Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le trasformazioni sociali ed economiche dell’Europa nel corso del Seicento contribuiscono ad aggravare il fenomeno del pauperismo e dell’emarginazione di vasti strati della popolazione. Nel contempo l’evoluzione culturale e delle mentalità propone una nuova immagine del miserabile e nuovi modi per definirne il rapporto con la società.
Secondo le stime di Gregory King, uno dei fondatori della scienza statistica, alla fine del Seicento quasi un quarto della popolazione inglese vive sotto la soglia della povertà, e fra questi vi sono 30 mila vagabondi. King ritiene inoltre che un altro quarto della popolazione (corrispondente grosso modo alla massa dei lavoratori salariati) sia assai prossimo a questa soglia e quindi pericolosamente esposto alle fluttuazioni della congiuntura economica. Più o meno negli stessi anni, Sébastien le Prestre de Vauban giunge a conclusioni simili: un terzo della popolazione francese si trova sullo spartiacque della miseria. Questi dati mostrano immediatamente quale incidenza abbia nelle società europee del Seicento il problema della povertà. Nel corso della propria vita, gran parte della popolazione sperimenta la miseria, e la quasi totalità ne viene sfiorata. Poveri, mendicanti e vagabondi sono onnipresenti sia nelle città, sia nelle campagne. Sembrano, anzi, essere sempre più numerosi. La fortuna del romanzo picaresco – come Lazarillo de Tormes – nella letteratura dell’epoca, ma anche delle raffigurazioni di poveri e vagabondi nell’arte, testimonia della rilevanza del fenomeno nella percezione dei contemporanei. Mai come nel Seicento la sentenza del Vangelo “I poveri saranno sempre tra voi” trova conferma nella realtà.
È naturale mettere innanzitutto in relazione questa tendenza con la cosiddetta “crisi del Seicento”. Non c’è dubbio che le difficoltà economiche sperimentate in questo secolo da molte regioni europee abbiano un peso rilevante, sia che si tratti del declino strutturale di alcune zone, come l’Italia o la Spagna, sia che ci si trovi davanti a crisi congiunturali dovute, ad esempio, a una serie di cattive annate agricole o alla guerra. Se una parte della popolazione rurale e urbana vive poco al di sopra del livello di sussistenza, un rialzo del prezzo del grano o un crollo della domanda di prodotti artigianali hanno inevitabilmente conseguenze catastrofiche. I tre cavalieri dell’Apocalisse dell’Europa preindustriale – la carestia, l’epidemia e la guerra – agendo spesso di concerto, hanno certamente contribuito a ingrossare le turbe dei miserabili e dei vagabondi. La Germania della prima metà del secolo offre – pensiamo a opere letterarie come L’avventuroso Simplicissimus di Hans Cristoffel von Grimmelshausen – un quadro desolante dei risultati dell’azione dei tre flagelli. La durezza del “secolo di ferro” amplia la prima area di povertà indicata da Gregory King, quella della “povertà strutturale” o permanente, e rende più frequente il manifestarsi della povertà congiunturale legata agli incerti della meteorologia, alla guerra o ai cicli economici.
Simplicio i casi suoi narra ed espone,castello di Hanau fatto prigione
L’avventuroso Simplicissimus, I, XIX
Capitolo XIX
Simplicio i casi suoi narra ed espone, castello di Hanau fatto prigione
(...) Ma qui devo anzitutto descrivere al lettore il mio strano abbigliamento di allora prima di continuare il racconto di quel che mi accadde in seguito; davvero il mio abito e il mio comportamento erano quanto mai strani, sorprendenti e sinistri, tanto che il Governatore volle farmi fare il ritratto. Da due anni e mezzo i miei capelli non erano stati tagliati, pettinati, arricciati e raccolti né alla greca, né alla tedesca, né alla francese, ma stavano nel loro naturale scompiglio, cosparsi di polvere vecchia di più di un anno invece che di belluria per capelli, o cipria, o pulve (come si chiama questo ritrovato da pazzi o da pazze), e mi si arruffavano in capo così leggiadramente che, sotto di essi, con la mia faccia giallo pallido, sembravo un barbagianni pronto a beccare o intento a far la posta a un topo. E poiché andavo sempre a testa nuda e i miei capelli erano crespi per natura, pareva proprio che avessi in capo un turbante turco. Gli abiti e il resto si accordavano perfettamente con la capigliatura, perché indossavo la tonaca del mio eremita, seppur la posso chiamar tonaca visto che il panno originale in cui era stata tagliata era totalmente scomparso e ne restava solo la semplice forma composta da più di mille pezzetti di stoffa d’ogni colore rappresentando così una specie di tessuto fatto tutto di toppe. Su questa tonaca sdrucita e così rattoppata, portavo a mo’ di mantello un cilicio di crine (ne avevo infatti tagliate le maniche per usarle come calze); tutt’intorno al mio corpo s’incrociavano catene di ferro, come si vede nei dipinti di San Guglielmo, cosicché avevo quasi l’aspetto di uno di quelli che sono stati prigionieri dei Turchi e che vanno in giro a chieder l’elemosina per i loro compagni rimasti prigionieri. Le mie scarpe eran tagliate nel legno con le stringhe di scorza di tiglio, i piedi poi erano rossi come gamberi, che pareva mi fossi messo un paio di calze del colore nazionale degli Spagnoli o mi fossi tinto la pelle col fernambuco. Credo che, se a quel tempo un ciarlatano, o uno strillone da fiera, o un girovago mi avesse avuto e mi avesse fatto passare per un Samoiedo o per un Groenlandese, avrebbe certo trovato parecchi sciocchi pronti a pagare un kreuzer per vedermi. Sebbene ogni persona di buon senso, dal mio aspetto magro e affamato e dal mio miserabile abbigliamento, avrebbe potuto facilmente arguire che non ero scappato da un’osteria, né da un gineceo, né tanto meno dalla corte di qualche gran signore, tuttavia venni rigorosamente perquisito dalle sentinelle. Mentre i soldati mi squadravano a occhi sbarrati, io osservavo la miserabile divisa del loro ufficiale a cui dovevo rispondere. A dire il vero non sapevo se si trattasse di un uomo o di una donna, perché portava capelli e barba alla francese: ai due lati gli pendevano due lunghe trecce come code di cavallo, e aveva la barba così miseramente acconciata e spelacchiata che solo pochi peli si salvavano tra la bocca e il naso: così pochi che si faceva fatica a vederli. Anche i suoi ampi calzoni mi diedero molto da dubitare circa il suo sesso, perché mi sembravano assai più simili a una gonna femminile che a un paio di brache da uomo. Pensai fra me: “Se è un uomo, dovrebbe avere anche una barba come si deve, perché questo vagheggino non é tanto giovane come vorrebbe far credere; ma se è una donna, perché questa vecchia bagascia ha tante stoppie intorno alla bocca? Certo è una donna” pensai “perché un uomo onorato non si lascerebbe mai spelacchiar la barba a questo modo: perfino i caproni han tanto pudore da non muover passo in un altro gregge quando taglian loro la barba”. E dopo esser rimasto un bel po’ in dubbio, senza sapere che quella era la moda del momento, finii col concludere che doveva essere uomo o donna nello stesso tempo.donna mascolina, o questo uomo femminile, come mi pareva, mi fece perquisire dappertutto, ma non mi trovò indosso altro che un libretto di corteccia di betulla dove avevo scritto le mie preghiere quotidiane e dove tenevo quella letterina che, come ho detto nel precedente capitolo, mi aveva lasciato il mio pio eremita a mo’ di valete. Me lo prese; e io, non rassegnandomi a perderlo, caddi davanti alle sue ginocchia e gliele abbracciai dicendo:
“Oh, mio caro ermafrodito, lasciami il mio libretto di preghiere!”
“Pazzo” mi rispose lui “chi diavolo ti ha detto che mi chiamo Ermanno?”
H.J.C. von Grimmelshausen, L’avventuroso Simplicissimus, trad. it. a cura di U. Dèttore e B. Ugo, Milano, Mondadori, 1992
La miseria e il pauperismo sono anche il risultato delle profonde modifiche che intervengono nell’economia e della destrutturazione, sia in città che in campagna, delle forme di vita e delle solidarietà tradizionali. Nei Paesi all’avanguardia delle trasformazioni economiche (le Province Unite e l’Inghilterra) l’agricoltura si modifica sotto la spinta del mercato e della diffusione di forme di conduzione capitalistica. La razionalizzazione che ne consegue si traduce nell’indebolimento della comunità di villaggio e nella crisi delle solidarietà di vicinato e di parentela. La sottoccupazione strutturale delle campagne veniva in precedenza gestita e assorbita all’interno della famiglia e della comunità. Nel quadro dei nuovi rapporti sociali questo non è più possibile. Ne consegue l’espulsione di molti contadini dalla campagna.
Si fanno anche più gravi le conseguenze di eventi imprevisti o legati al ciclo di vita individuale e familiare. Le famiglie degli agricoltori più poveri, in genere di dimensioni ridotte e per lo più nucleari, sono particolarmente fragili ed esposte agli incerti della vita. La morte improvvisa del capofamiglia può precipitare nella miseria la vedova e i figli, rimasti senza alcun sostegno economico e spesso privi anche dell’aiuto di un’efficace rete di solidarietà parentale o locale. D’altra parte anche troppe nascite possono comportare dei problemi e generare uno squilibrio fra bocche e braccia, fra consumatori e lavoratori, anche se nelle campagne i bambini vengono avviati al lavoro molto precocemente. La vecchiaia poi, che comporta l’incapacità di svolgere un lavoro e di frequente la solitudine, si accompagna quasi sempre alla miseria, così come alla malattia. Infine dobbiamo ricordare che, anche all’interno del mondo contadino, si approfondisce il divario fra agricoltori relativamente agiati e braccianti e piccoli affittuari che vivono sulla soglia della miseria.
Se in certe regioni d’Europa sono il mercato e il capitalismo a esercitare una forte pressione sui contadini, in altre, come l’Europa orientale, questi subiscono il mantenimento o l’accrescimento della pressione signorile oppure ancora, come nel caso della Francia scossa dalle rivolte dei croquants , la pressione fiscale dettata dalle nuove esigenze dello Stato.
Sui contadini espulsi la città esercita un grande potere d’attrazione per molteplici motivi. Durante la guerra le mura della città offrono un riparo e durante le carestie, anche in virtù dei loro privilegi annonari, le città sono comunque favorite e sono sede dei principali organismi caritativi e assistenziali. La città, inoltre, sembra offrire maggiori possibilità di lavoro.
Anche nel mondo urbano tuttavia, nel corso del Cinque e del Seicento, si assiste a notevoli cambiamenti. Il capitale mercantile, soprattutto nelle aree più avanzate, ha ormai preso il sopravvento nel mondo della produzione artigianale, indebolendo la struttura corporativa che era stata la base dell’organizzazione produttiva delle città durante il Medioevo. Le esigenze del capitale sono diametralmente opposte a quelle delle corporazioni, che si prefiggono di controllare il mercato del lavoro. La vittoria del capitale conduce a una progressiva proletarizzazione dei lavoratori. Così come gran parte dei contadini sono ridotti al rango di braccianti senza terra o addirittura espulsi dalle campagne, la maggior parte degli artigiani indipendenti si trovano declassati al livello di salariati e le loro possibilità di lavoro e i loro redditi sono minacciati anche dalla concorrenza della manodopera rurale, molto più economica.
L’articolata gerarchia delle corporazioni (maestri, apprendisti e lavoranti) tende a perdere di significato concreto. La proletarizzazione dei contadini e degli artigiani che si verifica nel corso del Seicento e la loro accresciuta dipendenza dalle fluttuazioni del mercato, oltre ad aggravare la povertà e la miseria permanente e strutturale, rendono vaste fasce della popolazione più esposte alle crisi di povertà congiunturale. I contadini e i braccianti agricoli sono maggiormente colpiti dalle crisi agrarie di tipo tradizionale, dai cattivi raccolti e dalle carestie che ne derivano, mentre i lavoratori urbani sono vittime delle oscillazioni della domanda di lavoro che dipende dall’andamento della congiuntura nel settore manifatturiero.
Inoltre nelle città i nuclei domestici sono quasi sempre di ridotte dimensioni, nucleari e ancora più indifesi di fronte alle difficoltà. Le rete assistenziale degli enti caritativi religiosi o delle corporazioni ha un’efficacia ridotta e soprattutto esclude proprio coloro che ne avrebbero più bisogno, gli individui e le famiglie di recente immigrazione, che risiedono in città ma non sono ancora considerati parte della comunità urbana.
Giacinto de’ Nobili
Il vagabondo
Accattosi (...) son detti questi dalla cattività e schiavitudine in cui dicono esser stati lungo tempo. Fingono aver parenti o fratelli in mano di Turchi, Saracini o Corsari, per poter con tal mezzo ottenere elemosine per riscattarli (...).
Affarfanti (...) fingono di miracoli; dicono aver fatto gravi ed enormi peccati; ma percossi da Dio da terribile infermità, dopo l’aver fatto voto d’andar per il mondo raccontando la giustizia e la gran misericordia di Dio verso di sé, sono stati liberati.
Accapponi questi con polvere di penne abbrugiate, sangue di lepre e altre cose, fingono di aver grandissime e orrende piaghe nelle gambe (...).
Attremanti questi son detti dal tremore, fingendosi paralitici e tremanti. Non tengono mai ferma la mano o il cappello nel ricevere l’elemosina, quale nel raccorre e riporre è saldissima e senza tremore.
G. de’ Nobili, Il vagabondo, a cura di P. Camporesi, Torino, Einaudi, 1973
Lo studio della povertà è reso complesso non solo e non tanto dalla mancanza di fonti e di dati quantitativi, ma piuttosto dalla difficoltà di definire cosa significhi essere poveri, e di conciliare le nostre definizioni e la percezione del fenomeno con quella dei contemporanei. Anche da un punto di vista strettamente economico e materiale è difficile stabilire una soglia assoluta di povertà. Lo stesso concetto di sussistenza non è univoco.
Nella società europea del Seicento, l’idea di povertà è in stretto rapporto con la posizione sociale di un individuo. È povero colui che non è in grado di mantenere un tenore di vita confacente al suo status sociale. La povertà non dipende però solo da un peggioramento delle condizioni economiche. La miseria è un fatto sociale più che un problema di rapporto fra popolazione e risorse: il pauperismo e i fenomeni del vagabondaggio e di certe forme di criminalità a esso connessi, sono innanzitutto un fatto di declassamento e di esclusione sociale. Un contadino, un artigiano, un borghese e persino un nobile, possono essere tutti poveri, ma il significato di questo termine muta a seconda del ceto di appartenenza.
Uno dei fenomeni più caratteristici dell’età moderna è infatti quello dei cosiddetti “poveri vergognosi”, cioè dei nobili, o comunque dei membri dell’élite sociale, che per traversie economiche non sono più in grado di vivere come si converrebbe alla loro condizione e che sono oggetto di particolare e discreta attenzione da parte degli organismi caritativi. Nelle società di Antico Regime il denaro, o più in generale la disponibilità di risorse economiche, non è l’unico e neppure il principale parametro di classificazione sociale. Per questo lo scarto fra il prestigio associato allo status privilegiato e una condizione di difficoltà economica viene avvertito con particolare disagio. Il “povero vergognoso” è meritevole di assistenza non solo perché vive con particolare sofferenza, a causa della memoria di una passata grandezza familiare, lo stato di miseria in cui si trova, ma anche perché la povertà di un appartenente all’élite sociale mette in discussione, e in un certo senso delegittima, tutto l’ordinamento sociale. Per questa ragione il “povero vergognoso” deve essere assistito ma con discrezione, per non ferire la sua sensibilità, ma anche per non diventare motivo di scandalo sociale.
Le trasformazioni economiche e sociali creano dunque maggiore povertà e maggiore emarginazione. Ma accanto ai mutamenti economici occorre prendere in considerazione l’evoluzione culturale e delle mentalità. Come si evolve l’idea di povertà? Con quali strumenti si cerca di combattere un fenomeno del cui aggravarsi i contemporanei sono consapevoli? Dal punto di vista delle forme di assistenza la svolta fondamentale si era avuta nei primi decenni del secolo precedente con le riforme adottate in molte città europee. I punti fondamentali di queste riforme erano l’eliminazione della mendicità e la centralizzazione e la razionalizzazione dell’assistenza. All’origine delle politiche di repressione della mendicità e del vagabondaggio nel Seicento vi sono scopi e preoccupazioni differenti. Oltre al fine di rendere più efficace e razionale l’opera di assistenza, vi è anche quello di meglio controllare un universo umano inquietante e potenzialmente pericoloso. A volte quest’universo sembra organizzarsi in una sorta di minacciosa società, con regole e linguaggi propri. Si tratta certo di proiezioni dettate dalla paura e dall’inquietudine che questi personaggi incutono al resto della società, ma in esse si esprime un’evoluzione significativa. A partire dal tardo Medioevo e nell’età moderna la povertà non è più una virtù ma una colpa e una minaccia.
I due elementi che caratterizzano l’atteggiamento verso i miserabili e le altre categorie di marginali nell’Europa secentesca diventano allora la reclusione e il lavoro. La reclusione dei poveri ha un carattere ambivalente: mezzo di assistenza per i bisognosi ma anche di correzione per i malvagi. Ambivalente è anche il richiamo al lavoro. Il lavoro è il mezzo per assicurare il mantenimento del povero ed è quindi espressione di una esigenza di razionalità, ma è anche uno strumento di punizione. Nell’età moderna infatti il povero non è più considerato costitutivo della società né funzionale all’esercizio della virtù della carità. I tentativi di razionalizzazione dell’assistenza e della carità coincidono con una laicizzazione dell’idea di povertà. L’assistenza non è allora più semplicemente manifestazione della carità cristiana, ma diventa al contempo strumento di correzione e di punizione. In questa nuova prospettiva diventa prioritario distinguere (lo insegnano opere come Il vagabondo di Giacinto de’ Nobili) i veri poveri, coloro che per età o incapacità non sono in grado di mantenersi, dagli oziosi e dai vagabondi (dei quali de’ Nobili offre una particolareggiata tipologia). Ozio, povertà e vizio sono ormai strettamente connessi.
La diffusione del protestantesimo non è estranea a questa evoluzione della mentalità che vede sempre più nella povertà una punizione e che fa del povero un colpevole. Le similarità prevalgono però sulle differenze fra Europa protestante ed Europa cattolica e sarebbe inesatto parlare di eclissi della carità nei Paesi protestanti. Certamente però l’Europa cattolica manifesta una maggiore resistenza a quest’evoluzione che intacca il merito della carità individuale. Di questo travaglio sono testimonianza opere come quella del gesuita Andrea Guévarre, La mendicità sbandita o Le inquietudini di san Vincenzo de’ Paoli a proposito della reclusione coatta dei miserabili. Nel 1656 viene fondato l’Ospedale Maggiore di Parigi, che può essere considerato l’esempio più compiuto di questa filosofia di controllo sociale della mendicità. Alla fine del secolo la popolazione complessiva dell’arcipelago ospedaliero-assistenziale-penitenziario parigino, formato da diverse istituzioni specializzate (la Pitié, la Salpêtrière, la Bicêtre), raggiunge le 10 mila persone. L’importanza del lavoro è evidente anche in Inghilterra. La riforma elisabettiana del 1601 prevede infatti, oltre alla costruzione di ospizi e alla repressione della mendicità, l’addestramento professionale dei bambini e la ricerca di un impiego per i disoccupati. Nelle workhouses create successivamente nel corso del secolo l’aspetto economico sembra però prevalere su quello correzionale-punitivo. I poveri rinchiusi nelle workhouses vengono considerati soprattutto come manodopera a basso costo. Nell’Europa meridionale la carità individuale e le iniziative spontanee conservano invece una maggiore importanza e il processo di laicizzazione e razionalizzazione della gestione della povertà appare meno avanzato. Privati, famiglie e associazioni di mestiere continuano a promuovere iniziative come i Monti di pietà, i Monti delle doti (per fornire di dote le ragazze povere), gli ospizi per fanciulle “periclitanti” e altre ancora. Anche le istituzioni religiose come i conventi, spesso impegnate in distribuzioni di cibo ai poveri, conservano una maggiore importanza e autonomia.