Minoranze culturali
Secondo una classica definizione il termine minoranza designa un "gruppo di persone - differenziate da altre all'interno di una data società sulla base di razza, religione, lingua, nazionalità - che vedono se stesse come gruppo dotato di una sua specificità e vengono percepite dall'esterno come tali, con una connotazione negativa" (v. Rose, 1968, p. 365; v. anche Wirth, 1945, p. 347). Possiamo scomporre questo concetto in tre componenti fondamentali. La prima riguarda le caratteristiche che differenziano i membri di una minoranza dal resto della società. Queste possono includere, in combinazioni e con accenti variabili, lingua, nazionalità, riferimento a origini comuni, pratiche religiose, usi, costumi, stili di vita peculiari. Un rilievo particolare assume qui il territorio, inteso come luogo simbolico prima ancora che fisico.
Anche determinati tratti razziali possono concorrere a identificare una minoranza. In linea generale, tuttavia, il concetto di razza è sempre meno utilizzato nell'analisi dei gruppi minoritari. Ciò dipende non soltanto da considerazioni etico-politiche, ma anche e soprattutto da ragioni scientifiche - ad esempio dall'indeterminatezza della nozione di razza qualora non venga associata ad altri elementi culturali e a sentimenti di appartenenza a specifiche comunità (v. O'Sullivan See e Wilson, 1988; v. Yinger, 1985).
Questa osservazione ci introduce alla seconda caratteristica rilevante. Una minoranza esiste infatti soltanto se agli elementi distintivi appena individuati si associa un peculiare senso di appartenenza. Se, in altre parole, i membri del gruppo minoritario si percepiscono e sono percepiti dall'esterno come portatori di una specifica identità. I tratti culturali diventano allora il criterio con cui tracciare dei confini tra un 'noi' e un 'loro' identificabile con il gruppo dominante ma anche con altre minoranze nel caso di società più composite. Infine, tale identità si costituisce e assume specificità in riferimento a una situazione di discriminazione. Alle differenze culturali, linguistiche, di origini, ecc., corrisponde infatti un accesso ineguale alle risorse, alle opportunità e alle ricompense sociali (minori opportunità professionali, restrizioni dei diritti civili e politici, stigmatizzazione di certi costumi, ecc.).
L'importanza attribuita ai tratti culturali e al ruolo dell'identità avvicina le minoranze da un lato ai gruppi etnici, dall'altro alle subculture. La nozione di minoranza si distacca peraltro in termini analitici da entrambi i concetti per il rilievo assunto da modelli di relazione asimmetrici e fondati sulla disuguaglianza. Essa è pertanto da intendersi in senso qualitativo e non quantitativo. Come il caso sudafricano ha mostrato con chiarezza, non contano infatti le dimensioni del gruppo, bensì la sua collocazione in una posizione subordinata all'interno dei rapporti sociali (v. Rose, 1968; v. Boileau e altri, 1975; v. Sussi, 1987²).
In un'accezione ampia la qualifica di minoranza può estendersi anche ai movimenti controculturali e alle minoranze religiose di tipo settario, come i nuovi culti religiosi di derivazione orientale (v. Yinger, 1982; v. Robbins, 1988). Essi presentano in effetti molti tratti propri delle minoranze culturali intese in senso lato, da una specifica identità di gruppo a una collocazione marginale sulla scala del potere e del prestigio sociale. Si tratta peraltro, in molti casi, di fenomeni in cui la marginalità sociale è il prodotto di una scelta di autoesclusione piuttosto che il frutto di un'azione di discriminazione - si pensi ad esempio al fenomeno delle comunità alternative, non riducibile alla breve stagione degli anni sessanta (v. Yinger, 1982), oppure a molti culti religiosi (v. Léger e Hervieu, 1983). Notevoli sono le differenze su questo punto rispetto a quei gruppi sociali ove l'appartenenza religiosa rappresenta invece la base di situazioni di disuguaglianza radicate nella storia e nel modo di vita di una data popolazione - e qui il riferimento ovvio è alla minoranza cattolica nell'Irlanda del Nord. Non va poi dimenticato che, con un'ulteriore dilatazione del concetto, si potrebbe arrivare a includere tra le minoranze anche le donne in quanto gruppo sociale specifico e storicamente discriminato.
Anche se si rimane fedeli, come ci pare opportuno, a una accezione più classica del concetto di minoranza culturale, esso è tuttavia riferibile a entità assai diverse, che vanno da piccole comunità all'interno di Stati monoculturali, come gli Albanesi d'Italia, fino a gruppi che contano diversi milioni di persone, come i neri o gli ispanici negli Stati Uniti. Ciò rende approssimativa qualsiasi stima del numero delle minoranze oggi presenti nel mondo. Il loro numero potenziale è comunque estremamente elevato. Una ricognizione recente individuava ad esempio oltre 5.000 lingue vive, di cui soltanto l'1% in Europa (cfr. Kloss e McConnell, cit. in Kinnear, 1990). Accanto alla lingua dobbiamo poi considerare la presenza di altri criteri di differenziazione, che fanno ulteriormente lievitare il numero delle minoranze possibili. Gli Scozzesi si percepiscono ad esempio come gruppo culturale (e nazionale) specifico rispetto agli Inglesi, non però - almeno, non primariamente - su basi linguistiche. Il gaelico è infatti parlato da una minoranza ristretta, concentrata nelle regioni del nord e in particolare nelle isole. Non a caso in queste aree sono presenti orientamenti separatistici non solo dal Regno Unito ma dalla stessa Scozia, se questa dovesse ottenere l'indipendenza (v. Melucci e Diani, 1992, pp. 74 ss.; v. Kinnear, 1990).
La presenza di determinati tratti culturali non è peraltro sufficiente a costituire una minoranza, in assenza di un rapporto di dominazione sociale, politica e/o economica e di una specifica coscienza collettiva. Introducendo questi parametri l'attenzione si concentra sulle minoranze culturalmente e politicamente attive. Il loro numero, ancorché variabile, è assai più ridotto e non sembra eccedere le poche centinaia (v. MRG, 1990). Diventa allora importante comprendere in quale maniera tratti culturali latenti possano rappresentare la base per processi sociali concreti di dominazione e di definizione dell'identità. Ci chiederemo in primo luogo quali processi determinino l'emergere e il mantenimento nel tempo di un'identità specifica. Analizzeremo inoltre le forme assunte dalle relazioni tra minoranze e maggioranze, nella sfera privata come in quella pubblica, in quella politica come in quella economica. Dal momento che l'evoluzione storica dei processi di discriminazione così come i rapporti sociali a base etnica in società non occidentali sono trattati diffusamente in altri articoli, privilegeremo qui, ancorché in modo non esclusivo, una prospettiva eurocentrica.
L'identità di un gruppo sociale si fonda sia su un'auto- che su un'eterodefinizione. Oltre che percepirsi come entità specifica, i suoi membri devono anche essere riconosciuti come tali dal resto della società (v. Melucci, 1982). L'identità delle minoranze culturali si basa in particolare sulla valorizzazione di caratteristiche legate all'esperienza di lungo periodo di un popolo, alla sua tradizione, alla sua storia, a specifici tratti culturali, al territorio.Vari studiosi hanno interpretato questi elementi in una chiave prettamente ascrittiva, ponendo l'accento sulla dimensione primordiale presente nei sentimenti di appartenenza di tipo culturale e ampliando a volte questa interpretazione fino a ricomprendervi elementi di tipo biologico. Il senso di appartenenza sarebbe cioè legato alla condivisione di esperienze fondamentali quali il legame familiare, la socializzazione sin dalla più tenera infanzia e una serie di pratiche e di visioni del mondo (v. Shils, 1957; v. Geertz, 1963; v. van den Berghe, 1978). Questi tratti condivisi possono essere spesso rielaborati in modo da associarli a epoche lontane, provvedendo così le minoranze di un'adeguata memoria storica.
Anche se si accetta questa interpretazione, peraltro discutibile, rimane comunque da notare che la specificità diventa più facilmente visibile nel momento in cui si accentua il confronto con il diverso. Tratti culturali dati per scontati o a volte dimenticati possono cioè essere rivitalizzati e resi manifesti dal contatto con popolazioni culturalmente differenti. Storicamente i maggiori agenti di contatto tra gruppi sono stati i processi di tipo demografico (in particolare le migrazioni), i processi di tipo politico, nonché i processi di modernizzazione in senso lato (v. Horowitz, 1985; v. Petrosino, 1991).
All'origine delle migrazioni vi sono motivazioni non solo economiche ma anche politiche o culturali (v. Ardigò e altri, 1993). Le migrazioni verso gli Stati Uniti nell'Ottocento e nel Novecento erano determinate spesso da entrambe le motivazioni. Per gli Ebrei provenienti dall'Europa centro-orientale, ad esempio, si trattava di sfuggire ai pogrom così frequenti in quei paesi. Ragioni politiche sono sovente all'origine dell'emigrazione contemporanea dal sud del mondo verso i paesi democratici (ad esempio dall'Argentina o dal Cile nel periodo delle dittature militari, oppure dai paesi dove domina il fondamentalismo). In questi ultimi anni il mondo è stato attraversato da nuove, massicce ondate migratorie. Soltanto negli Stati Uniti sono stati stimati, tra gli anni settanta e i primi anni ottanta, circa otto milioni di immigrati regolari (inclusi i rifugiati politici) e quasi altrettanti entrati illegalmente nel paese (v. Yinger, 1985). Nei dodici paesi membri dell'Unione Europea risiedevano alla fine degli anni ottanta circa nove milioni di persone provenienti da paesi extracomunitari (di cui sette da regioni in via di sviluppo), pari a poco meno del 3% della loro popolazione complessiva (v. Melotti, 1993, p. 30). Anche un paese tradizionalmente a bassa immigrazione come l'Italia ha visto nello stesso periodo modificarsi in modo drastico il suo profilo demografico. Il numero di persone immigrate da paesi non occidentali sembra avere superato il milione all'inizio degli anni novanta (v. Woods, 1992; v. Melotti, 1993; v. Ardigò e altri, 1993).
A questi deve essere poi sommato un altro milione di appartenenti alle minoranze da sempre residenti nel nostro paese, come i sudtirolesi, gli occitani o i sardi.
Storicamente i processi politici che facilitano l'emergere di minoranze culturali sono legati, in primo luogo, alle guerre di conquista e al conseguente asservimento di popolazioni in precedenza autonome. A essi si aggiungono, in epoca moderna, i processi di colonizzazione, oppure, come nel caso americano, di espansione della frontiera (v. O'Sullivan See e Wilson, 1988, pp. 230-231). Ai nostri fini il processo più interessante è tuttavia rappresentato dalla costruzione degli Stati nazionali moderni. Questi, diversamente dalle forme di organizzazione sociale che li hanno preceduti, richiedono infatti l'integrazione verticale di una società intorno a un modello culturale e politico unitario (v. Gellner, 1983; v. Poggi, 1978; v. Petrosino, 1991). L'assetto della società feudale, dove le comunità rurali erano largamente estranee alla vita pubblica, pur esprimendo culture autonome e godendo spesso di autonomie locali relativamente cospicue, appare improponibile in una società sempre più interdipendente. Diventa invece necessario integrare le comunità locali in strutture amministrative nazionali, per poi diffondere tra i cittadini, portatori di diverse culture e tradizioni, il senso di appartenenza a una sola comunità storica e culturale. Va sottolineato che, pur tenendo conto delle notevoli differenze, problemi analoghi si ritrovano anche negli Stati sorti a seguito del processo di decolonizzazione. La natura spesso del tutto arbitraria dei nuovi confini, unita alla frammentazione culturale di molte società extraeuropee, ha infatti favorito, in Africa come in Asia, il moltiplicarsi dei potenziali di conflitto etnico, tribale o religioso. Possiamo ricordare a questo proposito, tra gli innumerevoli esempi, le persistenti tensioni tra induisti e musulmani nel subcontinente indiano, la sanguinosa guerra tra Yoruba e Ibo in Nigeria per la secessione del Biafra negli anni sessanta, l'annosa questione del Kurdistan (v. Smith, 1981; v. Horowitz, 1985).
Molto si è discusso della natura più o meno artificiosa degli Stati moderni. Alcuni hanno postulato una continuità tra le appartenenze etniche, culturali o religiose preesistenti e le nuove identità nazionali (v. Smith, 1987). Altri hanno invece sottolineato l'arbitrarietà dei riferimenti culturali di queste ultime e la natura 'immaginaria' dei nuovi legami sociali (v. Gellner, 1983; v. Anderson, 1983; v. Hobsbawm, 1990). Contro l'azione omogeneizzatrice dello Stato e l'imposizione della cultura del gruppo dominante all'intera comunità statuale si è spesso esaltata la resistenza delle minoranze culturali, ancorate al sangue e al suolo (v. Salvi, 1973 e 1975).
In realtà la dialettica tra la creazione dello Stato e l'emergere delle minoranze in qualità di soggetto sociale rappresenta soltanto un aspetto più generale del rapporto tra processi di modernizzazione, da un lato, e culture legate a elementi in qualche modo premoderni, dall'altro. Il modello culturale della modernità postulava infatti la natura regressiva e obsoleta dei sentimenti di appartenenza legati alla tradizione, alle comunità locali, alle lingue che non erano riuscite a imporsi come mezzo di comunicazione su larga scala, prevedendone al tempo stesso la graduale scomparsa. La diffusione dei principî universalistici, individualistici, orientati al risultato - che sono propri della società moderna - avrebbe inevitabilmente comportato la marginalizzazione delle identità particolaristiche e ascrittive e, quindi, la sostanziale assimilazione delle minoranze culturali (v. Lipset e Rokkan, 1967).
L'esperienza storica ha tuttavia largamente smentito queste aspettative, e non soltanto nei paesi extraeuropei. È infatti possibile individuare, per ciascuno dei principali indicatori di modernizzazione, alcuni fattori sociopolitici che contribuiscono al persistere di sentimenti di appartenenza di tipo culturale (v. O'Sullivan See e Wilson, 1988, pp. 236-237).L'industrializzazione ha sicuramente accelerato la fine delle comunità tradizionali, e ha favorito la mobilità territoriale e lo sviluppo dell'individualismo. Al tempo stesso, tuttavia, i mercati presentano spesso segmentazioni interne a base culturale o etnica, con fasce di consumo ben connotate; l'identificazione esplicita con una minoranza culturale può favorire in molti modi l'attività economica, facilitando ad esempio l'individuazione di specifici settori di mercato, il reperimento delle risorse necessarie all'attività imprenditoriale, o il reclutamento di una forza lavoro affidabile (v. Petrosino, 1991, cap. 3).
Un altro terreno sul quale le teorie della modernizzazione sono state almeno in parte smentite è quello dell'urbanizzazione. Questa non ha affatto decretato la scomparsa delle identità ascrittive preesistenti. Al contrario, le minoranze culturali si sono distribuite in modo non casuale nelle aree urbane, generando forme di segregazione territoriale; l'appartenenza a una minoranza ha offerto a persone sradicate dal loro ambiente originario l'opportunità di ricostruire sistemi ricchi e articolati di relazioni sociali, che hanno costituito a loro volta un canale importante di mobilità sociale.La diffusione dei mass media ha certamente favorito l'affermazione di modelli culturali artificiali e standardizzati. Al tempo stesso, tuttavia, la crescente circolazione di informazioni ha comunque facilitato la comunicazione tra gli appartenenti alle minoranze. Alla probabile assimilazione che sarebbe risultata dal loro isolamento si è spesso sostituita una maggiore consapevolezza della specificità dei gruppi minoritari e, quindi, un incentivo a una valorizzazione delle culture tradizionali.
Occorre poi considerare l'espansione dell'intervento dello Stato, sia sul piano economico che su quello prettamente solidaristico e assistenziale. Nel momento in cui l'allocazione delle risorse sociali è legata in misura sempre maggiore a considerazioni politiche piuttosto che di mercato, l'appartenenza a una minoranza può fornire un utile ed efficace criterio per la tutela degli interessi collettivi. Ciò sarà tanto più vero quanto più i gruppi di interesse a base culturale o etnica riusciranno a rappresentare la condizione del proprio gruppo sociale come soggetta a un'ingiusta deprivazione.
Infine, l'avvento della modernità ha favorito la diffusione dei principî democratici e di autodeterminazione, e proprio tali idee hanno spesso rappresentato la base per legittimare le aspirazioni alla costituzione di molti dei moderni Stati nazionali, contro il dominio degli imperi autocratici e coloniali. Ai medesimi valori hanno fatto tuttavia appello anche gli esponenti delle minoranze penalizzate all'interno delle nuove formazioni statali.
È allora plausibile sostenere che, ben lungi dal decretare la scomparsa delle minoranze culturali, la modernizzazione ha creato semmai le condizioni per una loro rivitalizzazione, se non addirittura per un loro emergere ex novo. Tale rivitalizzazione è solo in parte riconducibile alla capacità di resistenza dei sentimenti di appartenenza tradizionali. Piuttosto, le minoranze resistono nel lungo termine se combinano riferimenti culturali tradizionali con la capacità di definire nuovi interessi, fornire la base per nuovi legami, costituire nuove istituzioni o modificare quelle esistenti. Possiamo in altre parole individuare un ruolo razionale e non puramente affettivo-tradizionale dell'appartenenza minoritaria (v. ad esempio Hechter, 1982).
In una società complessa l'appartenenza etnica fornisce opportunità altrimenti negate a chi è privo di specifiche risorse individuali. Ciò è tanto più vero in fasi di trasformazione strutturale come quella attuale, in cui i precedenti criteri di identificazione degli interessi - in particolare quelli su base professionale o di classe - appaiono almeno in parte indeboliti. I legami di solidarietà culturale o etnica sembrano, ad esempio, assai più vitali dei legami di tipo professionale e lavorativo dopo la crisi della grande fabbrica e del modello di azione collettiva che essa ispirava.Nelle identità minoritarie attuali elementi propri della tradizione convivono e almeno in parte si integrano con idee, valori, stili di vita di origine moderna, mutuati da altre fonti. In alcuni casi il nesso tra identità di gruppo e pratiche tradizionali è largamente assente. Riferendosi in particolare alle generazioni più giovani delle minoranze etniche americane si è parlato di 'etnicità simbolica' per definire una situazione in cui l'appartenenza dichiarata a una certa comunità non solo non trova corrispondenza nel radicamento familiare in una specifica tradizione storica e culturale, ma arriva a essere scollegata da elementi ascritti distintivi. Ci si può ad esempio identificare con la comunità nera anche senza presentarne i tratti somatici, ma 'decidendo' invece di adottare almeno una parte del suo specifico sistema di simboli e di valori (v. Gans, 1979). La dimensione soggettiva dell'identificazione è resa più evidente dal fatto che, soprattutto nelle società multietniche, l'estrazione di molti individui è in realtà composita. La dichiarazione di appartenenza a un determinato gruppo riflette allora un accentuato processo di rielaborazione simbolica (v. Yinger, 1985, p. 158).
Le relazioni tra gruppi minoritari e gruppi dominanti possono variare da una globale discriminazione a un'ampia assimilazione. Si può parlare di tendenze assimilatrici ogni volta che le tradizioni culturali e le origini storiche di un certo gruppo cessano di rappresentare la base per comportamenti e/o orientamenti diversi da quelli della maggioranza della popolazione, e di determinare una distribuzione ineguale delle risorse sociali. Il modello forse più noto di assimilazione distingue a questo proposito sette componenti fondamentali: assenza di pregiudizio; assenza di discriminazione; assenza di conflitti sul potere e sui valori; integrazione; acculturazione; identificazione; amalgamazione (v. Gordon, 1975). Per integrazione si intende la distribuzione dei membri di una minoranza in tutta la gamma di associazioni, istituzioni e regioni di una certa società; per acculturazione, la corrispondenza tra norme, usi e valori di una certa minoranza e quelli della società complessivamente intesa; per identificazione, il fatto che i membri della minoranza si identifichino con la società nel suo complesso piuttosto che con la minoranza stessa; per amalgamazione, la scomparsa di differenze genetiche che siano socialmente visibili (v. Yinger, 1985).
Quando tutte queste condizioni sono soddisfatte diventa ovviamente privo di senso parlare di minoranze. Sono infatti assenti relazioni di dominazione, mentre le distinzioni culturali e storiche, pur presenti, non vengono percepite come elementi salienti di identificazione.Il massimo esempio di discriminazione è stato probabilmente, almeno nella seconda metà di questo secolo, quello del Sudafrica. Il sistema dell'apartheid si è fondato infatti su una relazione di dominio globale e di separazione anche fisica molto accentuata. In primo luogo si è avuta una netta separazione tra i diversi gruppi razziali sulla scala della ricchezza e dello status sociale. A essa è corrisposta la limitazione dei diritti politici alla minoranza bianca, nonché parzialmente ai gruppi etnici minori come gli asiatici. Anche la sfera privata è stata direttamente regolamentata dal sistema di segregazione, attraverso la rigida limitazione dei contatti personali tra i diversi gruppi razziali.
Con la sovrapposizione di tutte le varie possibili linee di discriminazione, il Sudafrica rappresenta un caso estremo di quello che si definisce un sistema gerarchico di stratificazione. È raro peraltro il ricorrere, perlomeno nelle democrazie occidentali contemporanee, di situazioni di questo tipo. Molto più frequenti sono infatti i casi in cui a un accesso discriminato a certe risorse sociali corrisponde una situazione di pari opportunità, se non di preminenza, su altri piani. Ad esempio, le minoranze basche e catalane nel regno di Spagna hanno certamente sofferto nel corso di questo secolo numerose limitazioni sul piano politico e culturale, mentre hanno occupato una posizione di preminenza sul terreno dello sviluppo economico.In realtà anche i gruppi minoritari presentano di solito una certa stratificazione interna rispetto a criteri quali la ricchezza, il potere o il prestigio. In tutti questi casi risulta conveniente, per analizzare le relazioni intergruppi, adottare modelli di tipo segmentato. In un modello segmentato i diversi gruppi culturali vengono concepiti non come strati, bensì come 'nicchie' all'interno di una data società. Naturalmente, la presenza di minoranze presuppone che le risorse e le ricompense sociali siano distribuite in modo disuguale tra le diverse nicchie. Vale a dire che in un sistema segmentato i gruppi minoritari saranno sottorappresentati negli strati più elevati della scala sociale e sovrarappresentati in quelli più bassi. E tuttavia, anche per i membri delle minoranze, vi saranno margini di autonomia e di mobilità che un sistema gerarchico rigido non contemplerebbe.
Le mobilitazioni per i diritti civili dei neri americani negli anni cinquanta e sessanta hanno certamente favorito lo sviluppo di una classe media al loro interno e incrementato le opportunità per i neri di occupare posizioni di rilievo nell'élite politica e culturale del paese (v. McAdam, 1982). È poi frequente il fenomeno di settori imprenditoriali con una origine etnica e culturale ben determinata, i quali non solo si collocano al vertice della loro comunità - da cui traggono, come si notava, specifiche risorse per l'azione economica - ma riescono a svolgere un ruolo anche nel sistema economico nel suo complesso (v. Aldrich e Waldinger, 1990).
La discriminazione nei confronti delle minoranze culturali può assumere svariate forme. Sul versante delle relazioni private l'appartenenza a una minoranza può operare nel senso di restringere il campo delle relazioni sociali, limitando quindi l'accesso alle opportunità (di status così come affettive) che queste offrono. Le opportunità di trovare un compagno al di fuori del proprio gruppo etnico sono estremamente limitate per gli appartenenti ai gruppi più deboli. Dati sui tassi di matrimoni interculturali negli Stati Uniti nei primi anni ottanta mostrano ad esempio un'incidenza del 2% per i neri, mentre le percentuali per i bianchi vanno dal 18% dei protestanti al 40% dei cattolici. Ciò avviene peraltro in un contesto in cui i contatti interrazziali sono in crescita presso le fasce più giovani della popolazione, così come in generale gli atteggiamenti favorevoli verso i matrimoni misti (v. Yinger, 1985, pp. 167 ss.).
L'accesso alle opportunità socioeconomiche per i diversi gruppi culturali si configura diversamente a seconda della presenza o meno di un legame tra minoranze e territorio. Là dove le minoranze sono associabili a un territorio specifico si è parlato spesso di 'colonialismo interno' (v. Hechter, 1974). L'espressione si riferisce a quelle situazioni in cui un gruppo dominante residente nelle aree centrali di un paese impone il suo potere sulle aree periferiche, sottoposte a una dominazione politica, economica e culturale. Il caso della Francia e delle sue regioni marginali come la Bretagna o l'Occitania, così come quello del Regno Unito e delle sue 'periferie' gallesi o scozzesi sono stati spesso interpretati alla luce di questo paradigma. Per minoranze prive di riferimenti territoriali (ad esempio quelle di colore in Gran Bretagna, i Turchi in Germania, o gli extracomunitari nel nostro paese) si è invece parlato di 'mercato del lavoro segmentato' (split labor market: v. Bonacich, 1972).
Secondo questa impostazione esisterebbero delle occupazioni - quelle meno prestigiose e meno garantite - riservate di fatto alle minoranze etniche e in genere ai gruppi meno inseriti nel sistema di cittadinanza.Il ruolo delle minoranze e delle loro rappresentanze organizzate varia notevolmente nei diversi sistemi politici (v. Gordon, 1975). È pressoché nullo in sistemi 'razzisti', dove la capacità di azione è ristretta al gruppo dominante. È molto basso peraltro anche in sistemi 'assimilazionisti'. Essi non prevedono la possibilità di una presenza di partiti e altre organizzazioni su base etnica e culturale, mentre riconoscono ai membri delle minoranze gli stessi diritti individuali attribuiti al resto della popolazione. Sistemi di 'pluralismo liberale' ammettono invece anche lo svolgimento di attività politiche e associative specifiche da parte dei gruppi minoritari. Manca però un riconoscimento istituzionale di organizzazioni e agenzie orientate alla tutela delle minoranze. L'autonomia dell'azione di queste ultime è invece massima in sistemi di 'pluralismo corporativo'. Al loro interno sono legittimate, oltre che associazioni volontarie e attività politiche, anche specifiche istituzioni per ciascun gruppo; la ripartizione delle risorse sociali avviene tenendo conto dell'esigenza di tutelare in misura adeguata tutti i gruppi e le minoranze riconosciuti, ed è commisurata all'incidenza di ognuno di essi. A questa filosofia è ispirata ad esempio la struttura istituzionale del Belgio, dove organizzazioni politiche e istituzioni sono 'sdoppiate' nella comunità francofona e in quella fiamminga. Oppure, il sistema di proporzionale etnica vigente nel Sudtirolo, che distribuisce le posizioni pubbliche tra gli appartenenti ai vari gruppi linguistici in misura proporzionale alle dimensioni degli stessi. Al modello del 'pluralismo liberale' si avvicina invece ad esempio la situazione olandese, dove i vari gruppi religiosi dispongono di una rappresentanza autonoma, senza però che questo incida direttamente sulla configurazione istituzionale e sulla distribuzione delle risorse.
Nei casi in cui alla specificità culturale corrisponde un determinato territorio può verificarsi l'insorgere di conflitti a base etnico-nazionale o comunque regionalista. A partire dagli anni sessanta essi hanno registrato una significativa ripresa in tutte le democrazie occidentali (v. Smith, 1981; v. Keating, 1988; v. Melucci e Diani, 1992). La diffusione delle mobilitazioni è stata facilitata da una serie di condizioni favorevoli: l'attenuarsi, dapprima, e poi la fine della guerra fredda; l'indebolimento degli allineamenti politici tradizionali, incentrati sul conflitto destra/sinistra; l'emergere di forme di governo sovranazionali come la Comunità Europea; la ridotta capacità degli Stati nazionali di gestire le contraddizioni interne (v. Melucci e Diani, 1992, cap. 3). Gli obiettivi delle mobilitazioni etno-nazionaliste riguardano peraltro con sempre minore frequenza la costruzione di nuovi Stati nazionali completamente autonomi secondo il modello ottocentesco; sempre più spesso esse mirano invece alla concessione di ampie autonomie, oppure, eventualmente, al rafforzamento di ipotesi confederative nell'ambito di organismi sovranazionali (v. Keating e Jones, 1985).
Abbiamo più volte sottolineato il rapporto che sussiste - in particolare, ma non esclusivamente - in Occidente tra minoranze culturali e costruzione dello Stato nazionale. Quest'ultima è infatti da interpretarsi come un processo che al tempo stesso le 'costituisce', rendendole salienti, e le minaccia. Un aspetto importante di tale processo consiste nella costruzione della cittadinanza moderna (v. Marshall, 1963). L'interesse delle mobilitazioni delle minoranze culturali nel mondo contemporaneo sta anche nella difficoltà di interpretarle alla luce delle ipotesi più consolidate sulla cittadinanza.
I modelli classici di cittadinanza erano stati elaborati in rapporto al problema dell'integrazione delle masse popolari e in particolare della classe operaia nei sistemi democratici. Essi si riferivano d'altro canto a comunità politiche monoculturali, o comunque le presupponevano. Si trattava allora in primo luogo di incorporare fasce crescenti di cittadini in un sistema di pieni diritti, e al tempo stesso di allargare la sfera dei diritti, da quelli civili a quelli politici e infine a quelli sociali. Si puntava, cioè, all'allargamento delle opzioni riservate ai cittadini, prescindendo dalle loro caratteristiche culturali e dalle loro origini. Queste prospettive assumevano più o meno esplicitamente l'esistenza di un solo modello di società desiderabile e conseguentemente la possibilità di definire una sfera di diritti omogenei e universalistici.
La ripresa, a partire dagli anni sessanta, di mobilitazioni a base etnica e culturale, comprese quelle a tutela di 'nuovi' soggetti con una forte identità specifica, come le donne o gli omosessuali, ha messo in discussione tra gli altri anche questo presupposto. Ad esempio, nelle strutture dello Stato sociale è emersa con chiarezza la difficoltà di coniugare i principî universalistici che informavano la gestione e l'erogazione dei servizi con le domande provenienti da gruppi culturali sempre più eterogenei. Si pensi alle diverse modalità per affrontare la gravidanza e il parto nelle diverse culture, e ai problemi che tali differenze possono porre per le strutture ospedaliere; oppure, più in generale, ai problemi derivanti dalle incompatibilità tra alcune pratiche della medicina occidentale e le convinzioni religiose di molti pazienti di origine non occidentale (v. Cuzzolaro, 1993). Analoghe difficoltà si sono presentate nel settore dell'istruzione, con l'inasprirsi per molti studenti del confronto tra il modello culturale occidentale e quelli trasmessi dalle famiglie di appartenenza (v. Schmidt di Friedberg, 1993; v. Favaro, 1993).
Più in generale si è rafforzata negli ultimi decenni la tensione tra quello che è stato definito 'diritto alle opzioni' e quello che invece si può chiamare 'diritto alle radici' (v. Rokkan e Urwin, 1982; v. Petrosino, 1991; v. Melucci e Diani, 1992; v. Canciani e De La Pierre, 1993). Il primo è vicino alla nozione classica di cittadinanza e insiste sull'espansione delle opportunità disponibili per il cittadino in quanto individuo. Il secondo pone invece l'accento sulla pratica delle differenze, vale a dire sulla valorizzazione di modelli culturali, stili di vita e orientamenti che non sono sempre congruenti con quelli del gruppo culturale dominante in una certa società. Il rilievo dato alla specificità culturale e linguistica permette allora di porre in relazione il passato e la memoria del gruppo con una pratica sociale che non vuole - o non può - conformarsi ai modelli di cittadinanza universalistica propri dello Stato-nazione.
D'altro canto, se i confini etnici offrono un criterio per ancorare l'identità a una comunità morale positiva, e quindi per differenziarsi da altri gruppi sociali e contrastare tendenze omologatrici certo presenti (v. O'Sullivan See e Wilson, 1988, p. 226), una spinta esasperata verso il relativismo non è scevra di problemi (v. Gellner, 1992; v. Taylor, 1992). In alcuni casi il confronto tra modelli culturali può infatti investire visioni del mondo non solo diverse, ma difficilmente compatibili (si veda ad esempio il ruolo della donna, definito da molte culture non europee in forme certo distanti da quelle prevalenti in Occidente). Ci si trova allora di fronte a un dilemma delicato (v. Yinger, 1985, p. 173): da un lato, la volontà anche sincera di garantire alle minoranze piena cittadinanza può tradursi in una spinta assimilatrice, e quindi nella perdita di un patrimonio culturale autonomo e importante; dall'altro, l'assunzione di una prospettiva relativista e pluralista può invece favorire la persistenza di valori e stili di vita considerati nelle società occidentali ingiusti e lesivi dei diritti umani.
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