MILITARISMO
Il termine indica, secondo A. Vagts (1937), il più autorevole studioso in questa materia, "il dominio del militare sul civile, un'indebita preponderanza delle esigenze militari, un'accentuazione delle valutazioni, dello spirito, degli ideali, delle scale di valori militari nella vita degli stati". In quanto tale, il m. è una mentalità, una propensione e una pratica che possono essere fatti propri dagli stessi civili. Il m. tende dunque a impregnare di sé e dei suoi valori tutti i settori della società e dell'economia; si nutre della preparazione alla guerra e plasma di conseguenza la vita sociale organizzata. È questo il senso in cui, a partire dagli anni Trenta, alcuni stati contemporanei sono stati definiti ''stati-guarnigione''. Secondo H. Lasswell (1941), la preparazione a una guerra considerata inevitabile conduce all'emergere di un'élite dominante costituita da ''specialisti della violenza'', alla concentrazione del potere politico, al ricorso frequente, diffuso e accettato, alla coercizione, a un sovvertimento dei processi decisionali e dei valori. Naturalmente, in un mondo bipolare il rischio di costituirsi in stato-guarnigione è maggiore per le due superpotenze ma, data la natura globale dello scontro politico-militare, è destinato a coinvolgere in misura maggiore o minore tutti gli stati.
D'altronde, quand'anche il m. non riesca a condurre alla creazione di un vero e proprio stato-guarnigione, potrà orientare l'economia verso scelte e produzioni subordinate alle sue esigenze: è la tesi del cosiddetto ''complesso militare-industriale'' espressa nel 1959 dall'allora presidente degli Stati Uniti gen. D. Eisenhower, e che aveva già trovato una sua formulazione sociologica nel volume The power elite di C. W. Mills (1956), laddove il potere veniva attribuito a un'élite formata da politici, uomini d'affari e militari.
Nei regimi democratici e nei regimi comunisti, i militari esercitano il loro potere d'influenza senza entrare apertamente nella sfera politica, senza doversi impadronire del potere. Ma nel secolo 20° il fenomeno più visibile dei rapporti fra militari e politica è stato proprio l'intervento aperto e ripetuto delle organizzazioni militari nella sfera politica di molti paesi. Così è accaduto in Europa meridionale, dove i militari hanno fatto parte di coalizioni autoritarie; in America latina, dove i militari hanno cercato di creare veri e propri regimi autoritari; in Asia e in Africa, dove numerosi e frequenti, ma anche molto instabili, sono i governi militari. Naturalmente, l'intervento dei militari in politica o, nella forma più imperativa e diretta, i colpi di stato militari sono tanto più manifestazioni di m. in quei sistemi politici dove vengono sollecitati, come spesso accade, dai civili e vengono accolti con approvazione. Ma i colpi di stato rappresentano al tempo stesso una manifestazione di forza e di debolezza delle organizzazioni militari: di forza in quanto queste esprimono la loro capacità di conquistare il potere politico anche contro la volontà dei civili organizzati in partiti e in sindacati; di debolezza, proprio in quanto hanno necessità di ricorrere a un colpo di stato per far valere i propri interessi, per influenzare e controllare il processo decisionale, per insediare al governo personalità civili di loro gradimento.
Se non tutti i colpi di stato hanno successo, nella misura in cui lo hanno alle organizzazioni militari si presentano varie possibilità: quella di limitarsi a sostituire al governo i civili loro sgraditi con altri di loro gradimento; quella d'insediarsi essi stessi, in qualità di singoli ufficiali, in posizioni di potere; quella di creare veri e propri governi delle forze armate; quella di rimanere al potere per un periodo di tempo indefinito costituendo un vero e proprio regime militare. La scelta dell'una o dell'altra di queste opzioni dipende sia dalla forza, dalla consapevolezza e dalla professionalità delle organizzazioni militari, sia dalla resistenza opposta dai civili. In generale, nei sistemi politici con basi sociali ed economiche arretrate si formeranno coalizioni di militari e civili in cui sarà difficile raggiungere un punto di equilibrio (il che viene testimoniato dalla frequenza dei colpi di stato dentro i colpi di stato). Nei sistemi politici nei quali si confrontano da un lato civili organizzati in partiti e dall'altro organizzazioni militari complesse, se si ha un intervento militare (come in America latina), i militari saranno in qualche modo costretti a rimanere al governo e a ristrutturare la società per impedire definitivamente agli avversari civili di ritornare al potere (ed evitare peraltro le conseguenti punizioni).
Contrariamente alle loro aspettative, i militari non sono generalmente in grado non solo di mantenere il potere (poiché ben presto le scelte da fare provocheranno divisioni interne alle forze armate), ma neppure di ristabilire l'ordine politico (poiché l'opposizione continua sotto vecchie e sotto nuove forme) né di produrre sviluppo economico (sia per carenza di capacità sia perché molte risorse vengono comunque impiegate per investimenti militari). Di regola, come esito di un bilancio negativo del colpo di stato − soprattutto al fine di evitare che le tensioni interne spezzino la gerarchia e la disciplina, che costituiscono le due risorse fondamentali delle organizzazioni militari − viene deciso il rientro dei militari nelle caserme. A seconda dei casi si può parlare di ''ritiro'', quando le gerarchie militari riescono a negoziare con i civili tempi e modi del ritiro e, soprattutto, a patteggiare la non punizione dei ribelli e dei violenti; si deve parlare di ''ritirata'', quando l'organizzazione militare subisce una sconfitta sul campo (come avvenne per la giunta greca a Cipro nel 1967 o per gli ufficiali argentini nelle Malvine nel 1982) o quando sono i moti popolari a rompere l'unità dell'esercito e a far crollare il governo militare (o a predominante appoggio militare, come quelli di A. Somoza in Nicaragua nel 1979 e di F. Marcos nelle Filippine nel 1986).
Che si tratti di ritiro o di ritirata, le organizzazioni militari non perdono mai del tutto l'accesso al potere politico né rinunciano ai loro tentativi di condizionamento. In tal senso, anche se le organizzazioni militari possono subire una sconfitta temporanea, il m. come tale può rimanere ben vivo. Molto spesso, infatti, i governi civili sono soliti far leva, più o meno apertamente, sulle organizzazioni militari, restando incapaci di promuovere valori alternativi a quelli della coercizione, della violenza e della guerra. Il m., sopravvissuto, riapre la strada agli interventi militari in politica in un circolo vizioso che solo regimi democratici stabili ed efficienti possono spezzare definitivamente o quantomeno attenuare e delimitare.
Bibl.: A. Vagts, A history of militarism. Civilian and military, New York 1937 (ed. riv. ivi 1959); H.D. Lasswell, The garrison state and specialists on violence, in American Journal of Sociology, 46 (gennaio 1941), pp. 455-68 (trad. it. in H.D. Lasswell, Potere, politica, personalità, Torino 1975, pp. 773-85); C.W. Mills, The power elite, New York 1956 (trad. it., Milano 1959); M. Janowitz, The professional soldier. A social and political portrait, ivi 1960; S.P. Huntington, The soldier and the state. The theory and politics of civil-military relations, Cambridge (Mass.) 1957; H.D. Lasswell, The garrison-state hypothesis today, in Changing patterns of military politics, a cura di S.P. Huntington, New York 1962, pp. 51-70 (trad. it. in H.D. Lasswell, Potere, politica, personalità, cit., pp. 786-813); S.E. Finer, The man on horseback. The role of the military in politics, Londra 1962; G. Pasquino, Militari e potere in America latina, Bologna 1974; E. Nordlinger, Soldiers in politics. Military coups and governments, Englewood Cliffs 1977 (trad. it., I nuovi pretoriani. L'intervento dei militari in politica, Milano 1978); V.R. Berghahn, Militarism. The history of an international debate, 1861-1979, Leamington Spa 1981 (New York 19822); A. Rouquié, L'état militaire en Amérique latine, Parigi 1982; Il potere militare nelle società contemporanee, a cura di G. Pasquino e F. Zannino, Bologna 1985.