Miniere e metalli a Roma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’estrazione e lavorazione dei metalli è la principale attività industriale nel mondo romano. Il periodo più fiorente per l’industria estrattiva romana è quello che va dalla fine della repubblica, al principato e alla prima età imperiale. I Romani impegnano notevoli risorse per lo sfruttamento delle risorse minerarie; imparano a dosare acqua e fuoco per trovare ed estrarre i metalli più preziosi. In età imperiale si perfeziona la produzione di oro e argento con la tecnica della liquazione. Questa consiste nel separare questi metalli dal rame e da altri composti sfruttando la differente temperatura di fusione. I Romani apportano alla conoscenza degli antichi metallurghi due contributi d’importanza fondamentale: la produzione del mercurio e le sue applicazioni all’estrazione dell’oro e la produzione della lega rame-zinco (ottone). All’inizio dell’età cristiana risalgono i primi trattati alchemici, in cui la produzione dell’oro, dell’argento e delle pietre preziose artificiali è presentata come il risultato di operazioni chimiche e di rivelazioni cui solo gli alchimisti possono avere accesso. Le risorse nelle province Poiché l’Italia è un paese piuttosto povero di metalli, i Romani si procurano i metalli necessari alle loro enormi esigenze sfruttando le miniere delle province. In Sardegna vengono estratti rame, ferro, piombo e argento, in particolare nell’Iglesiente. Il periodo più fiorente per l’industria estrattiva romana è quello che va dalla fine della repubblica alla prima età imperiale. La Spagna, la Gallia, la Britannia, le province danubiane e l’Asia Minore sono le regioni più ricche di metalli, e forniscono oro, argento, stagno, rame, piombo, ferro. A partire dal I secolo a.C. la maggior quantità di metalli del mondo romano proviene dalla penisola iberica, in particolare dalle miniere di Rio Tinto (nel sud-ovest della Spagna), già note ai Fenici. Una tecnica adottata dai Romani per aprire crepe nelle rocce più dure è quella di accendere fuochi contro la parete della roccia e poi raffreddarla con getti d’acqua, così da provocare contrazioni e quindi fratture. Altra tecnica è quella dello scarico a cascata, per portare via il terreno di copertura e mettere a nudo il giacimento di minerale. Nella regione basca e in Castiglia e León (Las Medulas) i Romani organizzano una produzione d’oro su larga scala, usando la tecnica di abbattimento idraulico. Vengono realizzate imponenti opere di ingegneria idraulica per convogliare enormi quantitativi d’acqua alle falde aurifere, che sono in tal modo disgregate. Il materiale alluvionale è trasportato via e l’acqua raccolta alla base del sito e fatta confluire entro canali di coltivazione, dove è estratto l’oro.
Lo stagno è estratto in Spagna, in Bretagna e poi nel sud-ovest dell’Inghilterra. Le miniere dell’isola d’Elba, già coltivate dagli Etruschi, forniscono gran parte del ferro necessario in epoca repubblicana. All’Elba, l’estrazione viene effettuata principalmente a cielo aperto. Successivamente, una quantità considerevole del ferro dei Romani comincia a giungere dalle miniere della Spagna centrale e dalla Bretagna, mentre dal Norico (nella Carinzia settentrionale) proviene l’acciaio con cui si fabbricano famose spade. I metalli estratti sono di solito lavorati in centri specializzati: il ferro dell’Elba è lavorato in età repubblicana a Populonia (che già in età etrusca era un importante centro di produzione e commercio del ferro), nonché a Pozzuoli, dove si producono e commerciano utensili e armi; le più importanti manifatture del rame si trovano a Capua. Nel nord il più importante centro di lavorazione dei metalli è Aquileia, dove si lavorano il ferro del Norico, l’argento e il vetro. L’argento è lavorato in Siria, ad Alessandria e a Roma.
Gli attrezzi usati sono per lo più in ferro, ma attrezzi in pietra continuano ad essere utilizzati, mentre in alcune miniere sono stati rinvenuti cunei in legno, che, piantati nella parete e bagnati, si dilatano così da spaccare la roccia. L’illuminazione è fornita da piccole lucerne poste in nicchie scavate nelle pareti delle gallerie. Come è attestato dalle miniere spagnole, i Romani costruiscono numerose gallerie, con sistemi di comunicazione intermedi per favorire la ventilazione; a tal fine utilizzano anche fuochi accesi alla base di un pozzo per aumentare il tiraggio. Di difficile soluzione è il problema del drenaggio delle miniere che si trovano al di sotto del livello della falda acquifera. I Romani usano tre tecniche di eduzione delle acque: l’aggottamento, ovvero lo spurgo mediante cucchiaia, lo scavo di canali di drenaggio oppure attraverso mezzi meccanici, come la vite di Archimede e la ruota idraulica. Il materiale estratto è portato in superficie da una staffetta di operai (spesso ragazzi) che se lo passano di mano in mano.
In età repubblicana i Romani appaltano il controllo delle miniere ai pubblicani; in età imperiale, anche se alcune miniere sono proprietà dei privati, le miniere passano in gran parte allo stato. Il procurator metallorum controlla interi distretti minerari, concede appalti e riscuote gli introiti destinati al fisco imperiale. Nelle miniere romane lavorano prigionieri, barbari e schiavi, spesso in catene e costretti a vivere sottoterra.
Nella lavorazione dei metalli i Romani adottano e spesso perfezionano tecniche già in uso tra i Greci e gli Etruschi, costruiscono forni più complessi e capaci di raggiungere temperature più elevate. I lingotti di piombo di epoca romana mostrano che i Romani riescono a disargentare il piombo meglio dei Greci, portando il residuo di argento dallo 0,2 percento allo 0,02 percento.
Per mezzo della fusione, che richiede una temperatura di circa 1150 °C, si ottiene ferro sotto forma di massa spugnosa, da cui è stata parzialmente eliminata la scoria; quella che resta è eliminata mediante martellatura. Altro processo è quello dell’arrostimento, per il quale occorre una temperatura inferiore e condizioni ossidanti. Nel forno si dispongono il minerale e il carbone di legna; in otto o dieci ore, il minerale, senza fondersi, si trasforma in un massello di ferro (contenente ancora numerose impurità), mentre la scoria cola sul fondo del forno. Il ferro è martellato e forgiato per eliminare le residue impurità. I Romani conoscono la tecnica dell’amalgama; è infatti nota la proprietà del mercurio di amalgamare l’oro e l’argento. Nella Naturalis Historia Plinio descrive la purificazione dell’oro per mezzo del mercurio: “C’è una pietra nelle vene d’argento, che contiene un deposito di umore sempre liquido chiamato argento vivo. È un veleno per tutte le cose, e perfora i recipienti penetrandoli con il suo terribile potere distruttivo. Tutte le sostanze vi galleggiano sopra, eccetto l’oro; soltanto questo esso attira a sé. Perciò è anche ottimo per purificarli, poiché ne espelle tutte le impurità se lo si agita ripetutamente in vasi di terracotta. Eliminati in tal modo i difetti, per separare anche lo stesso argento vivo dall’oro si versano su pelli conciate, attraverso le quali l’argento vivo trasuda e defluisce lasciando l’oro allo stato puro.” (Plinio, Nat. Hist., XXXIII, 32).
Un ostacolo alla diffusione di questo processo è certamente la scarsa disponibilità di mercurio, almeno fino all’arrivo di ingenti quantità di argento vivo dalla Spagna. Prima di allora, il mercurio proveniva dai giacimenti di cinabro (HgS) dell’Amiata, già noti agli dagli Etruschi, che usavano il cinabro come colorante. I minerali auriferi sono frantumati e trattati con mercurio, l’amalgama che ne risulta è separata dalla ganga comprimendo il tutto in pelli; il mercurio infine viene distillato e l’oro resta sul fondo dei recipienti. Durante l’impero romano si perfeziona la produzione di oro e argento con la tecnica della liquazione. Questa consiste nel separare questi metalli dal rame e da altri composti sfruttando la differente temperatura di fusione. I Romani producono la lega rame-zinco (l’ottone), con cui coniano monete, a partire da Giulio Cesare e soprattutto sotto Augusto.
Aspetti culturali e sociali della metallurgia a Roma Cicerone (De officiis, I, 150, 151) definisce sordide le attività degli artigiani ed esalta il lavoro dei campi. La sua posizione nei confronti delle attività estrattive non è però del tutto negativa, infatti nella stessa opera riconosce i vantaggi apportati dai metalli: “E allo stesso modo, senza l’operosa mano dell’uomo, non si caverebbero dai fianchi delle montagne le pietre necessarie ai nostri bisogni, e non si estrarrebbero dalle viscere della terra il ferro, il rame, l’oro, l’argento, tesoro sepolto nel profondo” (De officiis, II, 13). Gli artigiani metallurghi sono per lo più liberti che dirigono officine, i cui lavoranti sono spesso schiavi. Gli artigiani dei metalli formano differenti collegia (le cui funzioni non vanno però confuse con quelle delle corporazioni medievali); tra questi va ricordato il collegium aerariorum (“dei lavoratori del bronzo”) di Milano, che ha avuto un ruolo rilevante in età imperiale.
Numerosi monumenti funebri romani, specialmente in Italia e in Gallia, testimoniano l’esistenza di artigiani metallurghi ricchi. Questi usano identificarsi per mezzo di un timbro e matrice, mentre quelli semplici si limitano alla propria firma sui vasi. Con la diffusione di utensili e armi in ferro, la figura del ferrarius acquista prestigio sociale. In età imperiale vi sono potenti collegia di fabbri a Milano e a Brescia; entrambi usano ferro norico e acciaio. Nei centri della Pianura Padana le corporazioni di fabbri sono tanto potenti da costituire un importante fattore della politica imperiale. Nella lavorazione dei metalli preziosi operano molti imprenditori, perché la materia prima costa molto e non tutti gli artigiani possono permettersi di comprarla.
Le origini dell’alchimia in Occidente I primi scritti alchemici sono prodotti nell’ambito della cultura alessandrina, intorno al III secolo. Si tratta di raccolte di ricette (vincolate al segreto) per fabbricare artificialmente metalli preziosi, per mezzo di vari processi, come ad esempio quello di incorporare l’oro nel metallo vile. Oltre alla componente pratica, operativa, essi contengono una concezione della natura che si basa su simpatie e antipatie e occulte corrispondenze tra le parti del cosmo. Uno dei testi più antichi (risale alla metà del III secolo) è intitolato Physikà kai mystikà, ed è attribuito a Democrito, ma certamente non è stato composto dal filosofo di Abdera. Vi compaiono temi che poi saranno presenti in gran parte della letteratura alchemica successiva: l’iniziazione dell’alchimista attraverso un processo di purificazione spirituale, l’idea di riscoprire un sapere alchemico di origine antichissima, l’esistenza di segrete corrispondenze tra le parti del cosmo. Zosimo di Panopoli è uno dei primi autori greci a scrivere di alchimia di cui abbiamo qualche notizia biografica. Vissuto tra la fine del II e l’inizio del III secolo, Zosimo, che è a conoscenza del Corpus hermeticum, presenta l’alchimia come una pratica e allo stesso tempo una rivelazione. Il contenuto spirituale e simbolico dei suoi scritti è dominante e l’autore fonde la ricerca filosofico-scientifica con esperienze di tipo mistico. Zosimo presenta l’opera dell’alchimista come il risultato di una rivelazione ottenuta in sogno nonché di capacità tecniche di manipolazione dei metalli. Zosimo è in possesso di considerevoli conoscenze relative a minerali e metalli, come è attestato dalle sue descrizioni dei composti del mercurio, dell’acetato di piombo e del solfuro di arsenico. La distillazione ha un ruolo di primo piano negli scritti di Zosimo: distillare significa trasformare un corpo in una sostanza semi-materiale, lo spirito (pneuma), ovvero liberare gli spiriti contenuti nei corpi. Zosimo mostra di adottare la concezione stoica del pneuma quale principio di attività e di vita. Al IV secolo risalgono due papiri greci (papiro di Leida e papiro di Stoccolma), di carattere pratico-operativo: contengono ricette e descrizioni di reazioni chimiche (ad esempio la produzione di coloranti per tessuti), processi per la produzione di pietre preziose artificiali, nonché per la trasmutazione dei metalli vili in argento e oro.
Dai primi testi alchemici emergono due concezioni fondamentali: (1) una rivalutazione dell’arte e quindi la convinzione che l’arte non sia subordinata alla natura. Per gli alchimisti, infatti, l’arte può produrre le stesse sostanze che produce la natura. (2) L’idea che per mezzo di processi chimici si possa animare, rendere attiva la materia inerte e perfezionare i corpi, incluso il corpo umano. Da questa concezione scaturisce l’alchimia dell’elixir, sostanza che si ritiene sia in grado di garantire la longevità – un tema che sarà poi sviluppato dall’alchimia medievale.