Missioni all’estero: guerrieri o pacificatori?
In Italia, l’analisi della politica estera ha incontrato per la prima volta la dimensione militare quando sono state avviate le prime missioni all’estero.
Nel 1982 l’Italia ha partecipato, per la prima volta nel dopoguerra, a una missione militare all’estero. L’occasione è stata offerta dalla devastante situazione di conflittualità interna ed esterna maturata in Libano. L’invasione del paese da parte dell’esercito israeliano e le faide tra le diverse comunità locali avevano indotto la comunità internazionale a intervenire per interporsi tra le fazioni in lotta e cercare di porre termine al conflitto. L’intervento italiano non solo ha segnato un primo cambiamento nella percezione del ruolo delle Forze armate, sia al loro interno sia a livello di opinione pubblica, ma ha obbligato anche le forze governative a inserirle nell’analisi della politica estera. Fino a quel momento la divisione bipolare del mondo da un lato e lo status di paese sconfitto dall’altro avevano impedito all’Italia, al di là di ogni intenzione o propensione, una qualsiasi proiezione militare esterna.
Di conseguenza, le Forze armate erano viste o, dalla sinistra, come elemento di stabilizzazione interna (se non addirittura di pericolo per la democrazia) o, dai partiti di destra, come onere ineludibile per poter essere legittimati internazionalmente attraverso l’adesione alla NATO.
La fine della Guerra fredda e, soprattutto, i conflitti iugoslavi hanno prodotto il secondo balzo in avanti nella partecipazione delle Forze armate italiane a missioni militari all’estero: dalla prima guerra del Golfo (Desert Storm, 1991) alla partecipazione alla pacificazione del confine israelo-libanese (Leonte 2006) e alle operazioni della NATO contro la Libia (2011), passando per altre missioni, in particolare Antica Babilonia in Iraq (2003-06) e ISAF in Afghanistan (2002).
Non solo è stata rilevante la ‘dimensione’ dell’impegno ma si è affermata anche la ‘qualità’ dei contingenti italiani. In particolare, essi hanno ottenuto riconoscimenti unanimi per lo svolgimento del compito di addestramento del personale militare e di polizia, e per l’abilità mostrata nel creare una ‘zona protettiva’ di accettazione e consenso tra la popolazione locale, anche fornendo servizi essenziali (e per questo lavoro i militari italiani sono stati a volte sprezzantemente definiti social workers). In conseguenza di questa intensa partecipazione, le missioni militari italiane sono diventate un elemento importante della politica estera nazionale. In tale ottica sono state sviluppate alcune interessanti analisi, che integrano i security and strategic studies con la foreign policy analysis. Le varie scuole di pensiero in materia di relazioni internazionali hanno cercato di rispondere all’interrogativo di fondo sul perché un paese rischia la vita dei propri uomini inviandoli in missioni militari all’estero.
Le teorie realiste individuano (classicamente) le motivazioni di questa scelta nella ‘natura’ del sistema internazionale: essendo ‘anarchico’ o dominato dalla power politics è necessario, per garantire la sicurezza interna, agire con interventi proiettati fuori dai confini nazionali. Le teorie liberali, d’altro canto, guardano piuttosto alle caratteristiche del sistema politico interno e da questo deducono la più o meno alta propensione a intervenire. Entrambe le opinioni, tuttavia, non tengono in conto gli aspetti valoriali e le culture politiche nazionali, elementi che influenzano fortemente le scelte dei governanti: le decisioni delle élite politiche non dipendono solo dalle pressioni del sistema internazionale bensì anche, e in grande misura, dalla ‘logica della appropriatezza’, cioè dalla necessità di adeguarsi alle norme condivise di una nazione. Questa impostazione, desunta dalla teoria costruttivista delle relazioni internazionali, ha il merito di chiarire le ragioni per cui l’Italia, al contrario degli altri due paesi sconfitti della Seconda guerra mondiale (Germania e Giappone), dei quali peraltro ha condiviso moltissime linee guida in politica estera, ha una presenza in missioni militari all’estero incomparabilmente maggiore.
Fino alla fine della Guerra fredda l’idea che un governo italiano potesse impiegare le proprie truppe all’estero era considerata al di là della realtà, non solo per le contingenze internazionali ma anche per il prevalere del pacifist frame, un insieme di valori prodotto dalla congiunzione dell’irenismo universalistico cattolico con l’internazionalismo della sinistra. Tra l’altro, nemmeno l’aperto e clamoroso atto di ostilità compiuto dalla Libia nel 1986, con il lancio di due missili contro l’isola di Lampedusa, dopo l’attacco che gli Stati Uniti avevano sferrato al leader libico (benché, a quanto sembra ormai accertato, Gheddafi fosse stato salvato da un’informativa giunta dal nostro paese), aveva prodotto una reazione militare adeguata.
A ogni modo, il pacifist frame aveva fortemente limitato lo sviluppo di un’adeguata ‘cultura di difesa’ sia tra le élite politiche sia tra l’elettorato. La chiusura della frattura ideologica fondante della cosiddetta ‘prima repubblica’ – comunismo/anticomunismo – e la conseguente accettazione corale dei fondamenti della politica estera nazionale (atlantismo, europeismo e multilateralismo) hanno infine creato le condizioni per una revisione dell’immagine e del ruolo delle Forze armate. Quindi, più della natura del sistema internazionale o delle caratteristiche del sistema politico, sono stati i mutamenti di cultura politica a consentire questo cambio di passo rispetto al passato e alle scelte di Germania e Giappone.
Un mutamento aiutato da due ulteriori fattori: un perdurante, sottile e sotterraneo senso di missione universalistica, e una propensione all’intervento umanitario e di pacificazione (entrambi legati alle due culture politiche tradizionali del paese, quella ‘bianca’ e quella ‘rossa’).
Tali fattori sono confluiti nel ruolo pacificatore e di assistenza alle popolazioni svolto dai militari italiani all’estero. Questo approccio, come detto, costituisce un autentico elemento distintivo dei nostri interventi. Al punto che le missioni, nelle loro varie forme (peace keeping, peace enforcement, peace building, operazioni di polizia), sono diventate un elemento del soft power italiano, utile a diffondere l’immagine di attore internazionale credibile e affidabile, oltre che ‘umanitario e pacificatore’.
Opere Treccani
I due volumi dell’Atlante geopolitico Treccani, pubblicato nel 2011 (pagg. 1174) sono nati grazie alla lunga tradizione di studi e ricerche dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, alle competenze specifiche e di lungo periodo dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e al lavoro di un vasto numero di studiosi ed esperti che a vario titolo hanno contribuito. Al fine di rendere intelligibile un mondo complesso si è organizzata l’opera in tre sezioni, che offrono prospettive diverse e interconnesse: la prima, ‘Mondo e Tendenze’ su grandi questioni trasversali, la seconda, ‘Stati’, che tratta tutti i membri delle Nazioni Unite, e la terza, ‘Organizzazioni internazionali’, nella quale sono analizzate le maggiori istituzioni internazionali. Valore aggiunto e indispensabile compendio alla trattazione sono gli oltre 700 grafici, 200 carte tematiche e 400 box di approfondimento che corredano l’opera. In particolare, la cartografia tematica esula dal canone classico della piccola scala: è infatti presente un gran numero di carte regionali a scala media e persino grande, costruite sulla ricca e pregevole base del recente Atlante Geografico Treccani.
Un nuovo ruolo per un esercito ‘nuovo’
Fintanto che è durata la Guerra fredda, il compito principale dell’esercito italiano è rimasto quello di coprire il fianco sud della NATO nell’eventualità di una guerra convenzionale in Europa; tale missione implicava il mantenimento di un esercito relativamente numeroso, reclutato attraverso la leva obbligatoria secondo una tradizione risalente ai primordi dello Stato unitario italiano. Il crescente coinvolgimento in missioni umanitarie all’estero ha imposto di mettere invece l’accento sul reclutamento di soldati professionisti, arruolati su base volontaria e disponibili a essere impiegati anche ben lontano dai confini nazionali: un esempio forse estremo è quello della pur breve missione effettuata da 200 carabinieri paracadutisti del battaglione Tuscania a Timor Est nel 1999. In un certo senso, il mutamento del ruolo dell’esercito italiano ha dunque contribuito a cambiare anche quest’ultimo, probabilmente favorendo l’abolizione de facto (anche se non de jure) del servizio militare di leva nel 2005.
Dalla primavera araba all’intervento in Libia
di Gregory Alegi
Dall’Egitto alla Siria, nell’inverno e nella primavera 2011 il Nord Africa e il Medio Oriente hanno visto esplodere (anche grazie alle possibilità di coordinamento offerte da Internet e telefoni cellulari) movimenti spontanei contro i regimi autocratici e familistici al potere da decenni. Se è ancora difficile prevedere l’esito finale e valutare il reale significato delle agitazioni, in particolare in termini di un eventuale progresso democratico, è chiaro che l’Italia è stata subito colpita dalla rapidità con la quale l’instabilità dell’area mediterranea ha generato una nuova ondata migratoria difficile da gestire.
Il conflitto tra il ruolo mediterraneo e gli obblighi europei è divenuto evidente con la crisi in Libia, dove nel febbraio 2011 sono scoppiate, soprattutto in Cirenaica, le rivolte che hanno portato alla fine del regime di Muhammar Gheddafi. L’iniziale imbarazzo dell’Italia, che sotto il governo di Silvio Berlusconi aveva rinforzato i rapporti commerciali con il paese libico, coltivati peraltro con continuità anche dai governi precedenti, sia in campo petrolifero sia, più recentemente, nell’industria della difesa e della sicurezza, era stato superato in seguito all’adozione della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, associandosi alle azioni militari per fermare gli scontri armati a Bengasi e in Cirenaica, autorizzate il 19 marzo da un gruppo di paesi europei.
Quando la ‘coalizione volontaria’, trainata da Francia e Regno Unito ma coordinata dagli Stati Uniti, ha dato inizio all’operazione ‘Odyssey Dawn’, l’Italia ha contrinuito prima con la concessione di sette basi e poi, dal 20 marzo, svolgendo un ruolo attivo sia nella imposizione di un embargo navale e di una zona vietata al volo, sia nelle azioni contro obiettivi militari a protezione della popolazione civile. Il 31 marzo la missione transitava sotto comando NATO con il nuovo nome di ‘Unified Protector’, senza però accelerare la caduta di Gheddafi che era parsa così prossima e avvenuta solo il 20 ottobre. Sino a questa data gli aerei italiani hanno assicurato circa un decimo degli oltre 26.000 voli complessivi delle forze sotto comando NATO. Dopo aver colpito le infrastrutture militari tali azioni hanno preso di mira i canali di diffusione della propaganda del regime. Sin dall’inizio, in parallelo alle azioni militari, l’Italia ha però inviato aiuti umanitari a Bengasi per aprire un canale di comunicazione con il Consiglio nazionale libico in vista della necessità di ricostruire i rapporti con il paese.
Non solo all’estero
Negli ultimi decenni, l’esercito italiano è stato utilizzato per missioni non strettamente militari anche all’interno del territorio nazionale, per esempio in mansioni di mantenimento dell’ordine pubblico (a cominciare dall’operazione Vespri Siciliani del 1992, dopo gli attentati costati la vita ai giudici Falcone e Borsellino) e di recente addirittura per sgomberare dalla spazzatura le strade della città di Napoli e di altre località della Campania.
Opposizione alle missioni
Così come il consenso, anche l’opposizione alle missioni internazionali è stata, durante la seconda repubblica, ‘trasversale’ agli schieramenti politici. Essa è stata espressa soprattutto da forze politiche in qualche modo ’antisistemiche’ come Rifondazione comunista, la Lega Nord e l’Italia dei valori. Per esempio, nel 1997 il primo governo Prodi fu sul punto di entrare in crisi a causa dell’opposizione di Rifondazione comunista alla missione militare in Albania, e la pur limitata partecipazione italiana alla guerra in Kosovo fu resa possibile anche dalla diversa maggioranza che sosteneva il governo D’Alema, che non includeva i rifondazionisti. Più di recente, la Lega Nord ha espresso contrarietà alle missioni internazionali e in particolare alla partecipazione italiana all’intervento militare in Libia.