Milano
L’attenzione delle Istorie fiorentine (di qui in poi abbreviato nelle citazioni Ist. fior.) alle vicende milanesi è episodica, ma già nelle prime righe, dedicando l’opera a Clemente VII, M. s’impegna a seguire anche le vicende della costituzione del ducato di Milano e, nel proemio, fa riferimento all’ingente costo della guerra contro Filippo Maria Visconti del 1423-28. Cenni ancora generici, ma tutt’altro che insignificanti, egli dedica ai «miserabili» tempi del regno dei figli di Teodosio (Ist. fior. I v), nelle parti occidentale e orientale dell’impero, a cavallo del 5° sec.: soggette a forze disgregatrici interne ed esterne (i barbari), molte antiche città deperirono, molte altre vennero fondate ex novo (Venezia, Siena, Ferrara, L’Aquila), altre ancora, come Firenze, Genova, Pisa, Milano, Napoli e Bologna, «di piccole divennero grandi». In I viii descrive la presa di Milano da parte del longobardo re Alboino, aderendo alla leggenda secondo cui sarebbe stato chiamato in Italia dal frustrato generale bizantino Narsete. Passa poi direttamente al 12° sec. e al tempo di Federico Barbarossa (I xviii), che «prese e disfece Milano» portando così alla formazione della lega antimperiale, detta lega veronese, del 1163. Nel tempo di Federico II M. torna a parlare di Milano, che è ancora protagonista dell’iniziativa antimperiale ora espressa nella seconda lega lombarda del 1226 (I xxi).
La vera e propria trattazione degli eventi milanesi inizia, tuttavia, dagli albori del 14° sec., quando le guerre tra guelfi e ghibellini scossero in primo luogo la Lombardia, in una situazione generale di forte instabilità legata alle vicende di Bonifacio VIII e dei suoi successori, a quelle del re di Napoli Roberto d’Angiò (capo della fazione guelfa) nonché agli imperatori Enrico VII e poi Ludovico il Bavaro. È in questo tempo che iniziarono a emergere i Visconti, che, dice M., avendo poi creato uno dei cinque maggiori principati italiani, meritano una trattazione a parte, e risalente a un tempo più antico (I xxvi). Comincia così un denso e impressionistico excursus, dal tempo che vedeva le città lombarde unite contro il Barbarossa e potentissima, in Milano, la famiglia della Torre. La successiva iniziativa di Federico II, appoggiato nel Settentrione italiano da Ezzelino da Romano, fece tuttavia crescere in Lombardia la parte ghibellina, fino allora poco consistente, e ciò significò in Milano il successo della famiglia Visconti, che cacciò in un primo momento dalla città i della Torre. Questi poterono poi tornarvi dopo un accordo tra imperatore e papa. E, tuttavia, il trasferimento del papato ad Avignone e la discesa in Italia di Enrico VII creò le condizioni per la definitiva vittoria dei Visconti sulla famiglia rivale. Per M. ciò avvenne all’insegna di un complesso intrigo. Enrico VII, dovendo venire a Roma per l’incoronazione, giunse in Milano agli inizi del 1311 e fu qui ricevuto da Matteo (M. lo chiama Maffeo) Visconti (m. 1322) e Guido della Torre. Secondo M. (che riprendeva una voce peraltro diffusa), Matteo avrebbe sfruttato il malcontento dei milanesi per la presenza dell’ospite per sollevare un tumulto la cui responsabilità addebitò poi ai guelfi della Torre. La reazione imperiale, sostenuta dai Visconti, avrebbe portato questi ultimi a divenire padroni di fatto della città: un supposto e irrealistico intrigo, dunque, alla base della fortuna dei Visconti, che videro, secondo la fedele narrazione delle Istorie fiorentine, succedere a Matteo – che aveva ottenuto il vicariato imperiale e che dal comune si era fatto riconoscere dominus generalis – Galeazzo (m. 1328) e Azzone (m. 1339), poi Luchino (m. 1349) e Giovanni (m. 1354). Giovanni divenne arcivescovo di Milano e, alla sua morte, lasciò la signoria ai nipoti Bernabò (m. 1385) e Galeazzo II (m. 1378), da cui nacque Gian Galeazzo, detto poi conte di Virtù (m. 1402). Questi, scrive M., dopo aver assassinato lo zio Bernabò, «restò solo principe di Milano» e fu il primo ad avere il titolo ducale. Chiude la rapida rassegna della dinastia Visconti la notizia sui figli di Gian Galeazzo: Filippo Maria e «Giovanmariagnolo», ossia Giovanni Maria, che fu poi ucciso dai milanesi. M. termina la trattazione con la constatazione che Filippo Maria non ebbe figli maschi, «donde che quello stato si transferì dalla casa de’ Visconti a quella degli Sforzeschi» (Ist. fior. I xxvii). Questo ritratto della famiglia milanese contiene più di una imprecisione, a partire dalla paternità di Bernabò e Galeazzo che non furono figli di Luchino, come scrive M., bensì del di lui fratello Stefano. A M., comunque, non interessa tanto render conto dei particolari, quanto suggerire il ritmo incalzante dell’affermazione di quel clan e fare cenno ai torbidi che la caratterizzarono.
Esaurito l’excursus, M. torna alla narrazione principale e in particolare parla di Ludovico il Bavaro (m. 1347) che, nel 1327, portò scompiglio nella penisola, ove era sceso per l’incoronazione, e per un po’ «misse i Visconti in prigione» per illudere il popolo milanese con il sogno della libertà, al fine di «trarre danari»; ma poi li liberò per continuare a servirsene nelle proprie strategie. Nel 1331 i Visconti si schierarono nella lega di Castelbaldo assieme ad altri principati padani contro Giovanni re di Boemia e il papa, che secondo M. (ma si tratta di una falsa notizia) scomunicò i rivali alleati (I xxviii). Si salta poi al 1350, nel periodo di gestione solitaria del potere in Milano dell’arcivescovo Giovanni Visconti, che aveva accresciuto grandemente la propria potenza grazie alle guerre contro Firenze e altre realtà toscane. Morto Giovanni nel 1354, gli succedettero i nipoti Bernabò e Galeazzo II e quindi, spirato anche quest’ultimo, il figlio Gian Galeazzo. Anche qui c’è una lacuna: M. non fa cenno a Matteo II, che assunse il potere con i fratelli.
In Italia era allora oltre modo attivo il cardinale Gil (Egidio) de Albornoz, spedito dal papa Innocenzo VI a recuperare i territori dello Stato della Chiesa: ciò lo portò in un primo momento a scontrarsi con i Visconti, da cui riprese Bologna; in seguito, si accordò con loro. Con la sua politica di espansione e l’ambizione di Bernabò e Gian Galeazzo, Milano fu in quei decenni protagonista di lotte continue contro tutti i principati dell’Italia settentrionale e centrale: per M., le «antiche discordie causate dai popoli collegati contro a’ Visconti» contribuirono anzi, nel 1376, a far tornare il papato nella penisola. L’arrivo del pontefice Gregorio XI non risolse alcun problema: i conflitti ripresero con ancora maggiore intensità, implementati anche dallo scisma che colpì la Chiesa (1378). Milano, in particolare, si trovò a fronteggiare la ribellione di Genova (I xxxii). In questi complessi frangenti si compì la parabola di Gian Galeazzo conte di Virtù: rimasto solo alla guida di Milano dopo aver ucciso lo zio Bernabò, preso il controllo di tutta la Lombardia, si propose la conquista della Toscana. Era sul punto di realizzarla con l’idea di farsi poi incoronare re d’Italia, quando fu bloccato dalla morte (I xxxiii). Gli succedettero i figli Giovanni Maria e Filippo Maria, alla cui giovanissima età M. appena fa cenno e che tuttavia investe della responsabilità della frantumazione dello Stato milanese. Poche parole dedica qui alla morte violenta di Giovanni Maria e al breve tempo di detenzione sofferto da Filippo Maria in seguito alla fine del fratello (I xxxiv).
La crisi a Milano e l’assenza temporanea dei Visconti dal tradizionale ruolo di controllo su molte realtà padane anche extra lombarde avevano intanto provocato sommovimenti, soprattutto legati all’iniziativa del signore di Padova Francesco da Carrara. Per evitare di essere conquistata dalla città rivale, Vicenza si diede ai veneziani (1404) che ponevano così le basi del dominio di terraferma e che, dopo quella città, conquistarono Verona e quindi la stessa Padova (I xxxiv). Affrontate altre vicende, soprattutto legate al Grande scisma, M. torna a parlare di Filippo Maria Visconti che tornò prepotentemente sulla scena grazie a Facino Cane. Questi, prima di morire, dispose il matrimonio della sua futura vedova, Beatrice, con Filippo Maria, che, erede della signoria e delle ricchezze di Facino, poté riacquistare Milano. Dopo di che, ingrato «come sono quasi sempre tutti i principi», fece morire Beatrice (1418) dopo averla accusata di adulterio e tornò a pensare di proseguire le imprese paterne in Toscana (I xxxvii).
Il duca Filippo Maria Visconti diventa ora protagonista assoluto della scena, impegnato su tutti i fronti, a partire da quello del Regno di Napoli. In questa occasione ebbe il primo incontro con Francesco Sforza, che assoldò e che lo liberò da Braccio da Montone (I xxxviii). Unito il duca in un rapporto molto complesso con il condottiero che poi gli sarebbe succeduto nel ducato, Milano conquista la centralità nella scena italiana, che si troverà animata per un non breve periodo, come nota anche puntualmente M., proprio dalle guerre combattute da fiorentini e veneziani contro il duca di Milano.
Giunto a questo punto, in chiusura del libro I delle Istorie fiorentine, M. dichiara di volere abbandonare l’analisi della scena generale per dedicarsi alle sole vicende della sua città. Lasciare fuori Milano, i Visconti e gli Sforza gli risulterà però impossibile. Subito dopo la premessa, M. descrive la situazione italiana nel secondo-terzo decennio del Quattrocento, caratterizzata in area veneto-lombarda dal fronteggiarsi dei due grandi protagonisti di un conflitto che durerà trent’anni, Venezia e Milano appunto, che comportò la sparizione di tutti i principati minori, a eccezione dei Gonzaga. M. dice anche di Firenze, di Lucca, di Siena, di Genova, e nota come in questa varietà un solo elemento fosse a tutti comune: «tutti questi principali potentati erano di proprie armi disarmati». Per sottolineare il concetto ricorre all’esempio forte di Filippo Maria, pur così intraprendente sul piano militare, che restava però chiuso nelle sue stanze e governava con «i suoi commissarii le sue guerre» (I xxxix).
In Ist. fior. II xxix, il dipanarsi della storia di Firenze porta M. a reimbattersi nei Visconti, che aiutarono Castruccio Castracani nel 1325; che due anni più tardi consentirono il transito di Ludovico il Bavaro (II xxx); che tolsero Parma a Mastino della Scala nel 1336 e che assicurarono appoggio a Pisa nel tentativo che questa fece di appropriarsi di Lucca (II xxxiii). Chiudendo il libro II (cap. xlii), M. ricorda la prima guerra di Firenze contro Milano, scatenata dall’attacco di Giovanni Visconti del 1350. La pace di Sarzana pose fine alle ostilità, ma Firenze andò incontro a nuove divisioni intestine, la cui analisi occuperà parti importanti del libro successivo.
Nel libro III, il tema delle divisioni interne alla città di Firenze riporta alla luce qualche altro episodio che vide i Visconti coinvolti nelle faccende fiorentine: come la guerra degli Otto santi, in occasione della quale molte città dell’Italia centrale e la Milano di Bernabò Visconti si unirono contro il papa tra il 1375 e il 1378. Erano soprattutto i Ricci, sempre in lotta contro gli Albizzi, i fautori in città di Bernabò (III vii). Quando però a questi subentrò Gian Galeazzo Visconti le cose mutarono e l’atteggiamento milanese si rivelò in tutta la sua pericolosità. Intenzionato a prendere l’Italia «con la forza», scatenò nel 1390 una «guerra grandissima» contro Firenze. Un conflitto in cui M. trova anche risvolti positivi: Firenze si salvò grazie alla provvidenziale morte del duca, e la vittoriosa resistenza esaltò la Repubblica (III xxv). La difesa era stata tanto più mirabile considerando come il duca di Milano avesse cercato di organizzare un assalto di fuoriusciti fiorentini, che coinvolgeva molti esponenti delle famiglie più importanti. Il tentativo fu scoperto e la repressione dei colpevoli, soprattutto per mezzo di condanne al confino, rafforzò la città (III xxviii). Anche questo libro si chiude con un riferimento a Milano e alle incessanti azioni condotte da Filippo Maria Visconti nella scena fiorentina, che rinfocolarono le divisioni interne a Firenze.
Il libro IV delle Istorie si riallaccia al finale del primo. Nel 1421 il duca Filippo Maria prese Brescia e poi Genova e con una serie di ambascerie cercò inutilmente di tranquillizzare i fiorentini, che avvertivano il pericolo di tale rinnovato dinamismo visconteo (IV iv-v). Le mire milanesi su Imola e Forlì portarono Firenze alla guerra, che si concluse però con la disfatta subita a Zagonara il 28 luglio 1424 (IV vi). La mortificazione portò alla formazione di una lega antiviscontea, che vide Venezia quale principale alleata di Firenze e come capo militare Francesco Bussone, detto il Carmagnola (IV xiii). La pace di Ferrara del 30 dicembre 1426 parve interrompere il conflitto, ma rappresentò tuttavia solo un diversivo: il duca riprese le armi e dovette subire una severa sconfitta a Maclodio (17 ott. 1427). Una nuova pace di Ferrara, l’anno seguente, garantì a Venezia il controllo su Brescia e Bergamo, e a Firenze il recupero delle terre perdute in Romagna pochi anni prima. Il successo, scrive M., premiò solo i veneziani, divenuti ormai potenza regionale; ai fiorentini restarono solo «povertà e disunione» (IV xv). E su questa disunione anche il duca di Milano contava, nei momenti in cui ancora – in uno scenario che rimase instabile sostanzialmente fino alla pace di Lodi – si trovò ad attaccare la città toscana, ma anche nei momenti in cui le sue sempre complesse strategie lo portarono direttamente o indirettamente al fianco di Firenze, che vedeva svolgersi intanto l’esperienza di Cosimo. Per M. i fiorentini non avrebbero mai dovuto riporre illusorie speranze nel duca di Milano, poiché «era mosso da uno ereditario odio e una cieca ambizione»; dilaniante era in particolare, per Firenze, l’uso che quello faceva dei fuoriusciti (V ix).
Compare a questo punto, e poi con sempre maggiore evidenza, un nuovo e quasi autonomo protagonista, quel Francesco Sforza, ora condottiero al servizio del duca, ora suo rivale, che veniva assommando possedimenti in Italia centrale. Le sue iniziative riguardarono assai spesso la città toscana. Allo stesso modo in più momenti minacciò Firenze anche Niccolò Piccinino, altro capitano del duca, da questi utilizzato per campagne contro nemici esterni, come pure per ridimensionare il potere di Francesco Sforza. Piccinino era ancora più pericoloso, in quanto anch’egli intendeva costituire un dominio per sé. Il 28 giugno 1440 uno scontro cruciale si svolse ad Anghiari. Le preponderanti truppe viscontee guidate da Piccinino si scontrarono con le forze schierate da Firenze, dal papa e da Venezia, che ebbero la meglio. Per M., che in un celeberrimo resoconto vuol mostrare la viltà delle forze mercenarie rilevando che in quello scontro un solo uomo morì, perché caduto da cavallo e calpestato,
fu la vittoria molto più utile per la Toscana, che dannosa per il duca; perché, se i Fiorentini perdevono la giornata, la Toscana era sua; e perdendo quello, non perdé altro che le armi e i cavalli del suo esercito, i quali con non molti danari si poterono recuperare (V xxxiii).
Filippo Maria Visconti, Niccolò Piccinino e i suoi figli, Francesco Sforza animarono l’Italia del tempo con una continua serie di colpi di scena e di cambi di strategia che M. segue in minima parte: a lui è sufficiente soprattutto evidenziare sistematicamente una situazione che vedeva gente d’arme mercenaria spesso protagonista della scena politica, più dei principi che li tenevano al soldo. Nel 1444 i fiorentini garantirono a Francesco Sforza l’aiuto per attaccare Piccinino a Fermo; ancora, Firenze è decisiva nel favorire, nell’ottobre 1444, la pace di Perugia tra Eugenio IV e lo Sforza, che consolidò così i propri domini nell’Italia centrale (VI viii). Da questo momento, tutta la vicenda di Filippo Maria Visconti e del suo ducato è vista nella prospettiva di quello che accadrà alla fine del decennio con la conquista del ducato da parte dello Sforza (VI xvii-xxiv: le decisive azioni di Francesco dopo la morte di Filippo Maria Visconti).
Il diffondersi su questi temi porta M., nelle prime righe del libro VII, a difendersi dalla critica di aver detto troppo della Lombardia (e del Regno di Napoli) in un’opera dedicata alla storia di Firenze: l’ha fatto, spiega, perché ciò che Firenze ha dovuto affrontare è in gran parte dipeso da quello che avveniva al di fuori dei suoi confini; in proprio, ripete, la città aveva spesso mostrato solo debolezza e divisioni (VII i). Di avvenimenti milanesi M. torna a occuparsi con molti dettagli in occasione della congiura di nobili che nel dicembre 1476 portò all’assassinio del «libidinoso e crudele» (VII xxxiii) duca Galeazzo Maria. Imparino «i principi a vivere in maniera, e farsi in modo reverire e amare, che niuno speri potere, ammazzandoli, salvarsi» (VII xxxiv). Ancora una volta, un libro, dedicato alle sole vicende fiorentine, si chiude guardando a Milano, il che serve poi a introdurre, in quello successivo, il tema della congiura dei Pazzi del 1478, cui finirono con il legarsi, in primo luogo attraverso l’attività antifiorentina del re di Napoli Ferdinando, gli avvenimenti collegati alla contestata reggenza di Bona Sforza in Milano (VIII xiii). La disgrazia, il ritorno e, infine, l’affermazione di Ludovico il Moro (→ Sforza, Ludovico, detto il Moro) fu, scrive M., «come si dimostrerrà, cagione della rovina di Italia» (VIII xviii). In realtà, nelle Istorie quali furono effettivamente composte, tale affermazione non è dimostrata se non per suggestioni legate al grande elogio che M. dedica al defunto Lorenzo il Magnifico, elogio dominato dalla constatazione che, morto Lorenzo, nessuno più avrebbe potuto frenare l’ambizione del Moro. Così, «cominciorono a nascere quelli cattivi semi i quali, non dopo molto tempo, non sendo vivo chi li sapesse spegnere, rovinorono, e ancora rovinano, la Italia» (VIII xxxvi): di nuovo una chiusura occupata da Milano, dunque, responsabile nella persona del suo signore di aver aperto le porte d’Italia ai francesi.
Esiste un legame strettissimo tra la narrazione delle cose milanesi nelle Istorie e i riferimenti contenuti nel Principe. In un certo senso, le Istorie fiorentine amplificano e situano, con più precisione e dettagli, gli esempi dei protagonisti delle vicende milanesi, da Filippo Maria Visconti agli Sforza, già presenti nel Principe. Significativa, in quest’opera, l’esaltazione dell’operato di Francesco I Sforza, che acquisì il ducato grazie alle proprie armi e virtù, e la disistima espressa nei confronti dei successori, che per inettitudine e malgoverno ritornarono, di principi, «privati» (Principe xiv 3). Nonostante il plurale («e’ figliuoli» di Francesco), il pensiero di M. va a Ludovico il Moro e ai suoi errori nel governo del ducato (si rese «inimici e’ populi», Principe xxiv 5) e nella politica estera (favorì l’ingresso in Italia di un «forestiere potente» come il re di Francia).
Ludovico pagò duramente i propri errori. Cacciato una prima volta dal dominio nel 1498 da Luigi XII, riuscì per brevissimo tempo a reinsediarvisi nel febbraio 1500. Già nell’aprile successivo vide però le proprie truppe sbaragliate dalla nuova iniziativa francese e fu avviato a una lunga prigionia senza ritorno in Francia. I figli Massimiliano (→ Sforza, Massimiliano) e Francesco (→ Sforza, Francesco II) trovarono protezione in Germania presso l’imperatore Massimiliano che aveva sposato la loro cugina Bianca Maria Sforza. L’11 novembre 1499 Luigi XII, assunto il potere quale erede dei Visconti, aveva intanto emanato un decreto che istituiva un senato, composto da diciassette componenti (in maggioranza milanesi) e presieduto dal cancelliere, che, sostituendosi ai principali Consigli precedenti (quello segreto e quello di giustizia), avrebbe costituito il cardine del governo locale per quasi altri tre secoli. Gli anni del dominio francese, sotto l’attenta guida del governatore Charles II d’Amboise, furono segnati a lungo dal peso del cospicuo indennizzo richiesto al ducato, dai tentativi appoggiati dagli Asburgo finalizzati alla restaurazione degli Sforza e dalla ripresa del contrasto con Venezia, sfociato infine nella lega di Cambrai (→). La battaglia di Agnadello (→) parve addirittura annientare la potenza della Serenissima. Ma il successo francese fu tale che già il 1° dicembre 1509, scrivendo da Verona, M. avvertiva che gli imperiali sembravano disposti ad allearsi con i veneziani per abbassare l’eccessiva potenza di Luigi XII (cfr. LCSG, 6° t., pp. 391-93). La previsione si rivelò solo parzialmente errata: non fu infatti Massimiliano a lasciare l’alleanza, ma Giulio II, che si legò agli svizzeri, i quali già dal settembre 1510 tentarono una infruttuosa incursione su Milano. Il 5 ottobre 1511 l’iniziativa si rafforzava grazie al formarsi della lega Santa, che in chiave antifrancese raccolse al fianco del papa anche il re d’Inghilterra e Ferdinando il Cattolico. Pochi mesi dopo, nel giugno 1512, sotto l’urto decisivo degli svizzeri, i francesi erano costretti ad abbandonare il ducato milanese. Massimiliano Sforza poté così riprendersi il ducato; ma i suoi errori finirono con il favorire la rivincita francese. Se i tentativi di Luigi XII non ebbero esito, il suo successore Francesco I colse il successo con la battaglia di Marignano del settembre 1515, in conseguenza della quale Massimiliano cedette ogni diritto sul ducato. Nell’agosto 1516, a Noyon, un trattato tra Francia e Spagna impegnava i due Stati a garantirsi reciprocamente i domini italiani. Ma la situazione era destinata a mutare rapidamente. I malumori creati in Milano dal governo straniero, ma soprattutto le turbolenze create dalla difficile successione sul trono imperiale, portarono sulla scena nuovi protagonisti: in primo luogo Carlo V d’Asburgo, con il quale papa Leone X si accordò perché provvedesse a restaurare il dominio sforzesco su Milano. A venir beneficiato dall’intesa – Milano francese cadde nel novembre 1521 – fu Francesco II Sforza, il quale aveva trascorso gran parte dell’ultimo ventennio in Germania protetto dal governo imperiale. Francesco I non cessò comunque di minacciare il ducato, che riuscì a rioccupare nell’autunno del 1524. Ma la battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525 pose definitivamente termine alle ambizioni francesi su Milano. Francesco II Sforza pagò caro l’appoggio di Carlo V, obbligandosi a una tutela pesantissima. E quando, per sottrarvisi, aderì alla lega antimperiale di Cognac (1526), promossa dal papa Clemente VII, dal re di Francia, da Venezia e Firenze, riuscì solo a peggiorare il proprio destino. M. espresse con estrema chiarezza in una lettera a Bartolomeo Cavalcanti del 6 ottobre 1526 tutte le proprie perplessità su una guerra che vedeva a quel punto già perduta (Lettere, pp. 447-50, ma si vedano anche le istruzioni e i dispacci legati ai suoi ultimi incarichi diplomatici nel 1525-26, LCSG, 7° t., pp. 174-232). Rifugiatosi a Cremona, Francesco II non poté poi far altro che assistere al trionfo di Carlo V culminato nel devastante attacco a Roma del maggio 1527, seguito a poca distanza dai rivolgimenti antimedicei di Firenze, che costituirono gli ultimi eventi di cui M. poté essere testimone.
Bibliografia: Storia di Milano, Istituto della Enciclopedia Italiana, voll. 5°-7°, Milano 1955-1956; R. Manselli, Il sistema degli stati italiani dal 1250 al 1454, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, 4° vol., Comuni e signorie: istituzioni, società e lotte per l’egemonia, a cura di A.I. Pini, Torino 1981, pp. 179-263; Milano nella storia dell’età moderna, a cura di C. Capra, C. Donati, Milano 1997; M. Fossati, A. Ceresatto, La Lombardia alla ricerca di uno Stato, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, 6° vol., Comuni e signorie nell’Italia settentrionale: la Lombardia, a cura di G. Andenna, Torino 1998, pp. 483-679.