Minoranze nazionali
(App. II, ii, p. 327; III, ii, p. 127; V, iii, p. 495; v. minoranza, XXIII, p. 404)
Il concetto di minoranze nazionali viene generalmente adottato per definire - attraverso dati di carattere storico e con riferimento a tradizioni, costumi, vicende politiche - quei gruppi demici presenti nel territorio di uno Stato non coincidenti con la prevalente comunità o con la maggioranza etnico-linguistica che lo compone. Tale concetto, infatti, può essere identificato, pur nella difficoltà di pervenire a una nozione di carattere generale, secondo quanto stabilito dagli Stati dell'Iniziativa centro-europea, riunitisi a Roma nel 1994, in quello di "un gruppo che è più piccolo numericamente rispetto al resto della popolazione, i cui membri, fatti cittadini dello Stato, sono portatori di valori etnici, religiosi o linguistici, differenti da quelli del resto della popolazione, e sono spinti a salvaguardare la loro cultura, le loro tradizioni, la loro religione e la loro lingua".
Il Comitato dei diritti dell'uomo - istituito come organo di controllo dell'applicazione delle disposizioni del Patto internazionale sui diritti politici e civili da parte degli Stati contraenti, che non ha dato una definizione precisa delle m. n., limitandosi a considerare quelle caratterizzabili come minoranze etniche, linguistiche, religiose - ha evidenziato taluni connotati che un gruppo deve presentare per essere qualificato come minoranza. Secondo il Comitato, per appartenere a una minoranza non è requisito necessario la cittadinanza dello Stato in cui è garantito il diritto alla protezione, né è condizione per l'esistenza di una minoranza un periodo di permanenza sul suo territorio, mentre, riscontrandosi caratteristiche di identità culturale, linguistica, religiosa, ai lavoratori migranti o ai residenti temporanei può essere riconosciuto lo status di appartenenti a una minoranza ai sensi dell'art. 27 del Patto ("negli Stati in cui esistono minoranze etniche, religiose o linguistiche, alle persone appartenenti a tali minoranze non sarà negato il diritto, in comunione con gli altri membri del loro gruppo, di godere della loro cultura, di professare e praticare la loro religione, o di utilizzare la loro lingua"). La Dichiarazione sui diritti delle persone appartenenti a minoranze nazionali, etniche, linguistiche, culturali e religiose, adottata il 18 dicembre 1992 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha stabilito che l'attribuzione di diritti politici agli appartenenti a gruppi minoritari (partecipazione a livello nazionale o locale alle decisioni che li riguardano) è connessa all'acquisizione della cittadinanza dello Stato dove risiedono.
Una posizione differenziata, rispetto alle tendenze comunemente accolte, è quella assunta, inoltre, dal Comitato dei diritti dell'uomo in ordine all'attribuzione ai popoli indigeni dello status di minoranza, sulla base del riconoscimento del diritto a godere della loro cultura e a vivere in forme particolari connesse all'uso delle risorse del territorio attraverso attività tradizionali (caccia e pesca).
Con il crollo dei regimi comunisti nell'Europa centro-orientale grande attualità ha assunto il problema della creazione di un preciso sistema di protezione delle m. n., sia sul piano interno sia su quello internazionale, per l'emergere di identità minoritarie a lungo soffocate dai totalitarismi del passato e spesso sostenute da ideologie nazionalistiche, pericolose per la pace e la tranquillità in Europa. Di fronte a ciò sono però mancati orientamenti comuni e strumenti univoci di tutela delle minoranze da parte degli Stati dell'Europa occidentale non in grado di offrire in tal senso un'azione unitaria. Così i documenti prodotti dalla Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE) tra il 1990 e il 1991 non hanno sortito effetti rilevanti, ed è stato demandato al Consiglio d'Europa di predisporre un'organica normativa internazionale di tutela delle minoranze nazionali. L'alto consesso europeo il 1° febbraio 1995 ha adottato il testo di una Convenzione quadro, firmata da un primo gruppo di paesi a esso aderenti, tra cui l'Italia (che l'ha ratificata con l. 28 ag. 1997 nr. 302), di contenuto normativo eminentemente programmatico, i cui precetti richiedono un'opera di concretizzazione e di svolgimento da parte degli Stati interessati, sulla base delle diversità dei gruppi minoritari presenti in ciascuno di essi. Caratteristica di tale orientamento è la mancanza nell'ambito di questo testo della nozione di m. n., frutto di un approccio pragmatico al problema che permette di estendere con ampia discrezionalità le norme della tutela tanto alle m. n. tradizionali, cioè a quelle composte da cittadini che non si riconoscono nella comunità nazionale maggioritaria, quanto alle cosiddette nuove minoranze, ossia a quelle costituite da lavoratori immigrati o da rifugiati, sulla base di un'innovativa elaborazione del fenomeno minoritario recentemente approntata dall'ONU.
La Convenzione quadro non prende direttamente in considerazione i gruppi minoritari in quanto tali, bensì pone obbligazioni di protezione che riguardano soltanto la posizione dei singoli che li compongono, con riferimento, quindi, alla tutela dei diritti individuali. Questo nuovo strumento si inquadra, infatti, nel sistema internazionale di protezione dei diritti umani. Un elemento rilevante che la normativa convenzionale prende in considerazione è quello della lingua delle m. n., differenziata da quelle alle quali è dedicata la Carta delle lingue regionali e minoritarie, emanata dal Consiglio d'Europa nel novembre 1992, e riconosciuta come lingua d'uso pubblico e privato degli appartenenti alla comunità minoritaria. Affermato il principio di uguaglianza di fronte alla legge e di uguale protezione della legge, la Convenzione sancisce il divieto di ogni azione finalizzata all'assimilazione forzata degli appartenenti ai gruppi minoritari e proibisce ogni discriminazione fondata sull'appartenenza nazionale ma, al contempo, opera nel senso di evitare che la tutela possa dare vita a una condizione di separazione tra i componenti della comunità minoritaria e quella maggioritaria. Ponendosi come elemento integrante del sistema internazionale dei diritti dell'uomo, la normativa convenzionale prevede inoltre il reciproco riconoscimento della sovranità degli Stati firmatari e persegue l'obiettivo di un'attiva cooperazione in materia attraverso accordi bilaterali o multilaterali tra essi (per es., adottando misure di cooperazione transfrontaliera per permettere ai gruppi minoritari di stabilire liberi contatti con altre comunità presenti in altri Stati con le quali condividono un'identità comune).
Nell'ambito degli organismi internazionali preposti a tutelare i gruppi minoritari va segnalata la trasformazione, avvenuta nel 1995, della CSCE in Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), alla quale hanno aderito gli Stati europei, gli Stati Uniti e il Canada, gli Stati dell'Asia centrale, già facenti parte dell'Unione Sovietica, l'Andorra, recentemente ammessa, per un totale di cinquantaquattro Stati, cui si deve aggiungere la Repubblica Federale di Iugoslavia (Serbia-Montenegro), che è stata teatro di un nuovo conflitto interetnico nel Kosovo.
Dopo la promulgazione nel 1990 della Carta di Parigi per una nuova Europa (con la quale la CSCE ribadiva quanto stabilito dall'Atto finale di Helsinki, 1975), nella riunione di Copenaghen dello stesso anno, in conseguenza dei profondi mutamenti politici verificatisi in Europa, venivano assunti due fondamentali principi: 1) le questioni relative alle m. n. debbono essere risolte soltanto all'interno di un quadro politico fondato sullo stato di diritto; 2) il rispetto delle persone appartenenti alle m. n. - con riferimento cioè alla cosiddetta dimensione umana, elaborata dal documento di Vienna del 1989 - costituisce un fattore essenziale per la pace, la stabilità e la democrazia degli Stati.
Nella formulazione di queste previsioni un'iniziativa politicamente rilevante veniva assunta dalla delegazione italiana, che sottolineava l'incisività del problema delle minoranze nelle complesse vicende politiche europee, seguita nelle sue affermazioni da altre delegazioni (Austria, Iugoslavia, Ungheria e Cecoslovacchia) che costituivano, insieme all'Italia, la cosiddetta Pentagonale, successivamente trasformatasi in Iniziativa centro-europea e divenuta, dopo l'aggregazione della Polonia, Esagonale. Pur non riuscendo a trovare un'attuazione concreta, la proposta depositata dalla Pentagonale presentava contenuti innovativi in riferimento non solo alla necessità di ampliare la sfera di diritti, libertà e garanzie da riconoscersi agli appartenenti alle m. n., ma all'esigenza di affermare il principio secondo cui "le minoranze nazionali hanno diritto di essere riconosciute come tali dagli Stati nei quali esse vivono ed esistono come comunità", cioè adottando un sistema di "diritti collettivi generalmente protetti".
Successivamente, nel 1991, la CSCE nel Documento di Ginevra affermava la legittimità del controllo internazionale sulla condizione delle minoranze presenti nei vari paesi e formulava importanti previsioni in ordine agli impegni di tutela reiteratamente dichiarati, come la raccomandazione a far partecipare gli appartenenti a m. n. alla gestione degli affari pubblici, la necessità di garantire senza alcuna discriminazione i diritti e le libertà dei gruppi minoritari. Questo documento prestava, inoltre, una particolare attenzione ai problemi delle popolazioni Rom, costituite da diversi milioni di persone e presenti in comunità disperse in venticinque Stati europei, negli Stati della CSI e in Turchia (le comunità più consistenti sono dislocate in Slovacchia, in Ungheria, Bulgaria, Romania e nella ex Iugoslavia); i Rom, pur desiderosi di un riconoscimento politico e sociale da parte degli organismi internazionali, sono profondamente divisi da conflittualità interne ai vari gruppi. In seguito, nei loro confronti il Consiglio d'Europa e l'OSCE hanno fissato programmi di assistenza socioculturale. Nella terza riunione della CSCE svoltasi a Mosca negli ultimi mesi del 1991 sono stati reiterati gli impegni e le disposizioni contenuti nei documenti di Copenaghen e di Ginevra.
Di rilevante importanza è stata l'istituzione, decisa nella riunione di Helsinki del 1992, dell'Alto commissariato per le minoranze, inquadrato nell'ambito della diplomazia preventiva, con il compito di individuare le aree di crisi e di prevenire, appunto, situazioni conflittuali coinvolgenti le m. n. in grado di alterare la stabilità politica di regioni del continente europeo, specialmente dopo i rivolgimenti del 1989. Non vincolati giuridicamente dalle raccomandazioni o dalle proposte dell'Alto commissariato, gli Stati non ottemperanti si trovano, però, nella condizione di dover affrontare un giudizio politico davanti all'OSCE e all'opinione pubblica internazionale. Dal 1993 l'Alto commissariato ha svolto la sua intensa attività diplomatica soprattutto nelle repubbliche baltiche, in Kazakistan, in Kirghizistan (relativamente al trattamento delle comunità russofone in essi presenti per il forte risentimento verso gli antichi dominatori russi), in Ucraina, in Ungheria, in Romania, in Slovacchia, in Macedonia, in Albania.
In Italia la legge 15 dicembre 1999 nr. 482 ha dettato le norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche, dando per la prima volta attuazione organica alla disposizione dell'art. 6 della Costituzione, in armonia con i principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali. È stato in primo luogo affermato nell'art. 1 della legge il principio che la Repubblica non solo è tenuta a valorizzare il patrimonio linguistico e culturale della lingua italiana (che è la sua lingua ufficiale), ma deve anche promuovere la valorizzazione delle lingue e culture tutelate. Queste ultime sono specificamente indicate nell'art. 2 e sono quelle delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e delle popolazioni parlanti il francese, il franco provenzale, il friulano, il ladino, l'occitano e il sardo.
La delimintazione dell'ambito territoriale e subcomunale in cui si applicano le disposizioni di tutela è adottata dal consiglio provinciale, sentiti i comuni interessati, su richiesta di almeno il 15% dei cittadini iscritti nelle liste elettorali e residenti nei comuni stessi, o di un terzo dei consiglieri comunali, ovvero qualora la popolazione residente si sia favorevolmente pronunciata attraverso una consultazione promossa secondo i rispettivi statuti e regolamenti comunali. Le minoranze linguistiche distribuite su territori provinciali o regionali diversi possono costituire organismi di coordinamento e di proposta, che gli enti locali hanno facoltà di riconoscere. In Italia, le minoranze linguistiche, formate da oltre 2.000.000 di persone che parlano le lingue protette, sono così ripartite: 90.000 franco-provenzali (Aosta, Torino, Foggia); 20.000 francofoni (Valle d'Aosta); 178.000 occitani (Cuneo, Torino, Imperia, Cosenza); 18.000 catalani (Alghero, Sassari); 1.269.000 sardi (Sardegna); 55.000 ladini (Belluno, Trento, Bolzano); 70.000 sloveni (Trieste, Gorizia, Udine); 290.000 altoatesini di lingua tedesca (Bolzano); 526.000 friulani (Friuli); 2000 carinziani (Udine); 1400 carnici (Belluno); 2600 croati (Molise); 20.000 greci (Reggio Calabria, Lecce); 98.000 albanesi (Calabria, Puglia, Sicilia, Molise, Abruzzo).
Nei comuni in cui trovano applicazione le disposizioni di tutela l'educazione linguistica deve prevedere, accanto all'uso della lingua italiana, anche l'uso della lingua della minoranza per lo svolgimento delle attività educative nella scuola materna e come strumento di insegnamento nelle scuole elementari e secondarie di primo grado. Al momento della preiscrizione i genitori sono tenuti a comunicare alla istituzione scolastica interessata se intendono avvalersi per i propri figli dell'insegnamento della lingua della minoranza. In particolare, i membri dei consigli comunali e degli altri organi a struttura collegiale dell'amministrazione possono usare, nell'attività degli organismi medesimi, la lingua ammessa a tutela; tale disposizione si applica anche ai consiglieri di comunità montane, province e regioni, nel cui territorio i comuni sopra individuati costituiscano il 15% della popolazione interessata. Negli uffici delle amministrazioni pubbliche - escluse le forze armate e le forze di polizia dello Stato - e nei procedimenti davanti al giudice di pace è consentito l'uso orale e scritto della lingua ammessa a tutela. In aggiunta ai toponimi ufficiali i consigli comunali possono deliberare l'adozione di toponimi conformi alle tradizioni e agli usi locali, mentre ai cittadini, ai quali in passato era stato impedito l'uso del cognome originario o del nome nella lingua della minoranza, è riconosciuto il diritto di ripristinarli nella forma originaria. Inoltre le regioni interessate possono stipulare convenzioni con la società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo e accordi con emittenti locali per trasmissioni giornalistiche o programmi nelle lingue ammessa a tutela.
Le regioni a statuto ordinario devono adeguare nelle materie di propria competenza la propria legislazione ai principi stabiliti dalla nuova legge, fatte salve le condizioni più favorevoli per le minoranze che siano già previste. Nelle regioni a statuto speciale l'applicazione di disposizioni più favorevoli previste dalla legge deve essere disciplinata con norme di attenzione dei rispettivi statuti (restano comunque ferme le norme di tutela già esistenti in tali regioni e nelle province di Trento e Bolzano).
Per la tutela delle minoranze italiane all'estero è stato recentemente ratificato, con la legge 23 aprile 1998 nr. 129, il trattato stipulato il 5 novembre 1996 tra l'Italia e la Repubblica di Croazia.
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