MILONE
– Figlio di Manfredo di Mosezzo (nel Novarese) e fratello di Manfredo, che fu conte di Lomello, M. porta un nome che lascia supporre una parentela (forse in linea materna) con i Guidonidi – duchi di Spoleto – ciò che spiegherebbe lo schieramento di questa parte dell’aristocrazia al fianco di Berengario dopo la morte di Lamberto nell’898 e attesterebbe che le origini di M. non furono modeste.
Dalla sua prima menzione nella documentazione italiana M. è legato alla classe dirigente veronese vicina al re Berengario I: nel settembre 906 a Verona egli sottoscrisse come testimone, ex genere Francorum, una donazione del vescovo alamanno di Verona Adalardo al suo amico Ingelfredo, anch’egli alamanno. Nel 910, questa volta come membro di un gruppo di una decina di vassalli regi, fece parte del Collegio giudiziario in due placiti tenuti a Cremona alla presenza di Berengario che segnano la ripresa delle sessioni di giustizia solenne che il re non aveva più tenuto da molti anni; ancora come vassallo regio testimoniò a Verona nel 914 in una donazione di Ingelfredo, divenuto conte del Comitato di Verona verso il 912, a S. Zaccaria di Venezia.
Ottenne i favori di Berengario, divenuto imperatore nel 915, che gli concesse – in un diploma (perduto) – un bene fondiario. M. dimostrò la sua fedeltà al sovrano in occasione dell’attentato che costò la vita allo stesso Berengario il 7 apr. 924 a Verona. M., dopo essere stato accolto nella familia di Berengario, era a capo della sua guardia più ristretta; tentò invano di mettere in guardia l’imperatore contro il complotto, ma tre giorni più tardi catturò l’omicida, lo sculdascio Flamberto, e lo fece impiccare insieme con i suoi complici (Liutprando, II, 73).
Nei primi anni del regno di Ugo di Provenza (incoronato re d’Italia nel 926), la posizione di M. rimase quella di un vassallo regio sempre più attivamente inserito a Verona. Sembra anche aver acquisito capacità di scrittura, a giudicare dal fatto che le sue sottoscrizioni autografe sostituiscono il signum manus che caratterizza i suoi primi interventi documentari. In questo modo egli sottoscrisse il testamento del vescovo Notker il 15 nov. 927: in questa circostanza egli è accompagnato da uno dei suoi vassalli, di legge lombarda. Contemporaneamente M. non si allontanò dalla più ristretta cerchia di potere, riuscendo a ottenere da Ugo prima del 929 i proventi della decima nella giurisdizione della sua villa di Ronco all’Adige; ne fece quindi dono l’11 luglio 929 ai canonici di Verona, insieme con la chiesa dedicata alla Vergine che egli aveva fondato a Ronco con sua moglie Valperga, franca anch’essa; quattro dei suoi vassalli sottoscrissero la donazione. Non sorprende quindi che M. facesse parte dei fedeli mobilitati da Ugo di Provenza quando costui, dopo aver sventato il tentativo di ribellione dei giudici di Pavia Valperto e Gezone-Everardo e l’insubordinazione di una parte dell’aristocrazia, decise di imprimere una svolta al governo del Regno, rinnovando il personale politico: nel 930 o 931 M. fu posto alla testa del Comitato veronese, nella stessa circostanza che vide installare nuovi conti a Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Modena, mentre Lamberto, fratellastro di Ugo, veniva allontanato dalla Marca di Toscana, e il giovanissimo Lotario, figlio del re, veniva associato al potere dal padre.
Le relazioni tra il nuovo conte e il re sembrano tuttavia essersi rapidamente degradate per gli eccessivi interventi di Ugo nella diocesi di Verona. Dopo aver fatto trasferire a Milano alla morte dell’arcivescovo Lamberto (giugno 931), il vescovo Ilduino, Ugo avrebbe voluto a Verona un presule di sua scelta, ma divenne invece vescovo Raterio, già segretario di Ildoino e forte del sostegno del papa e dei grandi del Regno. Per rappresaglia Ugo si assicurò il controllo della diocesi attribuendosi il versamento di una parte delle rendite. M. scelse di schierarsi al fianco del nuovo vescovo.
Negli anni 934-935 M. sembra anche aver avuto un ruolo attivo, insieme con Raterio, per sollecitare la venuta in Italia del duca di Baviera Arnolfo, nella prospettiva forse di dare il trono al figlio di costui, Everardo. Arnolfo, alla testa di truppe bavaresi, fu accolto libenter dal conte e dal vescovo, sostenuto da un partito di honestiores (Liutprando, III, 49), ma il tentativo fallì davanti alla determinazione di Ugo e Arnolfo batté in ritirata. Il duca aveva intenzione di portare con sé M. come ostaggio, ma costui, temendo per la sua vita, ritenne più opportuno defezionare e tornare tra i fedeli di re Ugo; Arnolfo, per rivalsa, catturò il fratello di M., Manfredo conte di Lomello, che aveva difeso la cittadella di Verona contro i Bavaresi. M. riuscì a salvare la carica comitale, al prezzo di una perdita di influenza locale.
Raterio, di cui egli era stato alleato, fu messo agli arresti a Pavia (poi esiliato a Como, prima di lasciare l’Italia nel 939) e rimpiazzato da Manasse, nipote del re, vescovo anche di Trento e Mantova, che aveva il controllo delle rendite e del sistema difensivo della «Marca di Trento».
Nel 941 un diploma di Ugo e Lotario, che attribuiva a M. beni nella contea di Parma, testimonia un suo ritorno nelle grazie del re; la donazione a M. di terre in questa regione era per Ugo un modo per contrastare la casa d’Ivrea, che vantava diritti nella contea.
Per indebolire il potere della casa d’Ivrea Ugo aveva già allontanato nel 936 il marchese Anscario mettendolo alla testa del Ducato di Spoleto. Avrebbe anche voluto mettere le mani su Berengario, fratello di Anscario, che aveva complottato contro di lui e rappresentava un reale pericolo politico poiché era nipote per parte di madre di Berengario I, ma Berengario riuscì per tempo a fuggire durante l’inverno 941-942, trovando rifugio in Svevia e poi presso il re di Germania Ottone I. Creando intorno a Parma un polo di interessi fondiari a vantaggio di potenti diversi dagli Anscarii, Ugo non faceva altro che perseguire il suo disegno di indebolire la famiglia d’Ivrea.
Tuttavia, la donazione regale – probabilmente seguita da una o più altre (nel 955 il testamento di M. cita «paginae preceptoriae» al plurale) – non bastò ad allontanare da M. il sospetto di simpatie verso il partito degli Anscarii. Quando, all’inizio del 945, Berengario si presentò in Italia con un piccolo esercito, M., praepotens comes, fu tra coloro che si schierarono subito al suo fianco, rispondendo all’appello di Manasse che aveva disertato il campo di Ugo. Liutprando di Cremona, tuttavia, si preoccupa di precisare che M. non si era comportato da infidelis nei confronti del re, ma che vi era stato costretto dalla sorveglianza insopportabile che Ugo aveva fatto pesare su di lui (V, 27). M. offrì a Berengario la protezione delle mura di Verona e apparve al fianco di Berengario col titolo di summus Regni consiliarius insieme con altri conti schierati col nuovo uomo forte nel corso dell’adunanza solenne riunita nel palazzo di Pavia il 13 apr. 945 in assenza di Ugo.
Da quel momento la posizione di M. a Verona sembra al suo apogeo, al punto di poter abbandonare i suoi vecchi alleati o di negoziare con essi da una posizione di forza.
Contrastò con tutta la sua forza l’azione e l’influenza di Raterio, rientrato in Italia subito dopo l’avvento di Berengario; quest’ultimo fece pagare al vescovo le manovre di riavvicinamento che Raterio poco prima aveva iniziato con Ugo, tenendolo prigioniero tre mesi e mezzo prima di autorizzarlo a rientrare a Verona dove fu accolto da Milone.
Il ritorno del vescovo Raterio significò l’allontanamento di Manasse e delle sue richieste economiche, ma presentò l’inconveniente di una presenza più attenta del prelato nella gestione della città e della diocesi. Il M., che non voleva un ritorno in primo piano di Raterio, gli fece subire un vero e proprio «martirio» per due anni, secondo le stesse parole del vescovo (Ratherius, Ep. 7). A credere a quest’ultimo, M., pur fingendosi protettore (advocatus et tutor, ibid.) del prelato in città, fece di tutto per bloccare le iniziative di Raterio di riprendere in mano il patrimonio episcopale e riformare il clero della città e del suo territorio, impedendogli in particolare di riunire il sinodo diocesano: Raterio dichiarava: «mallem[…] esurire sub Hugone quam epulari cum Milone», (ibid.). Si è anche formulata l’ipotesi che M. sia stato all’origine del furto della reliquia di s. Metrone (un furtus laudabilis, secondo lo stesso Raterio), traslata dalla chiesa di S. Vitale a Verona a quella di Bolzano Vicentino, privando così il vescovo di un supporto al culto popolare.
Nel maggio 948, infine, Raterio obbedì al consiglio trasmessogli dal re Lotario di lasciare Verona per evitare di subire un’aggressione fisica da parte di M., e lasciò per la seconda volta la sede di Verona rendendo possibile un ritorno di Manasse. Per M. si aprì allora un secondo fronte ed egli cercò di indebolire la posizione di Manasse in Italia, sostenendo un candidato concorrente a Milano quando quella sede si liberò per la morte dell’arcivescovo Arderico (ottobre 948). Manasse ottenne comunque la sede di Milano che desiderava da molto tempo. M. intavolò allora negoziati economici per assicurarsi il controllo della diocesi di Verona che acquistò nel 950-951 per il suo giovane nipote figlio del conte Manfredo, anch’egli di nome Milone, cui il papa Agapito II concesse la dispensa per l’età. Il vescovo Milone rimase a capo della diocesi sino a quando Raterio rientrò nuovamente in possesso della sede episcopale grazie a Ottone I nel 961.
Gli ultimi anni del regime dei re cosiddetti «nazionali» d’Italia corrispondono a una assoluta libertà di azione di M. e della sua familia a Verona. L’unione di Verona a una grande Marca incorporata alla Baviera sotto l’autorità del duca Enrico, fratello di Ottone, non significò una perdita di influenza di M., ma creò, al contrario, le condizioni di una nuova ascesa che si tradusse nell’acquisizione del titolo di marchese (è menzionato come tale in una descrizione di confini nel settembre 953) che si può supporre gli venisse attribuito da Berengario II per mantenere la sua fedeltà e ricostruire una Marca del Friuli, mentre cominciava l’ascesa di un altro dei nipoti di M., Egelrico (fratello del vescovo Milone), promosso in quegli stessi anni al rango comitale.
Alla fine di una carriera le cui tappe (vassallo regio, conte, marchese) offrono un notevole parallelismo con quelle di Gandolfo di Piacenza, M. è menzionato per l’ultima volta il 10 luglio 955 in occasione della stesura del suo testamento a Ronco all’Adige. Non conosciamo il luogo, la data e le circostanze della sua morte.
M., di legge salica, istituì come erede suo fratello, il conte Manfredo, e il figlio di costui, Egelrico. Era allora titolare di possedimenti in Verona, tra cui una cappella dedicata a S. Pietro, e tre castra ben posizionati (Ronco, San Bonifacio e Begosso). L’istituzione di una rendita annuale sugli introiti del castrum di Ronco per il monastero femminile di S. Zaccaria di Venezia e una clausola di devoluzione ad esso di tutto l’insieme dei beni in caso di assenza di eredi da parte di Manfredo ed Egelrico fanno pensare che in quel monastero si trovassero esponenti della famiglia di Milone. Il centro principale del gruppo familiare fu però in seguito il castrum di San Bonifacio che diede il nome ai «da San Bonifacio», ormai senza legame con le loro origini piemontesi.
Egelrico succedette a M. alla testa del Comitato di Verona, avendo probabilmente questa carica anche in quello di Lomello. Egelrico e il fratello vescovo Milone furono deposti nel 961 da Ottone ed Egelrico fu ridotto allo stato di vassallo del re. La famiglia tuttavia ebbe ancora la sua rivalsa nel 968 in occasione del processo che vide la disfatta di Raterio e la sua partenza definitiva dall’Italia: il vescovo Milone riprese allora la sede episcopale veronese che tenne sino alla morte nel 980-981.
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F. Bougard