MIRADORI, Luigi detto il Genovesino
– Le scarse notizie sulle origini del M. non consentono di stabilire con esattezza la data e il luogo della sua nascita. È plausibile che sia nato nel primo decennio del Seicento a Genova. L’identificazione del luogo si può basare sul fatto che lo stesso M. era solito firmare i suoi quadri aggiungendo al nome l’aggettivo «januensis». Risulta invece impossibile, allo stato attuale delle conoscenze, definire la sua educazione pittorica e stabilire una relazione sicura con una delle botteghe attive a Genova in quello scorcio di secolo.
La prima notizia d’archivio risale al 1627, anno in cui il M. sposò a Genova Gerolama Venerosi, da cui ebbe una figlia di nome Caterina, morta prematuramente (Bellingeri, 2009, p. 11). Nel 1630 il nome del M. ricorre tra i cittadini tassati per le opere di fortificazione della città: dall’esigua somma della sua quota, 12 lire, si deduce che egli non aveva ancora un’attività affermata (Alfonso). In effetti, sono solo due le opere che si possono legare al periodo genovese: il S. Sebastiano curato da s. Irene del convento cappuccino della Ss. Annunziata di Portoria e la Suonatrice di liuto di palazzo Rosso a Genova, che in realtà è una variante sul tema della Vanitas.
Entrambe le opere, ancora acerbe nell’impostazione chiaroscurale e nel disegno, sono interessanti per valutare le matrici culturali della sua formazione: sono infatti evidenti i debiti verso la cultura caravaggesca, introdotta a Genova da Orazio Gentileschi e Simon Vouet, e le suggestioni di artisti locali, in particolare di Giovanni Andrea De Ferrari e Bernardo Strozzi.
Nel settembre del 1632 nacque a Piacenza – città in cui il M. doveva essersi trasferito poco prima (Fiori, 1970) – il secondogenito Giacomo, destinato a seguire il padre nell’arte della pittura.
I motivi che spinsero il giovane M. a lasciare Genova sono ancora poco chiari: forse si mosse insieme con i tanti genovesi che arrivarono in Lombardia nel 1631 dopo la cessazione della peste; oppure, seguì il consiglio del mercante e letterato Bernardo Morando, che fu chiamato a guidare la filiale piacentina della ditta di famiglia e che avrebbe commissionato al M. due dipinti, oggi irreperibili: un Miracolo di s. Nicola per la chiesa di S. Nicolò dei Cattanei e una pala per l’oratorio di S. Franca a Pittolo (Bellingeri, 2007, p. 15).
Negli anni successivi il M. ebbe altri due figli, morti pochi giorni dopo la nascita: nel 1634 Angela Nicoletta e nel 1635 Giovanni Battista. Sempre nel 1635 il M. dovette perdere anche la moglie Gerolama, perché in settembre sposò in seconde nozze Anna Maria Ferrari, figlia di un genovese (ibid., p. 67). Non rimangono sue opere documentate eseguite a Piacenza.
Solo per suggestioni stilistiche si possono datare a quegli anni due tele della Galleria nazionale di Parma, la prima raffigurante una scena di sacrificio, forse Aronne che ferma la peste, la seconda l’Adorazione dei magi; quest’ultima, tuttavia, di collocazione cronologica tutt’altro che sicura per la maniera pittorica preziosa e compatta che si distacca da quella più corsiva dell’Aronne. È degna di nota, nell’Adorazione, la ripresa della composizione da un’incisione di Hendrick Goltzius: il ricorso alle stampe sarà una costante del processo creativo del Miradori. In ogni modo il periodo piacentino fu davvero infelice per il susseguirsi delle disgrazie familiari, e poco fortunato sotto il profilo professionale, tanto che intorno al 1635 il M. si spinse a rivolgere una supplica alla duchessa di Parma e Piacenza, Margherita de’ Medici, per chiederle il permesso di lasciare i territori farnesiani a causa della mancanza di commissioni (Bellingeri, 2004, p. 12).
Subito dopo il M. si trasferì a Cremona, dove i documenti lo attestano residente fin dal gennaio del 1637, quando fu battezzata la figlia Felice Antonia, che fu pure pittrice (ibid., p. 41).
Sulla scelta di Cremona può aver avuto un ruolo decisivo ancora una volta Bernardo Morando, che intratteneva contatti e interessi commerciali con questa città.
Eppure Cremona viveva in quegli anni un momento molto difficile: la peste e la crisi economica avevano falcidiato la popolazione; le campagne erano incolte, perché attraversate da truppe in guerra spagnole, francesi e sabaude. Anche lo stato dell’arte era piuttosto depresso: tra gli stanchi e impersonali ripetitori dei Campi o del tardo manierismo di G.B. Trotti (detto il Molosso) e di A. Mainardi (detto il Chiaveghino), come Stefano Lambri e Giovan Battista Tortiroli, si distingueva il solo Pietro Martire Neri, allievo a Mantova di D. Fetti e amico di D. Velázquez.
Per altri versi, fu proprio la mancanza di una reale concorrenza in Cremona a permettere al M. di trovare lì il suo ubi consistam. Il 5 maggio 1639 il M. fece battezzare la figlia Elisabetta. Nel mese di dicembre acquistò la casa dove avrebbe preso stabile residenza, situata nella contrada di S. Clemente in Gonzaga (ibid., p. 41). La sua prima opera documentata a Cremona è una pala, perduta, raffigurante l’Adorazione dei magi, commissionata poco prima del 1639 dall’abate Melchiorre Aimi per l’altare dei magi nella chiesa carmelitana di S. Bartolomeo (Bellingeri, 2007, p. 16). È invece ancora ben visibile la Sacra Famiglia del Museo civico di Piacenza (in deposito presso l’Istituto Gazzola), firmata e datata 1639.
La tela è opera di un artista ormai formato: ricordi manieristi, soprattutto nella figura della Vergine, si combinano con insistenze grafiche derivate dalle incisioni nordiche, mentre i conigli in primo piano mostrano il suo interesse per la pittura di genere.
Nel 1640 il M. dipinse una grande tela per la parrocchiale dei Ss. Filippo e Giacomo di Castelleone, la Madonna del Carmine con i ss. Maria Maddalena, Margherita, Filippo e Giacomo.
L’iscrizione in basso riporta la data, il nome dell’artista e quello della committente, Margherita Clerici, vedova di Giovan Battista Bossi, che era stato segretario del magistrato straordinario di Milano.
Nel 1641 nacque un altro figlio, Angelo Maria, e altri figli videro la luce negli anni seguenti: Francesco Antonio nel 1642, Anna Maria Maddalena nel 1643, Maddalena Rosanna nel 1646, Angela Caterina nel 1649, tutti battezzati nella stessa chiesa. Nel marzo del 1642 il M. riscosse il residuo della dote della prima e della seconda moglie, per un totale di 400 ducati d’oro. In novembre diede procura alla sorella Agnese, residente a Genova, per la riscossione di prestiti ereditati da una zia, Anna Miradori, procura rinnovata nell’ottobre dell’anno successivo (Bellingeri, 2004, pp. 41 s.).
Frattanto il M. lavorava per gli olivetani di S. Lorenzo, dipingendo nel 1642 la Nascita della Vergine, firmata, e la Decollazione di s. Paolo, firmata e datata, entrambe nel Museo civico di Cremona.
Nella Decollazione, come recita onestamente la scritta «ex centensis inventione adulterata», il M. si è rifatto a una stampa del perduto Martirio di s. Giacomo del Guercino (G.F. Barbieri), un tempo nella chiesa di S. Prospero a Reggio Emilia. Del 1642 sono anche due piccole tele del Museo del seminario vescovile di Cremona, raffiguranti la Nascita e la Morte di s. Carlo Borromeo, provenienti dalla chiesa dei Ss. Donnino e Carlo. Fa qui la sua prima comparsa una delle caratteristiche più importanti della maniera del M.: la vena popolare, l’intimità delle atmosfere, l’assenza di retorica. Vicina a queste tele è la curiosa tavoletta del Museo civico cremonese che rappresenta a monocromo un Satiro che munge una capra, già appartenuta al conte Giambattista Biffi, uno dei primi biografi del Miradori. Sempre ai primi anni quaranta si può datare la tela di Bucarest (Museo nazionale d’arte), l’Angelo custode che indica al devoto la Trinità e le anime del purgatorio. Il rosso acceso della veste del devoto, il bianco spumoso della tunica e delle ali dell’angelo, il suo viso paffutello, i bagliori infernali dello sfondo sono omaggi allo Strozzi e al suo stile giovanile, ma la sapienza del tocco e lo studio della composizione indicano una personalità più matura; il soggetto, inoltre, fa riferimento alla Confraternita della Trinità, che aveva sede nella chiesa di S. Gregorio a Cremona e il cui abito scarlatto con cappuccio era simile a quello indossato dal devoto.
Nel 1643 realizzò una coppia di tele per il piacentino Pietro Mario Rosa, raffiguranti il Martirio di s. Lorenzo e la Strage degli innocenti (collezione privata), quest’ultima ispirata alla celebre incisione di Marcantonio Raimondi su disegno di Raffaello.
Dello stesso anno è la Circoncisione già Bizzi (collezione privata), dove spicca l’elegante scenario architettonico: un’invenzione che sembra quasi veronesiana, ma che piuttosto rimanda ai maestri prospettici della scuola ligure, come Andrea Ansaldo (Gregori, 1990, pp. 61, 293), e che divenne una cifra usuale del suo modo di fare gli sfondi. Vicini stilisticamente alla Circoncisione sono il Martirio di s. Giovanni Damasceno (collezione privata) e la Presentazione della Vergine al tempio nella chiesa dei Ss. Marcellino e Pietro a Cremona.
Nel 1644 il M. fu pagato da Pietro Martire Ponzone «per haver fatto dipingere la loggia di sopra» nel suo palazzo cremonese a S. Bartolomeo (Toninelli, 1997).
È questa l’unica notizia di dipinti murali del M., non più esistenti. Allo stesso modo rimangono scarsissime le tracce della sua attività grafica e dei suoi autoritratti, che pure sono ricordati dalle fonti settecentesche (Arisi, c. 157; Biffi, p. 264).
Il Miracolo del beato Bernardo Tolomei, dipinto per gli olivetani di S. Lorenzo a Cremona e ora nella parrocchiale di S. Siro a Soresina, non dovrebbe datarsi oltre la metà del quinto decennio, facendo riferimento alla beatificazione di Bernardo avvenuta nel 1644.
È qui efficace il contrasto tra le figure rossastre del primo piano, quasi caravaggesche nello sforzo del lavoro, e i tre olivetani bianchi in secondo piano: tra questi si distingue per intensità espressiva il giovane monaco a sinistra, la cui fisionomia torna identica nel Ritratto di monaco olivetano della famiglia Pueroni (collezione privata), già ritenuto capolavoro di Francisco de Zurbarán. C’è dunque qui, e nelle altre opere cremonesi, un netto avvicinamento del M. al naturalismo spagnolo che si può spiegare con la conoscenza diretta dei modelli iberici; i documenti e le antiche fonti attestano il rapporto del pittore con il governatore e castellano di Cremona, don Álvaro de Quiñones, che si era insediato in città nel 1644 e che possedeva una quadreria ricca di opere dei grandi maestri spagnoli (Bellingeri, 2007, pp. 19-21).
Quando, nel 1644, un incendio devastò la cappella dedicata a S. Rocco all’interno della cattedrale cremonese, la confraternita chiese al M. di eseguire la decorazione pittorica della nuova ancona di legno e stucco, che fu ultimata nel 1646.
Il M. realizzò così nove tele dedicate alla Vita di s. Rocco, inserite nella cornice che circonda la statua lignea cinquecentesca del santo, rimasta intatta. Sono deliziosi quadretti di raffinata fattura, con i toni scuri prevalenti sulla preparazione rossa bruna, accesi da tocchi superficiali di bianco e di rosso, come nella Processione di s. Rocco o in S. Rocco che risana gli appestati, entrambi inquadrati in ampi fondali architettonici, o nel curioso S. Rocco che benedice gli animali, dove tra cammelli, struzzi e leoni compare anche un improbabile unicorno.
In quegli anni il M. fu attivo sia a Cremona sia nel circondario lombardo.
Al 1645 sono databili le tavolette con i Quattro evangelisti del Museo civico di Cremona; al 1646 la Madonna con il Bambino e s. Giuseppe tra i ss. Apollonia, Carlo, Rocco e Sebastiano della parrocchiale di Castello Cabiaglio, in provincia di Varese, in cui si affaccia il tema della peste con l’immagine di un realistico lazzaretto, e il S. Gerolamo nello studio di S. Martino a Treviglio, dipinto, secondo l’iscrizione, per il cavaliere Giacomo Serra, oratore del Comune presso la Camera cesarea a Milano, per il quale il M. trasse ispirazione da due acqueforti del Ribera. Sempre nel 1646 il M. ritrasse Sigismondo Ponzone all’età di quattro anni (Cremona, Museo civico). Commissionata dal padre, il conte Nicolò, che avrebbe poi chiesto a Gabriele Zocchi il ritratto degli altri suoi tre figli, l’opera è smaccatamente alla Velázquez: immerso in una luce soffusa, il bambino dalla chioma bionda e le guance morbide indossa una blusa rosa antico, che spicca sui pantaloni rossi e le calze dai risvolti dorati; con la mano destra tiene per il collare un grosso cane, con la sinistra mostra un foglio su cui si legge la scritta: «padre che nel formarmi avesti parte prendimi hor riformato ancor dall’arte», testimonianza dell’uso costante e arguto che il M. sapeva fare delle parole a chiosa delle immagini. La raffinatezza cromatica, i toni perfettamente calibrati, la naturalezza dell’impostazione rendono merito alle capacità ritrattistiche del Miradori. Purtroppo sono pochi gli esempi certi: oltre a questo ritratto e al già ricordato Monaco Pueroni, si conoscono il Ritratto di bambino già Cook (collezione privata) e il Ritratto di gentiluomo del Museo di Palazzo d’Arco a Mantova, dove il protagonista, a figura intera, il volto terreo e smorto, veste uno sfarzoso abito da parata che contrasta con lo sfondo in rovina. Per lo stesso collezionismo privato che richiedeva i ritratti, il M. dipinse piccoli quadri con i soggetti più diversi: temi devozionali – come il S. Bonaventura nello studio, un olio su rame della collezione Koelliker di Milano – si alternano a scene di genere, storie antiche e mitologiche ad allegorie, ma non mancano copie di opere cinquecentesche, come i Mangiatori di ricotta da Vincenzo Campi (collezione privata). Tra questi temi si distingue quello antisemita della Madre ebrea – personaggio tratto dalla vita di s. Giacomo minore della Leggenda aurea, nella quale si racconta di una madre che avrebbe arrostito e mangiato il figlioletto durante l’assedio di Tito a Gerusalemme –, riconosciuto in due tele in collezioni private di Parma e Düsseldorf. Notevole fortuna ebbe anche la sua interpretazione del tema della Vanitas con cupidi addormentati accanto ai simboli del tempo che scorre e della morte che incombe, come nel quadretto del Museo civico di Cremona, la cui diffusione è testimoniata da repliche e stampe (Tanzi, 2001).
Al 1647 risale una delle commissioni più importanti della carriera artistica del M.: la Moltiplicazione dei pani e dei pesci, ora nel palazzo comunale di Cremona, originariamente collocata nel presbiterio della chiesa di S. Francesco, pendant del Miracolo della manna che stava dipingendo Giacomo Ferrari (1649).
Questa grande tela (477 x 764 cm) fu commissionata dal francescano Vincenzo Balconi, come ricorda l’iscrizione leggibile sulla targa appesa all’albero di sinistra. Lo scopo era quello di esaltare la virtù della carità e la pratica dell’elemosina, valori basilari della spiritualità minorita e cardini della riforma di s. Carlo Borromeo. Il miracolo è ambientato all’aperto, tra quinte di alberi e rocce che aprono lo spazio verso la marina dello sfondo; in primo piano a sinistra il Cristo imberbe benedice il piatto dei pani, sorretto da un fedele vestito di abiti seicenteschi; tutt’intorno c’è la folla degli astanti, gremita di volti plebei, dipinti con toni vivaci, scanzonati e quasi umoristici, che sembrano resuscitare l’umanità reietta dei bamboccianti; da questi poveri si differenzia, al centro, una figura classicheggiante di donna con il seno scoperto e con un bambino in braccio, la cui presenza ribadisce il concetto evangelico della carità. È però più interessante il gruppo di destra, con in alto i ritratti del committente Balconi e di un ufficiale spagnolo, che potrebbe essere il governatore Álvaro de Quiñones (per altri è invece un autoritratto del M.), e in basso il gruppo splendido e umanissimo della giovane mamma con un bambino disteso sul grembo, quasi una Madonna laica e popolana. Nonostante le citazioni di precedenti illustri – l’affresco di Bernardino Gatti per il refettorio del convento cremonese di S. Pietro al Po e la tela di Domenico Fetti per il refettorio del convento mantovano di S. Orsola –, la tela del M. si distingue per l’originalità compositiva, per la materia pittorica densa e vibrante, ancora debitrice dello Strozzi, e soprattutto per la profonda partecipazione al tema pauperistico. Per questo stesso committente e, verosimilmente, nello stesso giro di anni, il M. dipinse due tele di tema eucaristico, entrambe destinante al coro di S. Francesco: l’Ultima Cena (Cremona, palazzo Comunale) e il Miracolo della mula di s. Antonio da Padova (Soresina, S. Maria del Cingaro). La prima, ambientata in una sala con bel soffitto cassettonato, deve molto alla tradizione dei cenacoli lombardi: a Leonardo per la variegata casistica di gesti, espressioni e atteggiamenti degli apostoli, a Daniele Crespi per l’impaginazione verticale, ristretta e un po’ claustrofobica. Il 24 marzo del 1647 il conte Nicolò Ponzone tornò a pagare il M. per una tela raffigurante S. Eusebio, già nella sede dell’Accademia degli Animosi, perduta (Bellingeri, 2004, pp. 24, 42).
Il primo decennio di attività cremonese era dunque bastato per consacrare l’astro del M. nel panorama cittadino. «Molto alegro, bizzarro, e faceto, suonava benissimo il colascione tiorbato», così lo descriveva Arisi (c. 157), il M. elaborò uno stile che ottenne l’apprezzamento di diverse categorie di committenti.
Egli sapeva infatti coniugare la vena neocaravaggesca con i virtuosismi spagnoli, il contrasto chiaroscurale con pennellate di intenso cromatismo, il naturalismo più crudo con il gusto per l’aneddoto e il tono da commedia, le invenzioni originali con l’uso di stampe e modelli classici. Protetto e stipendiato dal governatore, quasi senza rivali nelle commesse degli ordini religiosi, ricercato dalle famiglie cremonesi più in vista – come i Ponzone, i Rota e i Bussani, nella cui raccolta erano presenti ben diciassette opere del M. (Bellingeri, 2004, p. 19) –, non ebbe però l’aspirazione e il coraggio di confrontarsi con panorami più ampi e prestigiosi, come poteva essere Milano, sicché la sua esperienza finì per rimanere circoscritta in ambito provinciale e anche lì sarebbe rimasta sterile. Nel frattempo la situazione politica e militare di Cremona si era complicata terribilmente, fino a precipitare, nel 1648, nell’episodio tragico dell’assedio da parte delle truppe franco-modenesi e piemontesi, guidate dal duca di Modena Francesco d’Este. Gli spagnoli riuscirono alla fine a respingere l’attacco, ma la città uscì dallo scontro ancora più povera e stremata.
In questi difficili frangenti il M. dipinse la Vergine che riattacca la mano a s. Giovanni Damasceno (1648), nella chiesa di S. Clemente (ora S. Maria Maddalena).
La pala è un po’ convenzionale e fredda nella composizione, ma la figura del santo è di un realismo sfacciato, con i piedi sporchi in primo piano che ricordano la Madonna dei pellegrini di Caravaggio.
Sempre nel 1648 dipinse per Quiñones la Veduta fantastica del porto di Genova con la caduta di Icaro (collezione privata).
Un’opera suggestiva che ambienta l’episodio mitologico, copiato da Carlo Saraceni, nel cielo che sovrasta la città ligure, quest’ultima del tutto inventata, con ponti enormi che si alzano vertiginosi su un porto brulicante di velieri, golette, barche da pesca e di un’infinità di omini guizzanti presi in prestito dalle stampe di J. Callot.
Nel 1650 gli Stati d’anime della contrada di S. Clemente in Gonzaga registrano il nome del M. insieme con quelli della moglie, dei figli Giacomo, Felice Antonia ed Elisabetta: nessuno dei figli nati dopo il 1639 doveva dunque essere sopravvissuto. Comunque nel 1651 nasceva un altro figlio, Antonio Francesco, battezzato il 26 febbraio (Bellingeri, 2004, p. 42). Nello stesso anno il M. firmò e datò il Riposo nella fuga in Egitto per i carmelitani scalzi di S. Imerio a Cremona.
Di esecuzione elegante e virtuosistica, questa tela segna un cambio di registro stilistico: la luce, sempre netta, si fa ora chiara e tagliente; i colori assumono toni brillanti, quasi smaltati; in alto la gloria di putti rende la scena gioiosa e festante, minimamente contraddetta dagli efferati omicidi degli innocenti che a mala pena si scorgono sullo sfondo. Al 1651 è datata anche la pala del Musée national du Château di Compiègne (deposito del Louvre), che rappresenta la Madonna col Bambino che appare al beato Felice da Cantalice, di cui si conosce una seconda versione in collezione privata parigina (Béguin, 1960). Vicini a queste opere sono l’Annunciazione della chiesa dei Ss. Fabiano e Sebastiano di San Martino dall’Argine, molto rovinata, e il S. Gerolamo nel deserto del Museo Borgogna di Vercelli. Nel 1652 realizzò una coppia di tavole destinate alla chiesa dei Ss. Marcellino e Pietro, proprietà dei gesuiti a Cremona: il Martirio e la Gloria di s. Orsola, entrambe sagomate in alto, erano forse le ante di un grande reliquario scomparso. È interessante in questi lavori l’impaginazione spaziale allungata che lascia aperto il campo a vedute paesaggistiche a volo d’uccello, che nella Gloria permettono di riconoscere il profilo turrito della città di Colonia. Una soluzione simile si riscontra nella coeva Madonna del Rosario tra i ss. Domenico e Caterina da Siena della parrocchiale di Casalbuttano (firmata e datata 1652), dove il M. torna ai toni scuri, quasi alla Morazzone, della sua prima maniera. Sempre nel 1652 eseguì la cornice dipinta della nicchia che ospita la statua di S. Antonio nella chiesa francescana di S. Maria delle Grazie a Codogno: sorprende trovare qui i suoi putti giocosi intrappolati in un traboccante intreccio di fiori dove vivono rospi, lucertole e farfalle. Di poco successive sono l’Ultima Cena dipinta per la Confraternita del Ss. Sacramento della chiesa di S. Siro a Soresina, per la quale ricevette pagamenti nel dicembre del 1653 (Guazzoni, 1992, pp. 423 s.), la piccola tavola con la Morte della Vergine del Museo civico di Cremona, l’Annunciazione di S. Maria dei Sabbioni a Cappella Cantone, firmata e datata 1654, e la S. Lucia di Castelponzone (1654), nella chiesetta dei Ss. Faustino e Giovita, dipinta probabilmente per i signori del borgo, quei Ponzone che avevano già commissionato diversi lavori al M. e possedevano sue opere (Toninelli, 1997). Nei primi anni Cinquanta si possono collocare anche le quattro tavole con Storie di Sansone (collezione privata), commissionate da Quiñones, come conferma l’inventario del 1657; al governatore dovevano appartenere anche altre quattro tavolette con le Fatiche di Ercole, di ubicazione ignota (Bellingeri, 2007, p. 27).
Il 10 ag. 1653 fu battezzato il figlio del M. Raffaele Nicola. Gli fece da padrino Martino Rota, il cui volto compare nella pala di Brera che raffigura S. Nicola di Bari con l’offerente, firmata e datata 1654. Questa pala, attentamente studiata da Bellingeri (2004), mostra in sintesi tutte le caratteristiche della pittura del M.: il gioco dei colori accesi e dei contrasti di luce, il realismo di volti ed espressioni, soprattutto del profilo del giovane Rota, l’amore per il concettismo erudito – nel distico issato in alto dai putti si legge l’anagramma del committente –, il sapore aneddotico e quasi comico di certe figure – i bambini immersi nella tinozza con la salamoia – fino all’amore per le rappresentazioni della sua città, quella Genova che appare ancora una volta vista dall’alto, con il suo porto, la lanterna e la costa che fugge verso la valle del Polcevera.
Nel 1654 il M. restituì un deposito ai tutori degli eredi del pittore Giovan Battista Tortiroli, saldando gli interessi. In quell’anno e nel successivo fu priore della confraternita del Ss. Sacramento della chiesa di S. Clemente a Cremona. Nel 1655 nacque il suo ultimo figlio, di nome ancora Raffaele Nicola; gli fu padrino il pittore Giovan Battista Natali (Bellingeri, 2007, pp. 24 s., 69).
Il 21 febbr. 1656 il M. fece testamento a favore dei figli Giacomo, Felice Antonia, Elisabetta e Antonio Francesco (ibid., pp. 12, 69 s.). Il M. morì quasi sicuramente tra il 24 maggio 1656 – quando una nota di spese registra dei pagamenti a favore del M. da parte della Confraternita del Ss. Sacramento di Soresina per quattro Evangelisti collocati ai lati dell’Ultima Cena del 1653, andati dispersi (Guazzoni, 1992, pp. 394, 423) – e il 12 febbr. 1657, anno in cui morì de Quiñones, a spese del quale, secondo Biffi (p. 268), sarebbe stato fatto il funerale del M. nella chiesa di S. Imerio.
Il figlio Giacomo – di cui si ricordano un Transito della Vergine in S. Siro a Soresina (1663) e un S. Omobono tra due sante martiri nella parrocchiale di Cella Dati (1665), entrambi di modesta qualità – non esitò a disperdere il patrimonio di quadri, disegni, stampe, copie e altre invenzioni che il M. gli aveva lasciato in eredità. Della figlia Felice Antonia, ricordata dalle fonti come «molto avvenente» ed eccellente ritrattista (Biffi, p. 268), non si conservano opere sicure.
Fonti e Bibl.: Cremona, Biblioteca statale, Mss., AA.2.16: D. Arisi, Accademia de’ pittori, scultori ed architetti cremonesi (sec. XVIII), cc. 157-159; G. Biffi, Memorie per servire alla storia degli artisti cremonesi (sec. XVIII), a cura di L. Bandera Gregori, Cremona 1989, pp. 262-270; G.B. Zaist, Notizie istoriche de’ pittori, scultori ed architetti cremonesi, Cremona 1774, II, pp. 98-101; M. Gregori, Alcuni aspetti del Genovesino, in Paragone, V (1954), 59, pp. 7-29; S. Béguin, Un tableau du Genovesino au Musée de Fontainebleau, in La Revue des arts, II (1960), pp. 98-100; G. Fiori, Notizie biografiche di pittori piacentini dal ’500 al ’700, in Archivio storico per le province parmensi, XXII (1970), pp. 110 s.; M. Gregori, in Il Seicento lombardo (catal.), a cura di G.A. dell’Acqua, Milano 1973, II, pp. 67-69; A. Alfonso, Liguri illustri. Castello Castellino, in La Berio, XV (1975), 2, p. 48; G. Fiori, Documenti sul M.-Genovesino a Piacenza, in Strenna piacentina, 1989, pp. 41 s; L. Bandera, in La pittura in Italia. Il Seicento, Milano 1989, pp. 817 s.; M. Gregori, in Pittura a Cremona dal Romanico al Settecento, Milano 1990, pp. 60-63, 292-295; V. Guazzoni, Dall’Olivieri al Diotti. Tre secoli di vicende artistiche, in Soresina dalle origini al tramonto dell’Ancien Régime, a cura di R. Cabrini - V. Guazzoni, Soresina 1992, pp. 394-399, 423 s.; M. Gregori, in Il Genovesino a Cremona, a cura di I. Iotta, Milano 1995, pp. 15-21; G. Toninelli, I conti Ponzoni e la loro collezione d’arte, in Cremona. Museo civico Ala Ponzone. Origine e collezioni, a cura di V. Guazzoni, Cremona 1997, pp. 52 s.; M. Tanzi, Novità, copie e repliche per il Genovesino, in Scritti di storia dell’arte in onore di Sylvie Béguin, a cura di M. Di Giampaolo - E. Saccomani, Napoli 2001, pp. 451-463; Id., in Il ritratto in Lombardia da Moroni a Ceruti (catal.), a cura di F. Frangi - A. Morandotti, Milano 2002, pp. 192-195; L. Bellingeri, in Le chiavi del paradiso: i tesori dei cappuccini della provincia di Genova (catal.), a cura di L. Temolo Dall’Igna, Milano 2003, pp. 94-97; Id., Genovesino rivelato: un pittore, un committente, un enigma, Milano 2004; M. Tanzi, in Collezione Koelliker. Dipinti lombardi del Seicento (catal.), a cura di F. Frangi - A. Morandotti, Torino 2004, pp. 142-147; L. Bellingeri, Genovesino, Galatina 2007 (con bibl.); M. Marubbi, La Pinacoteca Ala Ponzone. Il Seicento, Cinisello Balsamo 2007, pp. 182-192; M. Morandi, ibid., pp. 192 s.; S. Tassini, ibid., pp. 194 s.; M. Tanzi, La Zenobia di don Álvaro, Cremona 2009; Di musica e arte, di peste e guerre. Il Seicento a Cremona al tempo del Genovesino (catal.), a cura di A. Mazzocchi - F. Bottini, Roccafranca 2009; L. Bellingeri, Genovesino a Cremona, ibid., pp. 11-20; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIV, p. 586; The Dictionary of art, XXI, pp. 700-702.
A. Serafini