mimesis
Traslitt. dal gr. μίμησις, der. di μιμέομαι «imitare», letter. «imitazione». Con il concetto di μίμησις (o di ὁμοίωσις «assimilazione») Platone designa la somiglianza delle cose empiriche all’idea che ne costituisce il tipo universale (➔ metessi); inoltre, considerando (e perciò svalutando) i prodotti artistici come imitazioni delle cose, a loro volta imitazioni delle idee, egli determina l’uso del termine nella riflessione sulle arti. Aristotele, nella Poetica, intendendo la m. non più come una riproduzione inadeguata dell’apparenza sensibile dell’essere, ma come un procedimento costruttivo fondato su un insieme di tecniche e valori condivisi, tale da formare, entro una materia determinata, una copia corrispondente alla pura essenza ideale presente nell’anima dell’artista, opera quella rivalutazione della nozione di m. che starà a fondamento della riflessione sulle arti almeno fino a Settecento inoltrato. È in questo secolo, infatti, che si comincia ad assistere alla crisi del concetto di m.: con l’estetica dell’empirismo inglese, in partic. con Burke, il quale allontana la poesia, che agisce sulle emozioni, dalla m.; con Rousseau, il quale vagheggia l’ideale di un’arte che nasce dall’esigenza di esprimere sentimenti e passioni; con la nascita e la diffusione di quella poesia immaginativa che caratterizza la letteratura tedesca da F.G. Klopstock e Novalis a E. Th. A. Hoffmann; e infine con Kant, che considera la m. l’opposto dell’intenzionalità produttrice del genio, creando i presupposti di quella definitiva svalutazione della nozione di m. che sarà fatta propria dalla filosofia romantica dell’arte, dai fratelli Schlegel fino a Humboldt e a Fichte. Nel Novecento, la nozione di m. è stata oggetto di importanti studi, tra cui quelli di E. Auerbach, sulla m. in letteratura, e di R. Arnheim, E.H. Gombrich e Goodman, sulla m. nelle arti figurative.