate architetture, che Boskovits (1989) aveva ricondotto alle esperienze della miniatura bolognese.Una conferma della diffusione del rinnovamento esemplato sull'opera di Giusto e Giovanni da Milano (v.; Quattrini, 1993) si trova nei frammenti superstiti (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica) delle Storie di s. Giovanni Evangelista, eseguite dopo la metà del secolo nella navata di S. Giovanni in Conca, sottoposta anch'essa al patronato dei Visconti (Tagliabue, 1989).Dalla demolizione della chiesa di S. Maria dei Servi emersero nell'Ottocento alcune pitture devozionali, la più nota delle quali è la Madonna in trono con santi e un personaggio identificato, grazie a un'iscrizione perduta, con Teodorico da Coira (Milano, Pinacoteca di Brera). Eseguita, sempre secondo l'iscrizione, da Simone da Corbetta dopo la morte di Teodorico, avvenuta nel 1382, costituisce l'unica opera certa dell'artista, confermando il legame della pittura monumentale di questi anni con la decorazione libraria (Balzarini, 1993). Di notevole interesse sono anche il pannello con S. Eufemia (Pinacoteca di Brera; già Mus. Naz. della Scienza e della Tecnica Leonardo da Vinci), riferito a Giovannino de Grassi (v.), e quelli con S. Cristoforo e S. Francesco che riceve le stimmate, oggi in deposito a Parigi (Univ., Maison de l'Italie; Cassanelli, 1993).La Crocifissione del transetto di S. Marco, datata agli anni ottanta del sec. 14° (Recanati, 1990), è stata infine avvicinata da Boskovits (1988) - insieme a opere quali la Madonna con santi e i Robiani a S. Lorenzo e la tavola con la Crocifissione a S. Giorgio al Palazzo - all'opera di Anovelo da Imbonate (v.), ribadendo la vitalità a M. dei modelli derivati dalla miniatura.Miniatura.
Le qualità codicologiche e grafiche dell'Evangeliario purpureo di Sarezzano (Arch. parrocchiale, J), ricondotto da Ghiglione (1984) a uno scriptorium milanese, suggeriscono l'esistenza di una pregevole attività editoriale nella città tra la fine del sec. 5° e gli inizi del 6°, anni in cui sono da collocare le due mani che si succedettero nella redazione del codice; per le notazioni marginali è stata invece avanzata una data intorno ai secc. 7°-8° (Ghiglione, 1987).Tra gli inizi del sec. 6° e la seconda metà del 9° si registra tuttavia un fase di assenza di testimonianze, dovuta probabilmente sia all'allontanamento del vescovo, in seguito alla conquista longobarda, sia agli incendi del 1071 e del 1075 (Petrucci, 1989). A colmare parzialmente questo intervallo contribuisce la notizia, trasmessa da Paolo Diacono (Hist. Lang., VI, 58; Ghiglione, 1987, p. 133), di una rinnovata vitalità della liturgia ambrosiana durante il regno di Liutprando (712-744), dato che farebbe supporre almeno il possesso, se non la produzione, di materiale librario.La presenza di centri scrittorî attivi a M. nella seconda metà del sec. 9° è documentata da un salterio bilingue (Berlino, Staatsbibl., Hamilton 552), le cui iniziali decorate richiamano la produzione di Bobbio (v.), e da tre salteri diacritici (Roma, BAV, Vat. lat. 82; Vat. lat. 83; Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 343) ricondotti all'episcopato di Ansperto, ai quali è stato accostato anche un evangeliario conservato a Busto Arsizio (Bibl. Capitolare, M.I.14; Santucci, Paredi, 1978; Ghiglione 1987).Nella prima metà del sec. 11° alcuni codici documentano, oltre all'alta qualità della produzione, anche un aggiornamento del corredo decorativo, esemplato sull'attività della Reichenau. È il caso, per es., del Sacramentario di S. Satiro (Milano, Bibl. del Capitolo metropolitano, II, D.3.2) o del libro di preghiere del vescovo Arnolfo II (998-1018; Londra, BL, Egert. 3763), la cui affinità con alcuni manoscritti eseguiti per il vescovo Varmondo di Ivrea - tra cui il celeberrimo Sacramentario (Ivrea, Bibl. Capitolare, 86) - ha fatto ipotizzare per questi una realizzazione da parte di artisti milanesi (Lomartire, 1994), la cui fama è confermata dalla già citata notizia dell'attività di Iohannes e Nivardus. Quest'ultimo, chiamato da Gauzlin, abate di Fleury, agli inizi del sec. 11°, è stato inoltre proposto da Nordenfalk (1988) quale autore di alcune miniature che corredano un lezionario purpureo, noto come Evangeliario di Gaignières (Parigi, BN, lat. 1126), e un sacramentario della cattedrale di Beauvais (Malibu, J. Paul Getty Mus., Ludwig VI). Si tratta di un'ipotesi controversa (Petrucci, 1989), così come l'identificazione di Iohannes con il Maestro del Registrum Gregorii (v.), che ha tuttavia avuto il merito di focalizzare l'attenzione sulla centralità culturale dei territori lombardi.Verso la fine del secolo il Messale ambrosiano (Milano, Bibl. Ambrosiana, D.87 sup.), accanto a soluzioni di gusto ancora ottoniano, rivela un'avanzata ricerca volumetrica; la tenacia della tradizione cittadina è inoltre attestata agli inizi del sec. 12° da alcune miniature che illustrano un codice di Beda (Torino, Bibl. Naz., D.III.16), mentre modelli derivati dalle bibbie atlantiche si riscontrano nella produzione a cavallo dei due secoli (Milano, Bibl. Ambrosiana, A.120 inf.; E.45 inf.).Nel secondo quarto del sec. 12° presso S. Ambrogio vennero eseguite, su iniziativa del prevosto Martino Corbo, edizioni delle opere del santo titolare (Milano, Bibl. Capitolare di S. Ambrogio, M. 8; M. 14; M. 31; M. 32; M. 33; M. 34; M. 35; Roma, BAV, Vat. lat. 268; Vat. lat. 282) e di s. Gregorio Magno (Milano, Bibl. Capitolare di S. Ambrogio, M. 30; M. 9), assai curate sotto l'aspetto testuale e formale (Ferrari, 1989). In particolare la qualità della raffigurazione di Martino offerente ai piedi di s. Ambrogio (Milano, Bibl. Capitolare di S. Ambrogio, M. 31, c. 1v) ha suggerito a Bertelli (1993) un accostamento con la produzione mosana. Al settimo decennio dovrebbe invece risalire una Bibbia atlantica (Milano, Bibl. Ambrosiana, B.27 inf.), realizzata forse per la chiesa di S. Bartolomeo a M., che conserva iniziali decorate e cicli narrativi inquadrati entro cornici.I codici superstiti (Milano, Bibl. Ambrosiana, B.28 inf.; B.29 inf.; A.258 inf.) tra quelli commissionati dall'arcivescovo Algisio da Pirovano (1176-1185) per la cattedrale confermano la ricezione di modelli centroitaliani (Lomartire, 1994).Il panorama della produzione manoscritta a M. nei decenni seguenti si mantenne entro percorsi estremamente tradizionali, a causa anche della mancanza di istituzioni universitarie. L'insediamento di una comunità domenicana nel 1220 nell'antica basilica di S. Eustorgio, con la conseguente fondazione di uno studium, costituì infatti un fattore dirompente, segnando un'apertura alle modalità di esecuzione e fruizione libraria legate all'insegnamento (Ferrari, 1989).Malgrado la progressiva differenziazione dall'ambito ecclesiastico per soddisfare la committenza signorile e borghese, della produzione milanese del sec. 13°, che pure dovette essere cospicua, rimangono pochi esemplari (Petrucci, 1989).Per tutto il secolo, analogamente a quanto riscontrato nella pittura monumentale, si osserva nella decorazione libraria una pluralità di indirizzi stilistici, frutto di una declinazione locale di influssi bizantini, francesi e bolognesi.A uno stile grafico di gusto ancora arcaico si rifà un evangeliario (Milano, Bibl. Ambrosiana, L. 78 sup.) datato al 1232, mentre i riscontri di quell'attenzione al disegno accurato e insistito della lunetta della tomba di Guglielmo de' Cottis sono stati rintracciati anche in un codice dei Moralia in Iob (Milano, Bibl. Ambrosiana, B.39 inf.) e nel De regimine principum (Parigi, BN, lat. 6477) di Egidio Romano, che propone scelte di matrice francese (Boskovits, 1989), un etimo questo che si sarebbe rivelato alquanto duraturo nella cultura lombarda, in particolare nell'illustrazione dei romanzi cavallereschi e delle cronache, per la quale costituisce un naturale punto di riferimento che, tuttavia, non ha impedito l'adozione di soluzioni mutuate dalla tradizione bolognese.Gli influssi della produzione profana si riscontrano infatti anche nei disegni che corredano il Sermone di Pietro da Barsegapè (Milano, Bibl. Naz. Braidense, AD.XIII.48) eseguito alla fine del sec. 13°, alla cui decorazione sembra guardare - tre decenni più tardi - anche il miniatore del Liber Pantheon di Goffredo da Viterbo realizzato per Azzone Visconti (Parigi, BN, lat. 4895); alla bottega del Liber Pantheon è inoltre riconducibile un interessante passionario della Chiesa milanese (Milano, Bibl. Ambrosiana, P.165 sup.).L'identificazione (De Floriani, 1988) del committente del Messale Visconti (Milano, Bibl. Ambrosiana, C. 170 inf.) con il Roberto Visconti arciprete della metropolitana dal 1293 al 1312, piuttosto che con l'omonimo nipote, arcivescovo dal 1354, conferma la vitalità della produzione a M. nei primi decenni del secolo.Gli influssi del rinnovamento giottesco sono visibili in due miniature tabellari raffiguranti Cristo in maestà e la Crocifissione (Roma, BAV, Pal. lat. 506, c. 114b e c), inserite probabilmente intorno al 1347, quando il messale venne donato alla chiesa di S. Maurilio (Toesca, 1912). Di pochi anni più tarde, le due pagine di analogo soggetto del Messale Nardini (Milano, Bibl. del Capitolo metropolitano, II, D.2.32) nell'impianto monumentale richiamano le coeve esperienze di Giusto de' Menabuoi; al Maestro del Messale Nardini si rivolse inoltre, durante il suo soggiorno milanese, Francesco Petrarca per far decorare alcuni codici della sua biblioteca.La complessità e la ricchezza del quadro della miniatura lombarda negli anni ottanta del sec. 14° sono attestate dal ricchissimo corredo di un libro d'ore-messale (Parigi, BN, lat. 757; Tosatti, 1993) realizzato da più mani, tra le quali è stata identificata l'opera di Giovanni di Benedetto da Como (v.). I problemi di committenza e datazione del codice sono stati oggetto negli ultimi anni di un articolato dibattito critico (Castelfranchi Vegas, 1993), che ha coinvolto anche un altro libro d'ore-messale (Parigi, BN, Smith-Lesoüeff 22), legato al medesimo committente, identificato con Bertrando de' Rossi (Sutton, 1989; Kirsch 1991).Due imprese riferibili alle principali istituzioni della Chiesa ambrosiana ribadiscono negli ultimi anni del secolo il ruolo della produzione libraria nella città. Nel 1395 la biblioteca della basilica di S. Ambrogio si arricchì infatti di un messale (Milano, Bibl. Capitolare di S. Ambrogio, M. 6; Ferrari, 1995), donato da Gian Galeazzo Visconti in occasione della sua incoronazione ed eseguito da Anovelo da Imbonate (v.) e dalla sua cerchia. Tra il 1396 e il 1398, infine, venne copiato, da un antico esemplare conservato presso la Fabbrica, il libro delle consuetudini della cattedrale di M., il Beroldus (Milano, Bibl. Trivulziana, 2262); l'incarico della decorazione fu affidato a Giovannino de Grassi (v.), ma fu probabilmente portato a termine dal figlio Salomone e dalla bottega.Durante la seconda metà del sec. 14° la decorazione libraria a M. raggiunse livelli qualitativamente assai elevati, mostrando soluzioni aggiornatissime, grazie anche al progressivo coinvolgimento dei Visconti (v.) nella politica europea. Tali esiti non sono tuttavia scindibili dall'intensa attività di committenza della corte presso artisti quali Giovanni di Benedetto da Como, Giovannino de Grassi e Pietro da Pavia (v.), né da realtà che coinvolsero l'intero territorio del ducato (v. Lombardia), come per es. le istituzioni pavesi dello studio universitario e della biblioteca del castello.
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