Mineralogia
La scienza che ha come oggetto di studio i corpi solidi per motivi storici non ha un nome unico, ma tende ad articolarsi e a differenziarsi al punto da assumere almeno due denominazioni, anche quando tratta dei soli corpi solidi naturali, ossia i minerali. Si chiama, infatti, cristallografia la branca che ne studia le leggi generali, valide per qualsiasi tipo di solido: naturale o artificiale, inorganico o organico, già noto o appena previsto e ancora da trovare o sintetizzare. Si chiama, invece, mineralogia quando si interessa dei soli solidi naturali per identificarli, descriverli e caratterizzarli in tutte le loro proprietà, per valutarne le possibili utilizzazioni. La mineralogia si avvale delle leggi generali sulla costituzione dello stato solido formulate principalmente dalla cristallografia, ma anche dalla fisica e dalla chimica, e le inquadra nelle leggi statistiche concepite dalla geologia per tentare di spiegare la distribuzione delle masse solide nella Terra. Inoltre, essa formula leggi empiriche, di natura statistica anch'esse, per facilitare il reperimento in natura dell'uno o dell'altro minerale, una volta che sia stato compreso perché un determinato tipo si sia formato nel luogo del primo rinvenimento. Così concepita, la mineralogia diventa una scienza naturale globale. Da essa, perciò, si sono staccate in passato diverse branche, che si sono via via specializzate nello studio di particolari insiemi di minerali complessi come le rocce e i giacimenti minerari. Ciò ha lasciato la mineralogia propriamente detta più povera nei contenuti sistematici, ma comunque sempre in una posizione privilegiata, come scienza di riferimento, mentre le branche specifiche da essa derivate sono rimaste più o meno legate alla pratica geologica. La moderna mineralogia, invece, ha forti basi teoriche, perché si avvale sempre maggiormente di tecniche sperimentali mutuate soprattutto dalla fisica e dalla chimica, e le modifica. Di conseguenza, è stata talora in grado di influire direttamente sullo sviluppo di queste due scienze, fornendo loro spunti nuovi e, insieme, anche conferme sperimentali.
La mineralogia figura nel contesto delle scienze fin da un'epoca molto antica, ed è praticamente coeva alla fisica, anch'essa 'scienza della natura', almeno così come questa era intesa dai Greci. Tra le varie scienze della Terra che si sono andate differenziando dalla fisica a partire dal Rinascimento, la mineralogia è nata sicuramente molto prima della cristallografia. Per quanto riguarda poi le intime relazioni tra mineralogia e chimica, basti ricordare che Jöns Jacob Berzelius è considerato uno dei fondatori di entrambe queste scienze. Queste antiche connessioni tra scienze ora nettamente distinte non devono affatto sorpren-dere, poiché fino alla metà dell'Ot-tocento chimici e fisici dovetteroavvalersi di minerali per i loro studi e pertanto fornirono un sostanziale contributo alla conoscenza dello stato solido naturale e quindi, indirettamente, all'avanzamento della mineralogia.
L'attuale stato della mineralogia, di notevole integrazione con la fisica, è stato mutuato dalla cristallografia, che da morfologica è diventata strutturale e principalmente basata sulla diffrazione dei raggi X, scoperta dal fisico Max von Laue, con l'aiuto di due tecnici sperimentali come Walter Friedrich e Paul Knipping (1912). I rapidi progressi di altre metodologie mineralogiche di impostazione fisica, soprattutto spettroscopiche, fanno presumere che esse diventeranno presto basilari per la comprensione dei solidi, sia artificiali sia naturali.
Negli anni Ottanta e Novanta del Novecento la mineralogia, proseguendo una tendenza comune anche ad altre scienze, si è andata integrando sempre più con la fisica, al punto da sembrare quasi giustificata la definizione riportata in certi testi di questa disciplina, secondo la quale "la mineralogia è la fisica dello stato solido naturale". In effetti, i mineralisti fanno sempre maggior uso di metodologie e di strumenti sviluppati originariamente da fisici e che essi stessi considerano tuttora d'avanguardia. Questa interazione con la fisica si esplica in forma duplice: da una parte, la ricerca teorica in campo cristallografico sui minerali si basa (come del resto è sempre avvenuto) su teorie, modelli, algoritmi e metodi di calcolo messi a punto da fisici o da chimico-fisici, sempre per ricerche di tipo fisico; dall'altra, sono diventate abbastanza comuni tra i mineralisti, in aggiunta alle ben consolidate tecniche di diffrazione dei raggi X (tanto ben consolidate da poter ormai essere definite convenzionali), metodologie d'analisi che utilizzano altre e più potenti forme di energia, come neutroni, elettroni e radiazione di . Le sorgenti di tali radiazioni, per il loro costo elevato, sono per ora disponibili solo in pochi grandi centri di ricerca essenzialmente fondati e gestiti da fisici, e qui lo stretto contatto con fisici, chimici, biologi non solo influisce sul lavoro dei mineralisti, ma quasi inevitabilmente li induce ad ampliare i propri interessi al di fuori del mero studio dei minerali: molti si dedicano alle proteine, altri ai vetri, altri alle superfici, e così via. Inoltre, l'applicazione ai minerali di taluni metodi fisico-matematici d'avanguardia, come la dinamica molecolare e la meccanica e termodinamica quantistica, che obbligano ad accedere ai grandi calcolatori, comporta un'altra e diversa forma di stretta interazione con fisici, chimici e matematici, oltre che con gli informatici. Gli effetti che queste interazioni hanno sulla mineralogia sono rappresentati, al momento, da una sua suddivisione in branche sempre più specializzate, al punto che alcune di esse non sono più neppure in comunicazione tra loro. L'unitarietà della mineralogia come scienza sembra perduta, ma vi è in realtà un indubbio risultato positivo per quanto riguarda sia l'avanzamento delle conoscenze sulle proprietà dei minerali, e quindi la cultura mineralogica complessiva, sia il riconoscimento e la considerazione che la mineralogia si va guadagnando in ambiti scientifici sempre più ampi.
Ma la tendenza della mineralogia moderna verso la fisica certamente non ha sminuito il ruolo o la figura del classico mineralista raccoglitore e descrittore, sagace analista di granuli sempre più piccoli e sempre più difficili da caratterizzare. Dal 1980 in poi nel mondo sono state scoperte e descritte in media 50 specie nuove l'anno, fino al totale attuale di oltre 4000, anche perché i mineralisti si sono serviti del fondamentale contributo dei petrologi che, per il loro uso sistematico della microsonda elettronica, riservano una particolare attenzione alle fasi solide di composizione insolita presenti nelle rocce. Così i petrologi ‒ che, per quanto nati dal tronco principale della mineralogia, erano inizialmente considerati dei dissidenti dediti unicamente alla geologia delle rocce ‒ sono diventati un trait d'union essenziale che contribuisce a mantenere legata alle scienze della Terra la nuova mineralogia orientata verso la fisica. Infatti, per caratterizzare adeguatamente una nuova specie mineralogica secondo i requisiti richiesti dalla International Mineralogical Association (IMA), la sola analisi chimica non basta e il petrologo deve quindi associare a sé un mineralista sistematico; sarà poi quest'ultimo che, per risolvere problemi specifici, chiederà la collaborazione di un minerofisico, o di un qualche altro specialista che si colloca per competenze ai margini della mineralogia classica. Da questa catena di collaborazioni finisce per derivare un nuovo tipo di sapiente interazione, il cui esito non potrà che determinare una crescita complessiva della qualità delle ricerche e delle conoscenze mineralogiche.
Il mutamento in senso sempre più fisico della ricerca mineralogica internazionale è apparso più sensibile ed evidente in cristallografia, quella tra le varie discipline mineralogiche che ha senz'altro maggiore valenza teorica. Sono cristallografi gli scienziati che studiano il modo di dare una formulazione matematica generale ai problemi della simmetria, sia essa morfologica o strutturale, inerente la distribuzione degli atomi nelle strutture (cristallografia matematica); sono in buona parte cristallografi anche coloro che si dedicano alla dinamica molecolare e alla fisica quantistica dello stato condensato, tentando di predire le strutture cristalline a partire dalle formulazioni generali enunciate in gran parte dai fisici del primo Novecento, che erano state del tutto ignorate dalla scienza mineralogica. Si considerano invece cristallochimici coloro che usano meccanica e termodinamica quantistica allo scopo di predire le proprietà chimiche dello stato solido: un difficilissimo, ma insopprimibile, nuovo indirizzo alla comprensione dei minerali e della costituzione geologica della Terra.
Tuttavia, nessun calcolo o modello teorico può avere valore se non è convalidato da misure sperimentali. Per questo negli anni recenti hanno trovato sempre più ampia diffusione metodologie talora anche molto complesse e, di norma, costose.
Nella mineralogia sperimentale sono state raggiunte condizioni di temperatura e pressione assolutamente impensabili fino a pochi anni fa e ben superiori a quelle che si realizzano effettivamente sulla Terra. Ho-Kwang Mao, utilizzando una cella miniaturizzata a incudini di ‒ costruita modificando un prototipo messo a punto da altri nel 1959 per studi di spettroscopia in infrarosso a 30.000 atm ‒ ha ottenuto pressioni di 550 GPa (5,5 Mbar, ca. 5,5 milioni di atmosfere) e, combinandola con un laser di potenza che riscalda per induzione, temperature fino a 7000 K. È impensabile, almeno in questo momento, che nei prossimi anni si possano superare questi limiti; è certo, però, che in futuro la ricerca mineralogico-sperimentale si dedicherà in misura sempre maggiore a studi sistematici sulle proprietà dei materiali nelle condizioni di pressione e di temperatura del mantello inferiore e del nucleo terrestre. Già ora non sono rari studi a pressioni intorno a 100 GPa (1 Mbar) e a temperature superiori ai 3000 °C. Un risultato di eccezionale rilievo in questo settore, non tanto per la mineralogia quanto piuttosto per la scienza dei materiali in genere e per le implicazioni che può avere sui modelli relativi alla costituzione geofisica dell'interno della Terra, è stato la dimostrazione che perfino l'idrogeno ‒ il più leggero e labile di tutti i gas ‒ se sottoposto a pressioni enormi cristallizza in un solido a legame metallico. Nel 1989 Mao e Russell J. Hemley hanno descritto efficacemente l'emozione provata quando, guardando attraverso il microscopio il piccolissimo campo (50 µm2) visibile nella , hanno visto mancare progressivamente la luce, mentre l'idrogeno, prima trasparentissimo, si solidificava sotto pressione crescente fino a diventare totalmente opaco come tutti i metalli. Questo e altri risultati hanno permesso loro di conseguire il premio Balzan 2005 che, pur avendo decorrenze saltuarie, rappresenta il più alto riconoscimento in mineralogia.
Per difficoltà tecniche, la cristallografia strutturale su cristallo singolo ad alta pressione è rimasta indietro rispetto alla mineralogia sperimentale che, per caratterizzare i suoi prodotti, tende ad avvalersi soprattutto di polveri e di tecniche spettroscopiche. Quando poi usa le tecniche cristallografiche strutturali, preferisce applicarle a polveri policristalline, utilizzando il metodo dell'interpolazione iterativa dell'intero spettro di diffrazione concepito e poi sviluppato da Hugo M. Rietveld. Tuttavia sono già stati eseguiti raffinamenti di struttura su monocristalli mantenuti a pressioni di circa 30 MPa e a temperature intorno ai 1200 °C, ottenendo su alcuni minerali informazioni ancora migliori, per certi versi, di quelle ottenute con gli altri metodi. Esse hanno permesso di confermare il ruolo coniugato che pressione e temperatura svolgono su tutte le proprietà dei solidi e hanno aperto un significativo campo all'interazione tra i mineralisti e i geofisici che studiano la struttura e i moti delle zone più profonde della Terra.
Oltre che studiare le proprietà delle sostanze quando sono sottoposte ad altissime pressioni, da cui trarre informazioni sulla costituzione dell'interno della Terra, la mineralogia sperimentale persegue ricerche che possono avere implicazioni economiche molto pratiche: per esempio la sintesi del diamante. I primi diamanti industriali furono ottenuti dalla General Electric americana nel 1955 ma erano, appunto, di qualità industriale, cioè piccoli, malformati, gialli opachi, costosissimi e, per quest'ultimo motivo, non adatti neppure a essere utilizzati come abrasivi. Nel mezzo secolo successivo la ricerca sperimentale si è concentrata non solo sul problema di sintetizzare diamanti in condizioni di temperatura e pressione tali da renderli competitivi, sotto l'aspetto del costo, con quelli naturali, riuscendovi abbastanza presto grazie all'uso di catalizzatori, ma anche di renderli sempre più puri, limpidi e grandi per renderli adatti ad essere usati come gemme. I primi diamanti sintetici di qualità gemmologica furono, molto probabilmente, ottenuti dai russi negli anni Ottanta, ma vennero commercializzati come naturali, passando così inosservati nella grande esportazione che l'allora Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche fece di diamanti siberiani. Dopo il cambiamento di uso commerciale imposto dall'entrata in produzione nel 1979 dei diamanti di Argyle (Australia), che sono colorati (fancy) e quindi prima sfidarono e poi ruppero il monopolio della De Beers, che metteva sul mercato solo gemme incolori provenienti dai suoi giacimenti africani, la ricerca sul diamante sintetico si è concentrata su due linee: (a) ottenere fancy dei colori più vari (e più simili a quelli naturali); (b) produrre gemme più grandi possibili, così da permettere tagli complessi come quelli recentemente entrati in voga (a cuore, a 144 faccette, ecc.). Il risultato più recente e più interessante è quello reso noto nel 2005 da Hemley: col metodo della deposizione chimica da vapore o CVD (Chemical vapor deposition) è riuscito a far crescere con velocità mai viste (un terzo di mm all'ora) diamanti purissimi fino a 10 carati di peso che sono trasparenti alla luce in tutto lo spettro del visibile (dall'infrarosso all'ultravioletto). Il metodo, molto costoso perché richiede anzitutto la vaporizzazione del carbonio, ha il vantaggio di produrre gemme perfette che possono essere usate sia nell'industria manifatturiera (per es., per fabbricare incudini per celle di altissima pressione) sia in quella gemmologica, perché il fatto che possono essere facilmente duplicate rende possibile tagliarle col laser, risparmiando così sul clivaggio, che è prevalentemente un'operazione manuale.
La prova dell'esistenza di una diffrazione dei neutroni risale al 1936 e il primo diffrattometro specifico per neutroni fu messo a punto da Walter H. Zinn già nel 1947. Tuttavia, per limitazioni di natura sia intrinseca (la lunghezza d'onda del fascio di neutroni è molto maggiore del diametro del nucleo atomico che diffrange, la sua interazione con la materia molto debole, il potere di diffusione dei vari atomi rispetto ai neutroni non varia in modo regolare col numero atomico, ecc.), sia pratica (scarso numero e debolezza delle sorgenti, dimensione dei campioni, ecc.), questo metodo ha cominciato a fornire dati utili solo a partire dalla fine degli anni Sessanta. In particolare, esso ha potuto essere applicato ai minerali solo dopo che Rietveld ebbe perfezionato il suo metodo di , perché solo allora fu possibile utilizzare polveri cristalline invece di cristalli di parecchi cm di lato che, per lo più, sono pieni di difetti. I primi risultati di rilievo, che risalgono agli anni Settanta, riguardano le zeoliti, minerali giudicati già allora importanti e degni di studio per il loro elevato potenziale industriale. Dato che la diffrazione dei neutroni dà risultati complementari a quella dei raggi X e, in particolare, è utile per localizzare gli atomi leggeri, mentre i raggi X lo sono per quelli pesanti, essa viene sempre più diffusamente utilizzata per determinare la posizione assunta da un atomo leggero come l'idrogeno nei minerali ossidrilati (che per questo vengono spesso deuterizzati), oppure la posizione e la distribuzione nel reticolo di metalli leggeri tra loro vicarianti, come Si e Al (quasi indistinguibili ai raggi X), o anche di atomi più pesanti, ma molto vicini nel loro numero atomico (per es., Fe e Mn o Ni, Ti e Mo o Nb, ecc.). Dato poi che i neutroni posseggono un momento magnetico, la diffrazione neutronica è usata sempre più spesso anche per studiare le proprietà magnetiche di quegli ossidi che mostrano variazioni di comportamento da ferromagnetico ad antiferromagnetico, come le magnetoilmeniti, che sono di largo impiego nelle scienze della Terra in quanto è possibile individuarvi la presenza di un paleomagnetismo residuo. Lo studio dei processi di disidratazione rappresenta un campo nel quale i neutroni hanno recentemente trovato una promettente applicazione: analizzando il campione mentre viene scaldato, è stato possibile seguire il cambiamento di posizione dell'idrogeno all'interno del gruppo ossidrile (per es., brucite, muscovite) o quello dell'acqua di cristallizzazione nel minerale studiato (per es., gesso, bassanite) fino al momento in cui essa viene espulsa dal reticolo, permettendo così un'accurata valutazione termodinamica dell'intero processo.
La diffrazione degli elettroni è una tecnica molto più diffusa in mineralogia di quella dei neutroni, poiché non necessita di sorgenti particolari come i reattori, ma può direttamente utilizzare un buon microscopio elettronico a trasmissione TEM (Trasmission electron microscope). Nei suoi principî fondamentali essa differisce totalmente dalle diffrazioni sia dei raggi X sia dei neutroni, poiché la lunghezza d'onda del fascio di elettroni accelerati è estremamente breve (ca. 0,03 Å) e inoltre perché la capacità di attenuazione del fascio elettronico da parte degli atomi risulta molto maggiore. Occorrono perciò preparati particolari ultrasottili, spesso non facili da ricavare dai minerali, ma che, almeno per ora, rappresentano l'unico metodo sicuro per ottenere informazioni dirette su aree di cristallo estremamente piccole, di poche celle elementari: da queste si può risalire ai difetti e alle irregolarità ‒ errori di impilamento, microgeminazioni, dislocazioni, e così via ‒ sempre presenti nei cristalli reali. Questa tecnica rappresenta pertanto un importante strumento sia in ambito mineralogico (per i 'crescitori' di cristalli, siano essi analoghi di minerali, oppure siano composti finora non ancora trovati in natura, ma previsti in situazioni straordinarie) sia al di fuori di esso, in ambiente industriale, dove solo raramente vengono studiati i difetti dei materiali naturali, notoriamente imperfetti, ma si lavora molto sui loro analoghi sintetici che hanno proprietà particolari, molto utili nelle applicazioni industriali (per es., le ferriti, usate nelle memorie magnetiche, che sono strutturalmente uguali ai granati, ma che non si trovano mai in natura). Accoppiando poi al TEM alcuni accessori, si può anche eseguire uno studio spettroscopico, che può perfino riguardare, a seconda dell'energia di accelerazione usata, sia la superficie sia gli strati più profondi del materiale esaminato, di cui si ottiene, quindi, una specie di tomografia.
Anche la radiazione di sincrotrone sta apportando profondi cambiamenti alla cristallografia strutturale basata sulla diffrazione e, malgrado il suo alto costo e la scarsezza dei laboratori in grado di produrla, viene impiegata sempre più spesso per ricerche sui materiali. Infatti, è stato dimostrato che, pur conservando sempre l'altissima intensità, la fortissima polarizzazione, la bassissima divergenza e la struttura temporale pulsata che la rendono eccezionale, una parte dello spettro della radiazione di sincrotrone ha la stessa energia dei raggi X. Tramite la radiazione da sincrotrone, pertanto, è possibile eseguire un esperimento di diffrazione (sia su cristallo singolo, sia su polvere) in un tempo molto breve (da minuti a millisecondi) e con una risoluzione e un rapporto picco/fondo che rendono estremamente precisa la determinazione di una struttura. Malgrado alcuni problemi ancora irrisolti, i risultati finora ottenuti, soprattutto su campioni di minime dimensioni oppure costituiti da materiale semiamorfo, hanno apportato informazioni nuove e inaspettate su molti minerali. La radiazione di sincrotrone appare di grande utilità particolarmente nell'ambito di tre campi di ricerca: (a) cristallografia ad altissima pressione, che fa uso delle celle a incudini di diamante: recentemente, per esempio, è stato possibile rivelare debolissimi effetti di diffrazione nel ghiaccio, la cui elaborazione col metodo di Rietveld ha evidenziato nuovi tipi di struttura che hanno comportamento reologico diverso; (b) diffrattometria ad alta risoluzione: permettendo di separare tra loro riflessioni che differiscono di pochi centesimi di grado, essa mette in luce l'esistenza di piccolissime deviazioni dalla simmetria teorica che derivano dalla presenza di minuscole impurezze nel campione, oppure da un suo stato di tensione strutturale; (c) cinetica delle reazioni, in quanto rende possibile raccogliere gli effetti di diffrazione proprio nei tempi brevissimi in cui una fase cristallina si trasforma in un'altra, oppure fonde, secondo modalità diverse.
Il fatto che la radiazione di sincrotrone sia bianca, cioè contenga uno spettro di lunghezze d'onda di intensità variabile con continuità, ha anche permesso di introdurre una nuova tecnica di diffrazione, detta della diffusione anomala, che fornisce risoluzioni di struttura incomparabilmente più precise di quelle ottenute con sorgenti convenzionali. Essa consiste nel riprendere gli effetti di diffrazione di un campione con fasci resi monocromatici a tre (o più) lunghezze d'onda opportunamente diverse, di cui due ai due estremi dello spettro e una (o più) a una lunghezza d'onda di poco inferiore a quella (o quelle) della radiazione caratteristica degli atomi presenti in quel campione. Dal confronto di queste misure risulta facile raffinare, separatamente, i fattori termici dei diversi atomi e quindi ricavare una più precisa indicazione sulla loro posizione nella struttura del materiale studiato. La policromaticità della radiazione di sincrotrone ha inoltre riportato in auge il metodo originariamente usato da von Laue che, fin dai tempi delle prime risoluzioni di struttura eseguite da William L. Bragg, era stato quasi del tutto abbandonato in favore dei metodi che adoperano raggi X monocromatici. Specie se si utilizzano rivelatori piani sensibili alla posizione o PSD (Position sensitive detector), si possono infatti ottenere in tempi brevissimi migliaia di effetti di diffrazione, simultanei e ben distinti, anche da cristalli di piccolissime dimensioni (meno di 0,05 mm) con strutture che contengono migliaia di atomi. Fino a pochi anni fa, anche se fosse stato possibile ottenere questi lauegrammi, le informazioni strutturali in essi contenute sarebbero comunque risultate incomprensibili o quasi; ora però, con i moderni calcolatori, esse possono essere elaborate ed è quindi diventato possibile risolvere strutture anche complesse in tempi ragionevoli. I migliori esempi in questo campo riguardano le proteine e quindi la biocristallografia; in mineralogia ne hanno tratto vantaggio soprattutto gli studi sulle zeoliti, che non solo formano spesso cristalli piccolissimi, impossibili da studiare con sorgenti di raggi X convenzionali, ma hanno anche celle elementari costituite dall'impilamento di numerosissimi atomi e con strutture particolarmente complesse a causa di pseudosimmetrie.
Il campo nel quale la radiazione di sincrotrone ha raggiunto la massima diffusione è, tuttavia, quello della spettroscopia, una tecnica di studio complementare alla diffrazione che, per molti anni, è stata ingiustamente usata in modo piuttosto marginale in mineralogia e solo per identificare nei minerali tracce di impurezze di elementi chimici diversi da quelli caratterizzanti: in genere le terre rare e i metalli di transizione cromofori. Nonostante le numerose informazioni che si possono ricavare dalla diffrazione ottenuta dai nuovi fasci di energia raggiante, sono i metodi spettroscopici quelli che recentemente si sono affermati nella pratica mineralogica, forse perché il loro impiego in questo campo è iniziato dopo un lungo collaudo da parte dei fisici e dei chimici, e quindi dopo che sia la strumentazione sia l'elaborazione dei dati erano già divenute relativamente semplici e più consone alle necessità e alle conoscenze dei mineralisti.
La prima spettroscopia ad affermarsi in mineralogia (escludendo quelle di fiamma e di scintilla, usate nel passato in minerochimica per la determinazione degli elementi in traccia) è stata quella di assorbimento nel visibile o VIS (Visible spectroscopy). è una tecnica basata sulla legge di Beer-Bouguer-Lambert che ha il vantaggio di non richiedere particolari fonti di energia, in quanto studia il comportamento dei minerali quando sono attraversati da un fascio di luce di lunghezza d'onda fatta variare in modo continuo tra un valore minimo e uno massimo tramite un sistema disperdente (monocromatore). La luce genera transizioni elettroniche negli orbitali d dei metalli di transizione, trasferimenti di carica da un catione a un altro oppure da un catione a un anione, transizioni dalla banda di valenza a quella di conduzione (in un semiconduttore) oppure a un livello d'impurezza: tutti questi processi comportano assorbimenti selettivi di energia e quindi sottrazioni di particolari lunghezze d'onda. Con questo metodo si ricavano informazioni sul tipo e la posizione strutturale assunta dai cationi cromofori nella struttura dei minerali, cioè sul loro colore, che ne è una delle caratteristiche più facili a vedere, ma che è anche molto variabile. La spettroscopia nel visibile è particolarmente utile nello studio delle gemme.
Recentemente, l'uso della radiazione di sincrotrone ha reso efficace la spettroscopia d'assorbimento dei raggi X o XAS (X-ray absorption spectroscopy) ideata fin dal 1922 da Ralph de Laer Kronig, ma sempre pochissimo usata per la scarsa affidabilità che si poteva attribuire ai suoi segnali quando essi erano ottenuti con sorgenti convenzionali. Tramite la radiazione da sincrotrone risultano ben risolte le oscillazioni di Kronig oltre la soglia d'assorbimento dei raggi X di un particolare elemento, per quanto deboli esse siano, e possono quindi essere utilizzate e spiegate per determinare lo stato di ossidazione e la coordinazione dell'elemento assorbente in modo indipendente da tutti gli altri elementi presenti nel materiale e dal suo stesso stato fisico. Questa è infatti la caratteristica che rende i metodi spettroscopici vantaggiosi oltre che complementari rispetto a quelli diffrattometrici: essi non dipendono né dallo stato di aggregazione del materiale esaminato (che può essere un solido, un liquido o un gas) né dal suo ordine interno, che può essere a lungo raggio (cioè con tutti gli atomi nelle posizioni previste dalla simmetria spaziale) oppure a corto raggio (cioè riguardante solo le interazioni tra l'atomo esaminato e i suoi primi vicini). È evidente che in questo modo si possono studiare particolarità inaccessibili alla diffrazione, quali il fatto di presentare dei difetti locali che, come abbiamo detto, nei minerali sono una regola, ma sono irregolarmente distribuiti. L'elevata intensità della radiazione di sincrotrone, inoltre, permette di ottenere segnali da atomi diluiti (cioè presenti in piccola concentrazione nella sostanza); questo fa sì che si possano determinare con ottima precisione sia i contenuti (mediante l'SR-XRF, Synchrotron radiation X-ray fluorescence), quanto gli intorni locali (mediante l'EXAFS, Extended X-ray absorption fine structure; lo XANES o l'X-ray absorption near edge structure) non solo degli elementi maggiori, che sono quelli caratterizzanti il composto studiato, ma anche di quelli minori o addirittura in traccia, sempre presenti nei solidi naturali e che spesso sono proprio quelli che determinano le loro particolarità fisiche. Con opportune tecniche come la SEXAFS (Surface extended X-ray absorption fine structure), inoltre, si possono individuare solo gli atomi sulla superficie dei minerali e studiare quindi i modi con cui i minerali stessi reagiscono con gli agenti atmosferici, oppure con i reagenti chimici che vengono usati per estrarne, per esempio, alcuni elementi utili (Au, Pt, Cu, ecc.), con chiare implicazioni sui problemi di inquinamento ambientale, sia naturale sia indotto dal trattamento industriale.
Ben più diffusa della spettroscopia d'assorbimento dei raggi X, tuttavia, è stata negli scorsi decenni la dei raggi γ. Questa tecnica ‒ basata su un effetto fisico, scoperto da Rudolf L. Mössbauer nel 1958, in virtù del quale i nuclei atomici investiti da raggi γ irradiati da nuclei identici emettono raggi γ di eguale frequenza di quelli incidenti per una sorta di risonanza nucleare ‒ si è affermata in mineralogia nel 1967 con George M. Bancroft e Roger G. Burns, perché è l'unico metodo oggettivo per evidenziare lo stato di ossidazione del ferro (il quarto degli elementi, nell'ordine di abbondanza in natura) e per definire la proporzione in cui Fe2+e Fe3+ sono presenti in un minerale. Inoltre, essa permette di ripartire i vari tipi di Fe tra i diversi siti cristallografici, se presenti con energie di campo cristallino differenti, e di determinare in tal modo l'energia di ciascun sito. L'unico inconveniente di tale tecnica è che gli atomi che presentano l'effetto Mössbauer sono pochi (Fe, Sb, Sn, Dy e alcuni altri, tra cui Au), per cui quasi tutti i minerali che li contengono sono stati ormai già studiati. Recentemente, tuttavia, essa ha ricevuto nuovo impulso sia dalla creazione di apposite microsonde adatte per cristalli singoli e piccoli campioni come quelli contenuti nella cella a incudini di diamante, sia da nuove forme di elaborazione degli spettri dei minerali ferriferi che riescono a metterne in evidenza il comportamento magnetico. Restano inoltre da conciliare certe risultanze del metodo con alcune leggi della geofisica: per esempio, la risonanza γ ha mostrato che una discreta parte del Fe contenuto nei minerali del mantello terrestre è Fe3+, ma la geofisica teorica lo esclude, nell'assunto che questo involucro profondo non è mai venuto a contatto con l'atmosfera e che il suo Fe, quindi, non può essere ossidato. Questo è vero ed è stato confermato per quanto riguarda la Luna, che non ha atmosfera. E allora, che cosa è avvenuto nella Terra? Ecco un problema aperto per i mineralisti futuri.
La spettroscopia per risonanza magnetica nucleare o NMR (Nuclear magnetic resonance) è rimasta ignorata dai mineralisti fino a che non è stata introdotta la tecnica detta per rotazione ad angolo magico o MAS (Magic angle spinning): facendo ruotare su se stesso il campione con un'inclinazione di 54,7° rispetto alle linee di forza del campo magnetico, si ottengono nei solidi picchi altrettanto ben risolti quanto quelli che si ottengono nei liquidi. Lo studio sistematico del comportamento del 29Si nei silicati, effettuato da Endel Lippmaa e collaboratori nel 1981, non è riuscito a dimostrare l'effettiva potenzialità di questo metodo, che è stata però messa in luce da un successivo (1982) studio di Jacek Klinowski e collaboratori su 27Al e 29Si presenti assieme in zeoliti. è divenuto allora chiaro come la NMR sia in grado di distinguere in modo univoco il ruolo assunto dai singoli atomi di questi elementi nell'anello degli alluminosilicati. Da quel momento è stata diffusamente applicata, tanto che non c'è ormai nessun minerale che non sia stato oggetto di studio tramite NMR. Anche altri cationi più rari (come H, B, P) o anioni (come O e F) possono essere studiati con grande precisione per mezzo di questa tecnica, che rappresenta uno dei più promettenti o, per meglio dire, dei più adatti metodi di studio per approfondire la conoscenza dello stato solido naturale, permettendo di andare oltre la diffrattometria a cristallo singolo, che tende a fornire informazioni mediate a lungo raggio e spesso solo ipotetiche, e anche oltre la spettroscopia d'assorbimento di radiazione da sincrotrone, con cui rivaleggia nei risultati, ma che è molto più dispendiosa. Non c'è dubbio che in un prossimo futuro ne trarranno vantaggio anche gli studi di cinetica, come quelli sulla transizione da stato solido a liquido (processo di fusione), in quanto la NMR, come tutte le spettroscopie, prescinde dallo stato fisico del materiale studiato.
Questa rassegna delle nuove tecniche sperimentali recentemente entrate in uso nella mineralogia deve essere necessariamente breve ed è quindi ben lontana dall'essere esauriente. Non sarebbe però giusto interromperla senza ricordare che il successo ottenuto dalla microsonda elettronica costruita da Raymond Castaing nel 1951 ha determinato numerose imitazioni specifiche, ciascuna delle quali ha portato informazioni quantitative nuove su particolari minerali. L'originaria microsonda elettronica detta EMP (Electron micro probe) combinava due strumenti: lo spettrometro di fluorescenza dei raggi X (XRF, X-ray fluorescence) ‒ già molto perfezionato all'epoca, ma sostanzialmente non diverso da quello inventato da Henry G. J. Moseley nel 1915 e usato da Assar R. Hadding nel 1922 per dosare quantitativamente gli elementi contenuti in un composto tramite i raggi X che esso emette quando è bombardato da altri raggi ‒ e il microscopio elettronico a scansione o SEM (Scanning electron microscope), costruito da Manfred von Ardenne nel 1938, ma pochissimo usato fino ad allora in campo mineralogico per una serie di problemi nella preparazione del campione. Il principio fisico su cui si basava il nuovo strumento era ben noto: eccitando con un fascio di elettroni un materiale composto da atomi di tipo diverso e in diverso rapporto quantitativo, se ne provoca l'emissione di raggi X secondo frequenze caratteristiche che permettono l'identificazione di ciascun atomo, e con un'intensità proporzionale al numero di atomi di una data specie rispetto a tutti gli atomi presenti nel materiale (a meno di una costante). Con le lenti magnetiche derivate dal microscopio elettronico, la microsonda eccitava e raccoglieva segnali da un'area molto piccola del campione, permettendo così, per la prima volta, di effettuare analisi non distruttive su qualsiasi minerale e per un gran numero di elementi ‒ inizialmente solo pesanti, ma presto anche leggeri, fino al fluoro, comprendendo perciò tutti i più importanti costituenti della maggior parte dei minerali ‒ e, inoltre, con una risoluzione spaziale di pochi micrometri (1÷10 µm).
Le evoluzioni successive di questo strumento hanno consentito il conseguimento di notevoli risultati. Nella tecnica denominata SIMS (Secondary ions mass spectroscopy) come sorgente di eccitazione sono stati utilizzati ioni invece che elettroni (microsonda ionica), il che ha permesso di determinare non solo elementi leggeri e leggerissimi (H, B, Be, ecc.), con livelli di rivelabilità dell'ordine delle ppb (parti per miliardo), ma anche gli isotopi dei diversi elementi. Un'altra sonda, detta microsonda protonica o PMP (Proton micro probe), fa uso dei protoni: anche in questo caso il livello di rivelabilità scende alle ppb, però per gli atomi pesanti (Sc, Th, U, Au, ecc.). Questi strumenti, insieme all'EMP, hanno determinato un enorme aumento delle nostre conoscenze sulla cristallochimica specifica e sull'omogeneità dei minerali, e a loro volta queste consentono di ricavare maggiori informazioni sulle condizioni in cui i minerali nucleano e crescono in natura. Ne è seguita, però, la necessità sempre più pressante di introdurre una modifica all'attuale paradigma sulle vicarianze e sulle soluzioni solide, che tenga conto, oltre che della pressione e della temperatura, come già avviene, anche delle proprietà termodinamiche dei materiali. Ciò sarà possibile solo se si riprenderanno in modo nuovo sia gli studi sistematici su minerali formatisi in diverse condizioni di temperatura, pressione e ambiente chimico, sia le ricerche sperimentali di laboratorio su analoghi sintetici di minerali, allo scopo di riorganizzare e razionalizzare i risultati ottenuti dagli studi sistematici.
Lo sviluppo finora più avanzato delle tecniche derivate dalla microsonda è stato raggiunto con lo SHRIMP (Sensitive high resolution ion micro probe). Il primoSHRIMP fu concepito, costruito e sviluppato da William Compston in Australia tra il 1977 e il 1984. Rappresentava una risposta dei mineralisti e dei geochimici al fatto che non esistevano allora microsonde ioniche in grado di studiare materiali geologici. Lo SHRIMP fu subito in grado di effettuare analisi accurate di U e Pb su campioni molto minuti (ca. 30 μm di diametro) di polveri lunari e fu usato anche per datare rocce molto antiche con una precisione stupefacente. È merito dello SHRIMP se ora sappiamo quali siano le rocce più antiche affioranti sulla Terra e se sappiamo anche che la prima crosta terrestre si consolidò 4,4 Ga fa e che il primo minerale che si formò dal fuso primordiale fu lo zircone. Lo SHRIMP non data solo rocce antichissime: può datare con grande precisione anche rocce piuttosto giovani. È così che lo SHRIMP ha rivoluzionato le nostre conoscenze sulle Alpi: una piccola zona a Sud di Torino (la zona Brossasco-Isasca), già ben nota per essere di origine molto profonda (ca. 250 km) per il fatto che vi era stata rinvenuta (primo caso al mondo) la , un raro minerale d'altissima pressione, è risultata trasportata rapidamente in superficie 35 Ma fa, cioè subito dopo che la catena si era formata.
Basta questa evidenza modernissima, che è basata sulla presenza in rocce del tutto comuni come gli gneiss di un raro minerale ‒ la coesite ‒ associato a un altro minerale comune anch'esso ‒ lo zircone ‒ ma che è piccolissimo e può essere datato solo con uno strumento ultramoderno come lo SHRIMP, per dimostrare che la mineralogia, lungi da essere morta, ha ancora molto da scoprire e da dire.
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