Minotauro
Essere mitologico, nato nell'isola di Creta dall'accoppiamento mostruoso di Pasife con il toro sacro a Poseidone.
Per nascondere quello che Ovidio chiama " opprobrium generis " (cioè l'infamia della famiglia) che orribilmente testimoniava il " foedum... / matris adulterium monstri novitate biformis " (Met. VIII 155-156, imitazione di Virgilio Aen. VI 25 ss.), Minosse lo racchiuse nel labirinto costruito da Dedalo, dove lo faceva nutrire di carne umana, finché Teseo giunse fino a lui orientandosi nel labirinto con il filo di Arianna e lo uccise.
Il mito del M. è riferito da numerosi mitografi: fra i latini cfr. per es. Igino Fab. 40; Myth. Vatic. I 43; Myth. Vatic. II 126; Myth. Vatic. III 11, 7; Lattanzio Placido ad Ach. I 192; Servio ad Aen. VI 24; ecc. Frequenti sono anche le allusioni dei poeti classici, fra i quali particolarmente presenti alla memoria di D. possono considerarsi Virgilio Buc. VI 46 ss. e Aen. VI 25-26 " Mixtumque genus prolesque biformis / Minotaurus... Veneris monumenta nefandae "; Ovidio Met. VIII 152 ss.; ecc. (per altri rinvii v. oltre).
Nell'Inferno dantesco l'infamia di Creti è distesa all'estremità dello scoscendimento donde si accede dal sesto al settimo cerchio e all'apparire di D. e della sua guida morde sé stesso sì come quei cui l'ira dentro fiacca. Virgilio, facendo mostra di rassicurarlo avvertendolo che colui che si avvicina non è il suo uccisore Teseo, ne spinge al parossismo la furia bestiale, sì che mentre il M., accecato dal furore, si agita dissennatamente, i poeti passano oltre indisturbati (If XII 11-30).
L'episodio solleva essenzialmente due problemi. Il primo, di minore rilievo, riguarda l'aspetto del mostro quale D. lo concepì; l'altro, più complesso, attiene al compito e al significato assegnati al M. nella topografia morale dell'Inferno. Il fatto che il M. sia raffigurato disteso sulla rotta lacca (vv. 11-12) e che i suoi ciechi movimenti siano paragonati a quelli di un toro che sfugga ai lacci proprio mentre riceve il colpo mortale (vv. 22-24, sulla scia di una famosa comparazione di Virgilio Aen. II 223-224), ha fatto pensare che D. immaginasse il mostro come un toro dalla testa umana, simile per conformazione generale agli altri demoni posti a custodire i violenti, cioè i centauri e le Arpie. In effetti sebbene i reperti archeologici confermino che in antico il M. era concepito come un uomo con testa taurina, alcune delle testimonianze letterarie note a D. fornivano indicazioni ambigue (luogo topico Ovidio Ars am. II 24 " Semibovemque virum, semivirumque bovem "), che potevano essere interpretate in un senso o nell'altro, come appare di fatto nella documentazione, anche iconografica, medievale e nell'esegesi dei commentatori trecenteschi della Commedia. Tuttavia la nozione vulgata, accolta nei manuali di più ovvia consultazione, era che nel M. " caput fuit taurinum, per cetera homo fuit " (così Papias, riecheggiato da Giovanni Balbi); d'altronde i dati offerti dal testo dantesco non sono incontrovertibili e il paragone con il toro non allude necessariamente a un corpo taurino perché in Virgilio lo stesso paragone era riferito all'umanissimo Laocoonte. Manca perciò la certezza assoluta che per D. il M. avesse struttura corporea analoga a quella degli altri custodi dei violenti e vien meno di conseguenza un elemento di qualche peso circa il rapporto tra il M. e il peccato del settimo cerchio: peccato che è propriamente malizia di cui ingiuria è 'l fine perseguito con forza (cfr. If XI 22-24).
I commentatori antichi in genere vedono simboleggiate nel M., secondo le parole del Buti, " le tre spezie della violenza procedente da malizia o da bestialità ", e quindi lo considerano custode del settimo cerchio nel suo complesso (così come, ad esempio, Gerione custodisce l'intero ottavo cerchio ed è insieme imagine della frode).
Alcuni dantisti moderni, però, hanno creduto d'inferire dalla descrizione del M. quale essere furioso privo di ogni lume d'intendimento una diversa intenzione di D., ritenendo che il comportamento del mostro mal risponda alla definizione della violenza data nel canto XI e quindi non si addica alla funzione di custode del settimo cerchio; il Sapegno ad esempio ritiene che il M. sia " il guardiano, non di un cerchio, ma della ruina, per cui si scende a tutto il basso Inferno ". Del resto negando uno stretto rapporto fra il M. e i violenti si apre la via a interpretazioni ingegnose e diverse del suo presunto significato simbolico, come quella del Ferretti (ricordata e giudicata arbitraria dal Sapegno) secondo cui il M. sarebbe simbolo della bestialità degli epicurei.
In tali problematiche incertezze a noi non sembra opportuno scostarsi dall'esegesi comune, e crediamo convenga accettare l'interpretazione del M. come equivalente delle altre entità demoniache poste a custodia liminare dei singoli cerchi e delle loro partizioni, in un rapporto simbolico, suggerito dalla tradizione o dal mito, con le colpe che vi sono rispettivamente punite. Invero nel caso del M. manca un antecedente negl'Inferi virgiliani, dove esso non compare né come custode né come mostro infernale; inoltre presso i mitografi non sembra vi sia un'interpretazione morale del M. nel senso poi accolto da D., cioè quale simbolo della violenza. Ma anche senza supporre che D. s'ispirasse a una diversa tradizione medievale a noi mal nota, appare sufficiente a spiegare la concezione del M. custode del settimo cerchio il fatto che la scelta (ben motivata questa da antecedenti classici) di Minosse quale ministro infernale di giustizia distributiva poteva ragionevolmente comportare l'assunzione sul medesimo piano demoniaco, quale simbolo di un peccato che tende all'ingiuria (cioè all'ingiustizia) come a suo fine, dell'essere che nel mito e specie nei versi di Ovidio, cui D. si è indubbiamente ispirato, è posto a contrasto e a scorno (" opprobrium ", infamia) del giusto re di Creta.